Quando poliziotti e magistrati crearono il più grande depistaggio della storia italiana

 

Il pomeriggio del 19 luglio 1992 c’è un certo silenzio in via Mariano D’Amelio. È estate, è domenica e mancano pochi minuti alle cinque, un’ora in cui Palermo è ancora avvolta dal torpore. Fra le varie macchine parcheggiate lungo la via c’è una Fiat 126. Si scoprirà poi che era stata rubata. Via D’Amelio non è una strada sicura: è molto stretta e difficile da “bonificare”, tanto che il giudice Antonino Caponnetto aveva chiesto alle autorità di Palermo di vietare il parcheggio di veicoli, ma la richiesta era rimasta senza seguito.

Alle 16:58 un telecomando a distanza fa detonare 90 chilogrammi di esplosivo nascosti all’interno di quella 126 parcheggiata davanti al numero 21. Paolo Borsellino stava suonando il citofono del numero 19, dove abitavano Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino, madre e sorella del giudice.
Insieme a lui, nell’esplosione perdono la vita i cinque agenti di scorta Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano ed Emanuela Loi, la prima donna a far parte di una scorta, purtroppo anche la prima a cadere in servizio.
Antonino Vullo, unico agente sopravvissuto all’attentato, descriverà quel momento così: “Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno”. In quell’inferno ha inizio il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. 

I giorni seguenti la strage di via D’Amelio sono pieni di tensione e angoscia. I magistrati e i poliziotti di Palermo protestano, i familiari di Paolo Borsellino rifiutano i funerali di Stato, la sensazione diffusa è che la mafia possa tutto: ha ucciso chi le dava più fastidio e lo ha fatto con una violenza dirompente. Sembra che sia più forte dello Stato, che infatti si appresta a inviare in Sicilia l’esercito. Mai più che in questo momento c’è la necessità di poter dare qualcuno in pasto all’opinione pubblica, un colpevole contro cui sfogarsi. Le indagini vengono assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” comandato da Arnaldo La Barbera, capo della Squadra Mobile di Palermo, ex collaboratore del Sisde.
Le prime indagini sono una carrellata impietosa di
errori, omissioni e iniziative grottesche: per esempio, non solo gli interrogatori dei testimoni sono pochissimi, ma non vengono ascoltati neanche alcuni degli inquilini del palazzo in cui abitavano la madre e la sorella di Paolo Borsellino, la cui importanza emergerà solo vent’anni dopo; e ancora, per tre mesi e mezzo non si saprà nulla della borsa del magistrato, come non si saprà – ancora oggi – dell’agenda rossa che il giudice portava sempre con sé e di cui i familiari denunciano fin da subito la scomparsa.

Nonostante questi evidenti errori investigativi, già il 13 agosto il Sisde di Palermo comunica di aver individuato l’automobile usata per la strage e la carrozzeria dove era stata preparata. Il 29 settembre 1992 viene presentato al pubblico il “colpevole”: ha 27 anni, si chiama Vincenzo Scarantino ed è accusato da altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza sessuale. Il procuratore di Caltanissetta e titolare dell’inchiesta Giovanni Tinebra annuncia l’arresto di Scarantino esaltando il “lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio”. 

La figura di Scarantino però è ben lontana da quella dell’oscuro e potente cattivo, anzi è una vera delusione, e sa di costruito. Si tratta di un ragazzo, di modestissimo livello intellettuale, che è stato bocciato tre volte alle elementari e si guadagna da vivere come piccolo spacciatore non affiliato a Cosa Nostra, anche se nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove ha la fama dello scemo. Perché Cosa Nostra avrebbe dovuto affidare un omicidio così importante a uno come lui? C’è però la confessione, e col passare del tempo l’improbabile Scarantino viene presentato dalla Procura come fine stratega, reclutatore, addirittura invitato alle riunioni della Cupola. I giornalisti obiettano, fanno domande, in città sanno che Scarantino è uno che ruba macchine per pagarsi l’eroina. Ma nella prima conferenza stampa il procuratore Tinebra ribadisce: “Scarantino non è uomo di manovalanza”.

Il 3 gennaio 1994 la procura di Caltanissetta chiede il rinvio a giudizio delle quattro persone a suo dire responsabili di avere partecipato alla strage di via D’Amelio: il presunto boss Salvatore Profeta, suo cognato Vincenzo Scarantino, Pietro Scotto e Vincenzo Orofino. Sei mesi dopo, arriva la notizia del pentimento di Vincenzo Scarantino, che è possibile datare al 24 giugno 1994. Il 26 luglio 1995 il pentito viene rintracciato da un giornalista di Studio Aperto a cui dichiara di aver “deciso di dire tutta la verità e di non collaborare più, perché ho detto tutte bugie. Non è vero niente, sono tutti articoli che ho letto nei giornali e ho montato tutta questa cosa”. Alla domanda del giornalista che lo ha rintracciato se “quindi sono tutti innocenti quelli che lei ha nominato?”, Scarantino risponde: “Tutti innocenti, me ne vado in carcere e lo so che mi faranno orinare sangue e mi faranno morire in carcere. Però morirò con la coscienza a posto”. Il giorno dopo, Scarantino fa marcia indietro: “È stato solo un momento di sconforto, confermo la mia volontà di collaborare con la giustizia”. Lo dice al pubblico ministero di Caltanissetta Carmelo Petralia.

Nonostante i dubbi sull’onestà di Scarantino – espressi anche da Ilda Boccassini, anche lei in quel periodo a Caltanissetta –  il 27 gennaio 1996arriva la prima sentenza per la strage di via D’Amelio: ergastolo per Orofino, Scotto e Profeta. Vincenzo Scarantino viene condannato a 18 anni di reclusione. Con ordinanza separata, la Corte concede la scarcerazione di Scarantino, già da tempo detenuto in una struttura extra-carceraria, osservando che con “la sua scelta di collaborare ha rotto ogni legame con gli ambienti criminali”. Scarantino continua a smentirsi, poi a ritrattare, poi a denunciare, emergono testimonianze di pressioni sulla sua famiglia, di verbali ritoccati a piacere dai poliziotti. Ma ogni anomalia riscontrata viene attribuita alla mafia stessa. Il pm Nino Di Matteo scrive in una requisitoria che le ritrattazioni dell’imputato sono “tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene”, che “la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni”. Poco importa che dopo aver interrogato Scarantino per un altro caso, il procuratore di Palermo Sabella lo avesse invece ritenuto “fasullo dalla testa ai piedi”.

E invece in tutti i gradi successivi del processo –  il Borsellino 2, il Borsellino Ter – l’attendibilità, e quindi la colpevolezza, di Scarantino viene certificata da qualcosa come ottanta giudici, tra Assise, Appello e Cassazione.
Nonostante continuino a venir fuori passaggi inquietanti, come quello del verbale aggiustato del 1994, oggetto anche di un’
interrogazione parlamentare che aspetta ancora la risposta dell’allora governo D’Alema, Scarantino riesce solo a ottenere altre condanne: addirittura il 22 novembre 2002 viene condannato a otto anni di reclusione dal Gip di Roma Renato Croce per calunnia nei confronti dei pm palermitani Anna Palma, Carmelo Petralia e di Arnaldo La Barbera, che muore il 12 dicembre di quell’anno. Prima di morire però, anche e soprattutto grazie ai “meriti” nell’inchiesta su via D’Amelio, era diventato prima Questore di Palermo e di Napoli, poi Prefetto e capo dell’Ucigos della polizia, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali. Le ultime immagini pubbliche di La Barbera sono sempre di luglio, ma del 2001. Si distingue come uno dei macellai dell’assalto della scuola Diaz durante il G8 di Genova. 

Sembra tutto finito, ma il 15 ottobre 2008 diventa ufficiale il pentimento di Gaspare Spatuzza, killer del gruppo di fuoco dei fratelli Graviano, boss di Brancaccio. Spatuzza fa una rivelazione che spiazza e sbugiarda definitivamente Scarantino: “Fui io a rubare la 126 usata come autobomba per la strage di Via D’Amelio. A commissionarmi il furto furono i fratelli Graviano”. Le dichiarazioni di Spatuzza trovano riscontro in tutti i punti che riguardano la strage di via D’Amelio: Scarantino è un falso “pentito” a cui troppi magistrati hanno creduto, in modo cieco. Spatuzza continua a fornire prove, indirizzi, particolari completamente diversi da quelli che fino ad allora una schiera di magistrati aveva valutato “perfettamente riscontrati” con l’“attendibilissimo” pentito Scarantino. Così facendo, apre delle profonde crepe sul processo che in teoria è già concluso definitivamente per mandanti ed esecutori della strage. Pur nell’imbarazzo generale, la Procura di Caltanissetta decide di riaprire le indagini sulla strage di via d’Amelio: nel 2009 gli ex collaboratori di giustizia Scarantino, Candura e Andriotta avevano dichiarato ai magistrati di essere stati costretti a collaborare dal questore Arnaldo La Barbera e dal suo gruppo investigativo, che li avevano sottoposti a forti pressioni psicologiche, maltrattamenti e minacce per spingerli a dichiarare il falso. Gli ergastolani vengono quindi scarcerati – alcuni hanno già scontato tutta la pena per la collaborazione alla preparazione dell’attentato – ma non assolti, la condanna per mafia resta. 

Nel 2013 si apre il quarto processo per la strage di via d’Amelio, denominato “Borsellino Quater” e ribattezzato processo sulla Trattativa, che vede imputati Vittorio Tutino, Salvatore Madonia e gli ex collaboratori Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Il 13 luglio 2017 si è concludecon l’assoluzione di tutti gli imputati. La sentenza della Corte di Assise definisce quello sulla strage di via D’Amelio “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Un depistaggio che non si è ancora concluso. Oggi però abbiamo la certezza che “Soggetti inseriti negli apparati dello Stato” abbiano indotto Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage che uccise il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e i poliziotti della scorta. La corte d’assise non fa nomi, però scrive: “Un insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata”. 

Per questo oggi, dopo ventisette anni a giudizio ci sono già tre poliziotti come Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di depistaggio – e  il Ministero dell’Interno ha deciso di non costituirsi parte civile contro di loro, senza nemmeno sforzarsi di provare a “lanciare un segnale contro le mele marce”. Sotto indagine per concorso in calunnia aggravata dall’avere favorito Cosa Nostra sono finiti anche gli ex pm di Caltanissetta Annamaria Palma e Carmelo Petralia, entrambi nel 1992 nel pool di magistrati che stava indagando sulla strage di via D’Amelio.

Troppo spesso gli anniversari della morte di persone come il giudice Paolo Borsellino servono a far dimenticare le nefandezze compiute da chi quelle persone avrebbe dovuto proteggerle e tutelarle. Ma è proprio a causa di quella mancata protezione prima, e di oscure manovre poi – che forse non conosceremo mai – che si è reso possibile un depistaggio che ha impedito la ricerca della verità, che ha mandato all’ergastolo (e al 41 bis, il carcere severissimo) nove persone estranee a quell’accusa per 11 anni e ha coinvolto decine di investigatori, di magistrati e di uomini delle istituzioni rimasti ancora impuniti. È questo che oggi dovremmo ricordarci oggi. Per far sì che non accada mai più.

THEVISION 19 luglio 2019


 

‘ ECCO PERCHE’ UCCISI BORSELLINO’

PALERMO – “Enzuccio” ha parlato. Fu lui ad imbottire di tritolo l’ auto che massacrò Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Ha deciso di collaborare con i giudici di Caltanissetta. Da un mese Vincenzo Scarantino, il carrozziere della Guadagna arrestato qualche mese dopo la strage di via D’ Amelio, sta facendo nomi e cognomi di esecutori e mandanti. La notizia, “sparata” ieri nella prima edizione del Tg5, circolava da qualche giorno negli ambienti giudiziari senza trovare conferme. Sarebbe stata la famiglia mafiosa di Santa Maria del Gesù ad uccidere Paolo Borsellino. Una risposta ai corleonesi di Totò Riina che due mesi prima avevano massacrato sull’ autostrada Giovanni Falcone e tre agenti. Riina, secondo quanto ha detto Scarantino ai magistrati nisseni, non avvertì le cosche palermitane. Per questo Pietro Aglieri, capomandamento di Santa Maria del Gesù, organizzò con i suoi uomini la strage del 19 luglio del ‘ 92. L’ attentato di via D’ Amelio, dunque, sarebbe stato una dimostrazione di forza della mafia di Palermo e un segnale preciso per far capire ai corleonesi che in città non comandavano solo loro. Nell’ estate del ‘ 92, secondo Scarantino, stava per scoppiare una nuova sanguinosa guerra di mafia. Poi però ci fu il chiarimento tra Riina e le famiglie palermitane. Rivelazioni del tutto nuove, anche perché la fedeltà di Aglieri al capo dei capi non era stata mai messa in discussione da altri collaboratori della giustizia. I magistrati, inoltre, stanno confrontando le dichiarazioni di Scarantino con quelle di Salvatore Cancemi, il boss di Porta Nuova e che ha indicato la Cupola come mandante delle stragi dell’ estate del ‘ 92. In centinaia di pagine di verbali Vincenzo Scarantino ha raccontato ai giudici di Caltanissetta le fasi dell’ agguato di via D’ Amelio: quella torrida domenica di luglio, la trappola contro il procuratore aggiunto di Palermo era stata preparata nei minimi dettagli. Poi, alle 16.58 del 19 luglio, la Fiat 126 color amaranto, posteggiata proprio davanti all’ abitazione della madre del giudice Borsellino, saltò in aria con i suoi trecento chili di tritolo piazzati sul cofano. “Enzuccio” Scarantino ha indicato tutti i responsabili di quell’ attentato: si tratterebbe di alcuni boss latitanti delle famiglie mafiose palermitane. Sarebbero stati loro a chiedere al carrozziere della Guadagna di procurarsi un’ auto da imbottire di esplosivo. Una scelta mirata: Scarantino, infatti, è cognato di Salvatore Profeta, condannato nel primo maxi-processo per associazione mafiosa, ritenuto uomo di fiducia di Pietro Aglieri. Profeta, arrestato a Piombino nell’ ottobre dello scorso anno mentre, da uomo libero, stava andando a trovare un amico rinchiuso nel carcere di Pianosa, è uno dei quattro presunti killer di Borsellino alla sbarra nel processo che comincerà a Caltanissetta il 4 ottobre prossimo. Gli altri imputati, oltre allo stesso Scarantino, sono Pietro Scotto, il tecnico che intercettò l’ ultima telefonata del giudice alla madre, ed il garagista Giuseppe Orofino che avrebbe procurato la targa falsa della Fiat 126. Già prima di pentirsi, Vincenzo Scarantino si era rivelato un collaboratore importantissimo per i giudici siciliani. Rinchiuso nel carcere di Rebibbia, “Enzuccio” aveva tentato di tagliarsi le vene: “Da quando sono lontano dalla mia famiglia – disse in quell’ occasione – mi trovo in uno stato di profonda prostrazione morale”. Venne messo in cella con Francesco Andriotta, un altro uomo d’ onore al quale raccontò le fasi della strage di via D’ Amelio. Poi Andriotta decise di collaborare con la giustizia e ai magistrati riferì quelle confessioni. Fu la svolta alle indagini: uno dopo l’ altro vennero arrestati Vincenzo Scotto, Pietro Orofino e Salvatore Profeta. La fuga di notizie sul “pentimento” di Vincenzo Scarantino ha fatto andare su tutte le furie i giudici di Caltanissetta: “Non posso né confermare né smentire – ha detto il procuratore aggiunto Paolo Giordano – ma queste indiscrezioni sono molto pericolose perché i familiari di Scarantino non sono protetti”. L’ avvocato Mario Zito, legale dell’ imputato, ha spiegato di aver avuto sabato un colloquio con il suo cliente nel carcere di Pianosa: “Abbiamo parlato del processo e della linea difensiva. Era tranquillo, e non ho alcun elemento per confermare questa indiscrezione”. Stesso commento da parte del giudice Piero Grasso, della Direzione nazionale antimafia: “In ogni caso – ha affermato – trovo pericoloso che questo genere di notizie vengano diffuse per televisione”.

 


Borsellino, Mattarella: “Troppi errori nelle indagini”. Il Csm ricorda magistrato e scorta

 

«La tragica morte di Paolo Borsellino, insieme a coloro che lo scortavano con affetto, deve ancora avere una definitiva parola di giustizia. Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage di via D’Amelio, e ancora tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato». Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è chiaro alla cerimonia di commemorazione di Paolo Borsellino al Csm, plenum dedicato alla desecretazione degli atti del fascicolo personale del magistrato a 25 anni dalla strage di via D’Amelio, il 19 luglio 1992, 57 giorni dopo l’attentato di Capaci in cui persero la vita Giovanni Falcone e i suoi agenti.

«Paolo Borsellino ha combattuto la mafia con la determinazione di chi sa che la mafia non è un male ineluttabile ma un fenomeno criminale che può essere sconfitto – ha aggiunto Mattarella -. Sapeva bene che, per il raggiungimento di questo obiettivo, non è sufficiente la repressione penale ma è indispensabile diffondere, particolarmente tra i giovani, la cultura della legalità».

La desecretazione del fascicolo

All’ordine del giorno la delibera della Sesta Commissione, relatori i Consiglieri Ercole Aprile e Antonio Ardituro, che autorizza la pubblicazione di tutti gli atti e i documenti relativi al percorso professionale del giudice Borsellino, dal suo ingresso in magistratura, nel 1963, fino alla tragica morte del 19 luglio 1992, quando vennero uccisi anche 5 agenti della sua scorta. Tutta la documentazione su Paolo Borsellino, custodita per 25 anni nel caveau di Palazzo dei Marescialli sarà online sul sito istituzionale del Consiglio e, come avvenuto per Giovanni Falcone, l’intera documentazione è stata raccolta e pubblicata in un volume dal titolo «L’antimafia di Paolo Borsellino».

Capaci-via D’Amelio. Cinquantasette giorni separano le due stragi di mafia

Una domenica d’estate, è il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 anni in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la Procura di Marsala, pranza a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si reca con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivono la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa 100 chili di tritolo a bordo, esplode al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Sono le 16.58. La deflagrazione, nel cuore di Palermo, viene avvertita in gran parte della città. L’autobomba uccide Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto entrata a far parte di una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo. Sono passati cinquantasette giorni dalla strage di Capaci.

Legnini: “Fare piena luce su tragica estate del 1992”

«Rivolgo un pensiero di gratitudine a tutti i familiari delle vittime della strage di Via D’Amelio. Verso di loro avvertiamo il dovere di sostenere con forza un’insopprimibile domanda di giustizia – ha sottolineato il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini-; essa chiama tutti in causa, senza eccezioni, e dunque ribadiamo la necessità di fare luce piena su quegli eventi di sangue, fino in fondo e senza temere lo scorrere del tempo che ci separa dalla tragica estate del 1992. Questo intendiamo ribadire alla presenza del Capo dello Stato».

 

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Mafia, l’archivio segreto degli 007. Ecco le carte su omissioni e depistaggi

di  ATTILIO BOLZONI e SALVO PALAZZOLO
PALERMO – È l’archivio dei “non so” e dei “non ricordo”, dei silenzi e delle amnesie di quei funzionari dei servizi segreti che hanno indagato sulle uccisioni di Falcone e di Borsellino. È l’archivio dei ciechi, dei muti e dei sordi. L’archivio delle verità sepolte. Sui sopralluoghi a Capaci. Sugli avvistamenti in autostrada prima del 23 maggio 1992. Sul pericolo di attentati futuri. C’è anche il capitolo scabroso del falso pentito Vincenzo Scarantino e del suo depistaggio.

Sono 318 i documenti top secret finiti nella relazione conclusiva della commissione parlamentare antimafia sulle stragi, montagne di carta straccia e poi qualche atto che rivela qua e là tutte le reticenze degli apparati di sicurezza, analisi senza influenza diretta sulle investigazioni e alcuni fogli che dimostrano la memoria corta degli 007 sul campo o al contrario – come nel caso dell’inchiesta taroccata sugli assassini di Paolo Borsellino – una “frenesia” molto sospetta. Questi documenti – che provengono dall’Aise, l’ex Sismi, il servizio segreto militare, e dall’Aisi, l’ex Sisde, il servizio segreto civile – sono stati richiesti dalla procura di Caltanissetta e dall’Antimafia e ancora oggi sono “coperti”. Siamo riusciti a conoscere il contenuto dei più rilevanti, quei pochi con dentro qualche notizia che ha allarmato i magistrati nisseni. Il presidente Beppe Pisanu ha definito questo materiale “un carteggio piuttosto disomogeneo”, il procuratore Sergio Lari nella richiesta di revisione del processo Borsellino li ha giudicati (alcuni) “inquietanti”, denunciando “il totale oblio da parte di diversi protagonisti”. Cioè i capi dei servizi di stanza in Sicilia nell’estate ’92.

Dopo vent’anni di misteri, ecco cosa hanno trasmesso sulle loro attività d’indagine.
Un appunto del 25 maggio ’92, due giorni dopo Capaci, riferisce che la Direzione del Sisde di Roma aveva inviato una squadra a Palermo per un sopralluogo. Da un altro appunto si deduce che quell’ispezione aveva l’obiettivo “di fare un prelievo di materiale roccioso, da sottoporre a successivo esame chimico esplosivistico”. I risultati della missione sono ancora oggi ignoti. Nessuno ne ha mai saputo nulla. Neanche il vice capo centro del Sisde a Palermo in quegli anni, L. N., che ai magistrati ha risposto: “Fu il generale C., vice direttore pro tempore del nucleo tecnico scientifico, a inviare dei tecnici subito dopo la strage di Capaci, per effettuare un sopralluogo. Questo invio di tecnici noi lo subimmo, unitamente al capo centro R. e in merito a tale attività non fummo mai messi al corrente dei motivi e dei risultati”.

Informativa del 28 maggio 1992 (protocollo 1495/z. 3068) spedita dal centro Sisde di Palermo alla Direzione di Roma. Oggetto: “Progetto di attentato in persona del dottor Paolo Borsellino”. Sono passati solo cinque giorni da Capaci e i servizi avevano già la notizia, da “fonte confidenziale” ben informata, che Cosa Nostra aveva in programma di uccidere il procuratore. Fu mai comunicata questa notizia all’autorità giudiziaria? Sempre il vice capo centro del Sisde di Palermo L. R ai magistrati: “Ritengo sia una nota sviluppata dall’agenzia di Trapani, all’epoca diretta dal dottore G. e nulla so dire in merito”.

Nota inviata dal centro Sisde di Palermo alla direzione di Roma il 24 maggio 1992 (protocollo 1445/z. 8448) e con oggetto una telefonata anonima di un camionista, “che riferiva di aver notato la sera del 22 maggio ’92 un furgone fermo sulla corsia di emergenza” all’altezza dello svincolo di Capaci. Chi aveva telefonato? Qualcuno ha mai indagato? Chi era il camionista? Il 9 dicembre, gli 007 di Palermo acquisiscono un’altra informazione “circa la presenza di due individui sulla carreggiata dell’autostrada Punta Raisi Palermo, il giorno precedente l’attentato di Capaci”. Dal centro Sisde di Palermo parte per la Direzione di Roma la nota (protocollo 3417/z.8448) ma non si conosce a chi altro è stato indirizzato l’avviso.

È con molta solerzia invece che dal Sisde vengono fatte arrivare alla magistratura, il 24 maggio e il 4 agosto del 1992, due dettagliate segnalazioni (protocollo 1446/z.3448 e 2214/z.3068) con le quali s’ipotizzava – su base di mere congetture – il coinvolgimento del clan Madonia nelle stragi Falcone e Borsellino, due note firmate da Bruno Contrada, il coordinatore del gruppo d’indagine dei Servizi sulle stragi che pochi mesi dopo sarà arrestato per concorso in associazione mafiosa.
Il documento più inquietante resta quello in cui il Sisde di Palermo annuncia alla direzione (protocollo 2298/z. 3068), già il 13 agosto 1992, imminenti novità “circa gli autori del furto della macchina ed il luogo ove la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”. È la vicenda del falso pentito Enzo Scarantino, l’uomo che si è autoaccusato della strage di via D’Amelio trascinando con sé una mezza dozzina di innocenti. Con un’altra nota (protocollo 2929/z. 3068) il 19 ottobre il centro Sisde informa non solo Roma ma anche la Questura di Caltanissetta sulle parentele mafiose “importanti” di Scarantino. Un falso. Per avvalorare la pista imboccata sul pentito bugiardo.

Scoperto il depistaggio, molti anni dopo i procuratori di Caltanissetta chiederanno conto al capo centro Sisde di Palermo di quelle due note. La risposta di R.: “La firma potrebbe essere la mia”. Poi, precisa di non ricordare bene il contenuto di quelle segnalazioni, “ma escludo di aver acquisito personalmente le informazioni ivi contenute poiché non vantavo all’interno delle strutture investigative territoriali una forza di penetrazione di siffatta portata”. Potrebbe. Non vantava. Escludendo. Che sicurezza hanno garantito i servizi di sicurezza a Palermo? Tutto qui il loro archivio sulle stragi?


30 Settembre 1992 – Vincenzo Scarantino:
“Si sono inventati tutto”.
Il fratello, Rosario Scarantino: “Il procuratore Tinebra deve cercare nelle sue tasche i colpevoli e non rovinare le povere famiglie”.

 

In questo castello di menzogne costruite per mettere in atto un depistaggio che è è stato tenuto in piedi per venti anni, le uniche verità le hanno dette i mafiosi, smentendo che a quel balordo che veniva loro mostrato potesse essere stato affidato un compito di tale portata nella preparazione e nell’esecuzione della strage di via D’Amelio. 

Che ruolo hanno avuto il procuratore Giovanni Tinebra e il PM Anna Palma in questo depistaggio?
Perchè Vincenzo Scarantino viene arrestato alla fine di una puntata di Servizio Pubblico in cui sono stati fatti questi nomi, per un mandato di cattura, relativo ad un episodio vecchio di mesi, che non è stato neppure esibito?
Perchè in questi mesi non sarebbe stato possibile, per irreperibilità dello stesso Scarantino, eseguire questo mandato di cattura quando la giornalista Dina Lauricella di Servizio Pubbliconon ha avuto difficoltà a trovarlo ed intervistarlo?
Che cosa si prepara ora per Vincenzo Scarantino? Un altro periodo di detenzione in cui a forza di violenze fisiche e morali lo si convinca a rassegnarsi alla sua sorte e di tacere su qualsiasi elemento che possa aiutare i giudici ad individuare i veri autori del depistaggio?

Non gli esecutori, non Arnaldo La Barbera, ormai morto e i funzionari di polizia che si sono trincerati al processo di Caltanissetta dietro la facoltà di non rispondere, ma quegli altri pezzi di uno Stato deviato che il depistaggio hanno ordito ed avallato nelle aule di Giustizia in ben tre gradi di processo.


Borsellino, tutti assolti dall’accusa di strage

Processo revisione dopo le rivelazioni di Spatuzza

La corte d’appello di Catania, che celebrava il processo di revisione delle condanne, alcune delle quali all’ergastolo, emesse a Caltanissetta a carico di 9 persone coinvolte ingiustamente nell’attentato al giudice Paolo Borsellino, ha assolto tutti gli imputati dall’accusa di strage. Il processo di revisione è stato chiesto, inizialmente, dalla procura generale di Caltanissetta ed è stato celebrato a Catania, come prevede la legge.

A consentire il nuovo giudizio sono state le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza. Dopo le dichiarazioni di Spatuzza, che ha riscritto la storia della fase esecutiva della strage, smentendo le menzogne raccontate da pentiti come Vincenzo Scarantino, per nove persone, ingiustamente condannate a vario titolo per l’eccidio, tra cui lo stesso Scarantino, è stata chiesta la revisione del processo.

Per quelle che erano detenute è stata anche sospesa l’esecuzione della pena che era ormai definitiva.

Il giudizio di revisione riguarda Gaetano Murana, difeso dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, assistito da Giuseppe Scozzola, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura. Quest’ultimo era stato condannato solo per il furto della macchina che venne imbottita di tritolo e non per il reato di strage, mentre Orofino era stato ritenuto responsabile di appropriazione indebita, favoreggiamento e simulazione di reato. Tomassello aveva avuto una condanna per associazione mafiosa e non per strage. Le pg di Catania avevano chiesto per tutti la revisione tranne che per Tomasello, sostenendo che a suo carico non ci fossero elementi per una valutazione nuova. La corte d’appello, invece, ha assolto anche lui. Resta per chi ne rispondeva, tranne per Tomasello, la condanna per mafia già abbondantemente scontata da tutti tranne che da Scotto. Sarà ora la corte d’appello di Caltanissetta a dover rideterminare la pena, passaggio fondamentale per quantificare i risarcimenti dei danni che chi è stato condannato ingiustamente chiederà. Da risarcire, infatti, saranno solo i danni derivanti dalla ingiusta condanna per strage, visto che quella di mafia è definitiva. I risarcimenti potranno essere richiesti quando la sentenza di oggi diventerà definitiva   


“Io torturato e costretto a mentire” Ecco lo scoop censurato su Borsellino

UNO SCOOP soffocato, un’indagine contorta che si rivelerà poi un gigantesco depistaggio, un pentito che si pente di essersi pentito e una sua intervista cancellata per seppellire ogni prova. Anche così hanno deviato l’inchiesta sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino. E per “legge” l’hanno incanalata su una falsa pista. I misteri sulla strage di via D’Amelio non finiscono mai. E adesso si scopre che diciotto anni fa la magistratura aveva ordinato di far sparire una registrazione televisiva – con un provvedimento di sequestro – sulla prima ritrattazione del famigerato Vincenzo Scarantino, il finto collaboratore di giustizia che si era autoccusato del massacro offrendo un’ingannatrice ricostruzione del massacro e indicando come suoi complici sette innocenti. Tutto su suggerimento di uomini di apparati dello Stato.

Dopo le sue confessioni, Vincenzo Scarantino aveva subito fatto marcia indietro affidando alle telecamere di Studio Aperto la sua verità. La procura di Caltanissetta ha deciso nel 1995 che quella verità non poteva diventare pubblica e, subito dopo la messa in onda dell’intervista, ne ha imposto la distruzione dagli archivi e perfino dai server. Quell’intervista non doveva più esistere. E così è stato, almeno ufficialmente. Perché qualcuno, probabilmente un tecnico disubbidiente, ne ha conservato una copia – invano cercata dai pm, che oggi indagano sulle indagini e che hanno smascherato il depistaggio della vecchia inchiesta – di cui Repubblica è entrata in possesso. Basta ascoltare la voce di Scarantino per capire che lui aveva già detto tutto, tutto quello che si sarebbe scoperto quasi vent’anni dopo. Ma nulla si doveva sapere allora, c’era solo una verità da far emergere: Vincenzo Scarantino colpevole. I pm di Caltanissetta di oggi stanno ancora indagando su ciò che è accaduto – chi ha taroccato l’inchiesta fin dai primi passi, perché – ma nei loro archivi non hanno trovato neanche il fascicolo originale del sequestro di quella video-cassetta.

Scomparso anche quello. Adesso vi raccontiamo nei dettagli questa vicenda, precisandovi che la video cassetta recuperata (e che potete trovare su Repubblica. it) contiene solo una parte dell’intervista concessa da Scarantino. È lunga quasi tre minuti. La versione integrale non esiste più. Ma in quei tre minuti trasmessi vent’anni fa e mai più riproposti il falso pentito dice tutto.
E tutto è cominciato il 26 luglio 1995, tre anni dopo la morte di Paolo Borsellino.
Il mafioso che si era autoaccusato della strage telefona alla redazione di Studio Aperto a Palermo. Per la prima volta ammette di essersi inventato ogni dettaglio sull’autobomba, di avere fatto nomi di uomini innocenti dopo le torture subite nel supercarcere di Pianosa. Passano poche ore e, negli studi della redazione di Italia Uno, arriva la polizia e sequestra tutte le cassette con l’intervista di Scarantino. Il provvedimento è firmato dalla procura di Caltanissetta. L’ordine è quello di cancellarla da tutti i computer, a Palermo e a Milano. Il falso pentito – subito dopo il servizio televisivo – viene raggiunto dai magistrati di Caltanissetta che lo convincono a ritrattare la ritrattazione. È la svolta dell’inchiesta sulla strage di via Mariano D’Amelio.

La procura, il capo è Giovanni Tinebra, mette il sigillo sull’autenticità delle rivelazioni false di Scarantino. Per più di quindici anni il “caso” viene dimenticato, fino a quando appare sulla scena un nuovo pentito – Gaspare Spatuzza – che smentisce Scarantino e racconta che ad organizzare la strage era stato lui e non l’altro. Nell’autunno del 2010 la revisione del processo e la scarcerazione di sette imputati, ingiustamente condannati all’ergastolo. Poi, qualche giorno fa, anche la registrazione dell’intervista a Scarantino è ricomparsa.

Ecco cosa diceva il 26 luglio del 1995 al giornalista Angelo Mangano: “Ho deciso di dire tutta la verità e di non collaborare più perché ho detto tutte bugie. Io sono innocente… Non è vero niente, sono tutti articoli che ho letto sui giornali, e ho inventato tutte queste cose. Il giornalista gli chiede se gli uomini che lui ha accusato sono innocenti, Scarantino risponde: “Tutti, tutti, tutti…”. Poi, in una seconda parte dell’intervista – uno spezzone andato in onda il giorno dopo, il 27 luglio – il falso pentito comincia a parlare delle torture subite in carcere: “”A me a Pianosa mi fanno urinare sangue. A me facevano delle punture di penicillina, mi stavano facendo morire a Pianosa… ma voglio tornare in carcere… mi fanno morire in carcere, però morirò con la coscienza a posto”.

Scarantino fa anche un nome nell’intervista (che però non è andato in onda) e lo rivela oggi Angelo Mangano: “Gli chiesi: “Chi le ha fatto urinare sangue? Mi rispose: il dottore La Barbera””. Arnaldo La Barbera, il capo della squadra mobile di Palermo che l’attuale procura di Caltanissetta considera il principale responsabile della gigantesca montatura che è stata l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio.
I retroscena di quell’intervista ce li racconta Mangano: “Nacque in modo del tutto casuale. La mattina del 26 luglio 1995 si era avuta notizia da ambienti giudiziari di una ritrattazione di Scarantino, decisi dunque di andare a casa della madre, alla Guadagna. La signora mi fece sentire una registrazione in cui il figlio ritirava le accuse, una registrazione che si sentiva male. Diedi allora il mio numero alla signora, e neanche un’ora dopo fu Vincenzo Scarantino a chiamarmi”.

Qualche mese prima si era già concluso il primo processo per la strage Borsellino, con la condanna del falso testimone a 18 anni e con l’ergastolo per i complici che aveva indicato. Due giorni dopo l’intervista e il sequestro della cassetta, Scarantino decise di fare il pentito in un verbale firmato davanti al sostituto procuratore di Caltanissetta Carmelo Petralia. Poi le indagini proseguirono su una falsa pista. E la procura di Caltanissetta aprì addirittura un’inchiesta “per accertare eventuali comportamenti illeciti per convincere Scarantino a ritrattare”. Seguì una nota ufficiale dei pm per definire “grave il comportamento della madre di Scarantino e di quanti hanno strumentalizzato un comprensibile desiderio d’affetto per fini processuali”. Il “colpevole” era stato trovato, non ce ne dovevano essere altri. Quella era la verità sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino. Ufficiale e falsa.


Si pente il sicario di don Puglisi

In Cosa nostra ha percorso tutti i gradini di una veloce carriera criminale: da killer di borgata era diventato presto uno dei padrini di Brancaccio, uno dei protagonisti della strategia di morte che nel 1993 portò alle bombe di Milano, Firenze e Roma, ma anche al delitto di don Pino Puglisi. Da quattro mesi, Gaspare Spatuzza sta collaborando con i magistrati di Palermo e di Caltanissetta. E starebbe offrendo indicazioni importanti su quella pagina ancora per molti versi oscura della storia d’ Italia. Spatuzza è in cella dal 1997, le sue conoscenze sull’ universo mafioso sono datate. Ma sugli anni della sua ascesa criminale saprebbe molti particolari inediti, adesso al vaglio della magistratura. Al procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, Spatuzza avrebbe già parlato della strage di via D’ Amelio, offrendo una versione diversa da quella fornita dal pentito Vincenzo Scarantino e finita nelle sentenze ormai definitive. Spatuzza ha anche messo a verbale quelli che lui ritiene «riscontri» alle sue dichiarazioni, ma i magistrati sono prudenti e attendono di valutare complessivamente l’ attendibilità del boss di Brancaccio. Tra i primi fatti di cui il capomafia ha parlato con i pm di Palermo Antonino Ingroia e Nino Di Matteo c’ è invece il delitto Puglisi, da lui commesso su ordine dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, ormai condannati in via definitiva (come Spatuzza) all’ ergastolo. Il neo dichiarante conferma e integra i racconti degli altri pentiti: ammette le proprie responsabilità e chiarisce il contesto in cui maturò il delitto del parroco di San Gaetano, commesso il 15 settembre 1993. All’ apice della sua carriera criminale Spatuzza era diventato uno dei fedelissimi dei boss di Brancaccio. “U Tignusu”, come lo chiamavano, era inizialmente solo un rapinatore di borgata. Fu Salvatore Grigoli, il killer di don Pino, a cooptarlo nel gruppo. E non deluse. I servizi di Spatuzza li chiedeva spesso anche Leoluca Bagarella, nel ’93, dopo l’ arresto di Salvatore Riina, il corleonese più influente a Palermo. Fu così che in quegli anni Spatuzza finì per frequentare le riunioni importanti di Brancaccio in cui si decideva la prosecuzione della strategia delle bombe inaugurata da Riina. Poi, all’ improvviso, dopo Roma, Milano e Firenze, le bombe si fermarono. Il perché non è ancora chiaro. I corleonesi avrebbero avuto garanzie da alcuni ambienti politici e imprenditoriali. Qui inizia la zona più oscura per le indagini. Un lungo elenco di pentiti, molti provenienti dal clan di Brancaccio, ha offerto negli anni scorsi degli spunti, ma non sono stati sufficienti per arrivare a una verità. Spatuzza sa di certo di decine di omicidi, quelli per cui è stato condannato: da Marcello Drago a Domingo Buscetta (nipote del pentito storico di Cosa nostra) da Giuseppe e Salvatore Di Peri a Salvatore Buscemi. Era spietato Spatuzza. Dopo essere sfuggito alla cattura per ben tre, non esitò a far fuoco contro gli agenti della squadra mobile che si erano appostati all’ ospedale Cervello. Quel giorno, il killer aveva un appuntamento con un complice, ma trovò i poliziotti.


Depistaggio Borsellino, indagati per calunnia due pm

di Elvira Terranova 11.6.2019 adnkronos

Nuovo colpo di scena nell’inchiesta sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. A distanza di 27 anni dall’attentato in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, la Procura di Messina, come apprende l’Adnkronos, ha iscritto nel registro degli indagati, con l’accusa di calunnia aggravata, almeno due magistrati che indagarono sulle stragi del 1992. I loro nomi sono Annamaria Palma, Avvocato generale dello Stato, e Carmelo Petralia, Procuratore aggiunto di Catania. Secondo il Procuratore di Messina, Maurizio de Lucia, che coordina l’inchiesta, i due magistrati, in concorso con i tre poliziotti sotto processo a Caltanissetta, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, avrebbero depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio. Un depistaggio che i giudici della sentenza del processo Borsellino quater definirono “clamoroso”. Ai magistrati oggi è stato notificato dalla Procura di Messina, che indaga in quanto è coinvolto un magistrato in servizio a Catania, un avviso di accertamenti tecnici irripetibili.

Nello scorso novembre la Procura di Caltanissetta, che ha istruito il processo per il depistaggio delle indagini sull’attentato, aveva trasmesso una tranche dell’inchiesta ai colleghi messinesi perché accertassero se nella vicenda, ci fossero responsabilità di magistrati. Così la Procura di Messina ha aperto in un primo tempo un fascicolo di atti relativi, una sorta di attività pre-investigativa sfociata adesso in una inchiesta per calunnia aggravata in concorso per due magistrati, che potrebbero diventare presto tre.

Nel documento inviato dai pm di Caltanissetta a Messina si fa riferimento alla sentenza del processo Borsellino quater. Nelle motivazioni della sentenza i giudici della corte d’assise parlavano di depistaggio delle indagini sull’attentato al magistrato. Depistaggio su cui i pm di Caltanissetta hanno indagato e poi incriminato tre poliziotti del pool che indagò sull’eccidio, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Ma nella sentenza si denunciavano anche gravi omissioni nel coordinamento dell’indagine, costata la condanna all’ergastolo di otto innocenti, coordinamento che spettava ai pm dell’epoca. Tra cui Carmelo Petralia, ora aggiunto a Catania. “Preferisco non parlare di indagini ancora in corso…”, commenta a caldo Fiammetta Borsellino, figlia minore del giudice Paolo Borsellino. La donna, che ha partecipato a numerose udienze del processo sul depistaggio sulle indagini sulla strage del 19 luglio 1992, dove si è costituita parte civile, più volte ha lamentato il comportamento dei magistrati che indagarono sull’attentato. “Mio padre è stato lasciato solo, sia da vivo che da morto. C’è stata una responsabilità collettiva da parte di magistrati che nei primi anni dopo la strage – ha sempre ripetuto Fiammetta – hanno sbagliato a Caltanissetta con comportamenti contra legem e che ad oggi non sono mai stati perseguiti né da un punto di vista giudiziario né disciplinare”.

Gli accertamento irripetibili riguardano 19 microcassette

Gli accertamenti tecnici irripetibili disposti dalla Procura di Messina che indaga sul depistaggio dell’indagine sulla strage di via D’Amelio e che ha iscritto nel registro degli indagati gli ex pm Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, riguardano le cassette con le intercettazioni delle conversazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino registrate durante il periodo in cui quest’ultimo era sottoposto al programma di protezione. Secondo l’accusa il pentito, che proprio nelle scorse udienza, è stato ascoltato nel processo a carico dei tre poliziotti, sarebbe stato indotto, dal pool di poliziotti che indagava sull’attentato a mentire sulla strage incolpando persone innocenti.

Si tratta di 19 microcassette, cioè supporti magnetici contenenti registrazioni prodotte con vecchie strumentazioni dell’epoca contenenti le parole di Scarantino. Proprio per questo motivo si farà il prossimo 19 giugno un “accertamento tecnico non ripetibile” al Racis di Roma. L’atto è stato notificato oggi pomeriggio ai magistrati indagati e alle parti offese.

‘Onore a #Falcone e #Borsellino, eroi e martiri della legalità, disonore per le toghe indagate per depistaggi, erette immeritatamente a ‘icone’, come Ciancimino jr, alla sbarra i bugiardi! Falsi miti crollano. De Raho aveva anticipato l’avviso”, scrive in un tweet il senatore Maurizio Gasparri.