SENTENZA BORSELLINO UNO –

 

…Sulla  base del rinvenimento del blocco motore n. 9406531, individuato per quello appartenente alla Fiat 126 avente telaio n. ZFA126A008781619, immatricolata con targa PA 790936, di proprietà di D’Aguanno Maria ed in uso a Valenti Pietrina, era stata richiesta ed autorizzata l’intercettazione dell’utenza telefonica n. 091 6473878, intestata a Furnari Simone, marito della Valenti.

Dal relativo servizio di ascolto erano emersi anzitutto elementi di reità a carico di Valenti Luciano, fratello di Valenti Pietrina, di un suo congiunto Valenti Roberto e di un loro conoscente, noto inizialmente con il nome di “Salvatore” (e successivamente individuato in Candura Salvatore) in ordine ai reati di violenza carnale a scopo di rapina e rapina.

Nel corso del medesimo servizio di ascolto erano state registrate anche delle conversazioni fra Valenti Pietrina ed suoi congiunti, relative proprio al furto della Fiat 126. In particolare la donna, nel corso della conversazione delle ore 23,14 del 30/7/1992, commentando le immagini televisive del luogo della strage di via D’Amelio con Sbigottiti Paola, moglie di Valenti Luciano, aveva pronunciato la frase: “ed in quel posto la mia macchina c’è….”. In una successiva telefonata delle ore 00,05 dell’1/8/1992, le stesse donne avevano esternato sospetti nei confronti di Salvatore, amico di Valenti Luciano, quale possibile autore del furto della Fiat 126.

In ordine ai fatti di violenza carnale e rapina sopra cennati gli atti erano stati trasmessi per competenza alla Procura della Repubblica di Palermo che aveva richiesto ed ottenuto dal G.i.p. in sede l’emissione di ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti dei predetti Valenti Luciano, Valenti Roberto e Candura Salvatore.

Quest’ultimo, allorchè era stato tratto in arresto in esecuzione dell’ordinanza anzidetta e condotto presso gli uffici della Squadra Mobile, aveva rappresentato di aver ricevuto minacce, mostrandosi preoccupato per la propria incolumità.
Tali dichiarazioni del Candura facevano seguito all’atteggiamento tenuto dallo stesso alcuni giorni prima, allorchè, accompagnato presso una Caserma dei CC. per essere denunciato per tentata rapina ai danni di un autotrasportatore, piangendo, aveva profferito la frase “…..non li ho uccisi io….”.

I sospetti scaturenti dagli elementi sopraesposti erano poi stati definitivamente suffragati dalla analitica ricostruzione dei fatti relativi al furto della Fiat 126, effettuata dagli stessi Valenti Luciano e Candura Salvatore che, seppure dopo qualche iniziale titubanza, avevano assunto un atteggiamento di piena collaborazione con l’Autorità Giudiziaria e fornito la medesima versione sulle modalità di sottrazione dell’autovettura e sul committente del furto.

 

Attraverso i particolari forniti dai due collaboranti e sulla base delle conseguenti indagini espletate era emerso al di là di ogni residuo dubbio che era stato il Candura Salvatore ad eseguire materialmente il furto della Fiat 126 della Valenti Pietrina successivamente utilizzata come autobomba.

 

Il Candura, ammettendo tale addebito, aveva in particolare riferito di avere avuto commissionato il delitto da Scarantino Vincenzo che, nell’incaricarlo di reperire un’autovettura di piccola cilindrata, non importava in quali condizioni, purchè marciante, gli aveva consegnato uno “spadino” (chiave artificiosa per aprire la portiera) e la somma di lire 150.000 in acconto sul maggiore compenso promesso di lire 500.000.
In effetti il Candura, profittando dei rapporti di buona conoscenza intercorrenti con Valenti Pietrina (sorella dell’amico Valenti Luciano), che sapeva essere in possesso di una autovettura del tipo richiesto dallo Scarantino, aveva sottratto la Fiat 126 della donna, consegnandola nella stessa serata allo Scarantino nel luogo ed all’ora concordati.

 

Il Candura aveva altresì riferito del timore in lui ingenerato dall’apprendimento della notizia della strage e dalla diffusione da parte degli organi di informazione dell’avvenuta utilizzazione di una Fiat 126 quale autobomba, precisando che, mosso proprio da tale preoccupazione, nei giorni successivi alla strage, in più occasioni si era recato dallo Scarantino per essere rassicurato circa il fatto che l’auto che aveva procurato non fosse servita per commettere il delitto, ma a tali richieste lo Scarantino si era visibilmente alterato, intimandogli di dimenticare tutto e di non parlarne con nessuno. Dopo tali incontri aveva ricevuto delle telefonate minatorie che avevano rafforzato il sospetto iniziale, tanto che si era nuovamente rivolto allo Scarantino, che riteneva essere l’autore delle telefonate, suscitandone però nuove reazioni negative.

Sulla base delle dichiarazioni fornite dal Candura, positivamente riscontrate dagli esiti dell’attività investigativa svolta, era stata emessa in data 26/9/1992 ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Scarantino Vincenzo in ordine ai delitti di strage, concorso in furto aggravato ed altro.

Il P.M. delineava poi il profilo criminale dello Scarantino Vincenzo, sulla base dei precedenti penali e giudiziari del medesimo, nonchè delle dichiarazioni sul suo conto rese dai collaboratori della giustizia Figlia Sinibaldo, Candura Salvatore ed Augello Salvatore, sottolineando in particolare che lo Scarantino

Vincenzo apparteneva ad un nucleo familiare notoriamente inserito nel contesto criminale operante nella zona territoriale della “Guadagna” e che il prestigio, la supremazia territoriale acquisiti dall’imputato in quel contesto, così come tutta la sua attività criminale erano stati resi possibili e realizzati in virtù del rapporto di affinità che lo legava a Profeta Salvatore (quest’ultimo era cognato dello Scarantino, avendo sposato la di lui sorella Ignazia), uomo d’onore di grande rilievo e diretto committente, oltre che supervisore, controllore e beneficiario delle azioni illecite.

Proseguiva il P.M. riferendo che il sospetto di un possibile coinvolgimento del Profeta, quale persona che poteva aver commissionato allo Scarantino il reperimento dell’autovettura utilizzata come autobomba per la perpetrazione della strage aveva trovato nel prosieguo delle indagini puntuale conferma.

In data 14/9/1993, infatti, aveva iniziato a collaborare con l’Autorità Giudiziaria Andriotta Francesco.

Il contributo determinante alle indagini fornito dall’Andriotta originava da un periodo di comune detenzione dal medesimo sofferto con Scarantino Vincenzo, all’interno della Casa Circondariale di Busto Arsizio, dal 3 giugno 1993 al 23 agosto dello stesso anno.

In questo periodo l’Andriotta era entrato sempre più in confidenza con lo Scarantino che aveva iniziato a fidarsi di lui, in virtù dei pregressi rapporti che il primo aveva avuto con esponenti di rilievo della malavita palermitana ed anche per via dell’aiuto che lo stesso Andriotta gli prestava, consentendogli, tramite la moglie, di mandare messaggi alla sua famiglia.

Precisava il P.M. che il ruolo di tramite con l’esterno rivestito dall’Andriotta era stato positivamente riscontrato sia mediante il sequestro nell’abitazione del collaboratore di taluni bigliettini che l’Andriotta aveva scritto su incarico dello Scarantino, di poi consegnandoli alla moglie durante i colloqui perchè ne trasmettesse i relativi messaggi ai familiari dello Scarantino, sia dal contenuto di talune conversazioni telefoniche intercettate sull’utenza in uso a Scarantino Pietra.

L’Andriotta, nel corso delle indagini preliminari, aveva in particolare riferito che il giorno successivo alla divulgazione della notizia dell’avvenuto arresto di Orofino Giuseppe, lo Scarantino si era lasciato andare ad ulteriori confidenze, ammettendo di aver commissionato il furto della Fiat 126, poi rubata alla sorella di Valenti Luciano, ed imbottita di un quantitativo di esplosivo tale che “non sarebbe dovuto rimanere neanche il numero di telaio”. Lo Scarantino inoltre era apparso visibilmente preoccupato per il timore di un possibile pentimento dell’Orofino che avrebbe consentito agli inquirenti di acquisire la prova della propria compartecipazione alla strage.

Nello stesso contesto lo Scarantino aveva confidato all’Andriotta che il furto delle targhe di un’altra Fiat 126 (apposte sull’autobomba) era stato denunciato a bella posta il lunedì 20/7/1992 e che il ritardo era stato giustificato dalla circostanza della chiusura del garage nel giorno di domenica 19/7/1992.

E sempre in quel contesto l’Andriotta aveva appreso notizie su alcune fasi di preparazione dell’attentato, tra cui quelle attinenti all’intercettazione abusiva delle telefonate effettuate sull’utenza della famiglia Fiore-Borsellino ed alle operazioni di caricamento dell’esplosivo sull’auto compendio del furto consumato in danno della Valenti Pietrina.

Con specifico riferimento a quest’ultimo punto l’Andriotta aveva in particolare riferito che a dette operazioni, sempre secondo quanto confidatogli dallo Scarantino, aveva partecipato anche il di lui cognato Profeta Salvatore.

Sulla base delle dichiarazioni rese dall’Andriotta, in data 8/10/1993 il G.i.p. di Caltanissetta aveva emesso ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Profeta Salvatore per il delitto di strage e reati connessi.

Proseguiva il P.M. tratteggiando il profilo criminale del Profeta sulla base dei precedenti penali e giudiziari rilevati a suo carico e delle dichiarazioni rese sul conto dello stesso dai collaboratori di giustizia Cancemi Salvatore, Di Matteo Mario Santo, Drago Giovanni, Favaloro Marco, Marchese Giuseppe, Mutolo Gaspare e Francesco Marino Mannoia, i quali lo avevano concordemente indicato quale uomo d’onore di spicco della “famiglia” di S.Maria di Gesù, molto vicino al capomandamento Pietro Aglieri ed al suo vice Greco Carlo.

Per quanto attiene agli ulteriori accertamenti in ordine alle targhe, delle quali era stato denunciato il furto dall’odierno imputato Orofino Giuseppe in data 20/7/1992, riferiva il P.M. che la concomitanza dell’esecuzione del furto con la data della strage aveva fatto sorgere negli Inquirenti il sospetto che dette targhe fossero state apposte, quali documenti di copertura, sulla Fiat 126 utilizzata come autobomba. Era stato infatti prontamente inviato presso l’autocarrozzeria personale della Polizia Scientifica per effettuare gli opportuni rilievi. Dalla documentazione fotografica effettuata era emerso che, contrariamente a quanto sostenuto dall’Orofino in sede di denuncia, le parti in ferro del lucchetto apparivano coperte di ruggine, così evidenziando l’esposizione da tempo agli agenti atmosferici ed attestando la rottura del lucchetto in epoca certamente anteriore a quella in cui il furto era stato perpetrato.

La targa di cui era stato denunciato il furto era stata rinvenuta sul luogo della strage in data 22/7/1992. Ne risultava pertanto confermato l’originario sospetto che proprio quelle targhe fossero state apposte all’autobomba in funzione di copertura.

Per tali ragioni l’Orofino era stato invitato negli Uffici della Squadra Mobile della Questura di Palermo il 10/8/1992 e, ad integrazione della denuncia sporta, aveva dichiarato che l’autovettura gli era stata consegnata alcuni giorni prima del furto, che le riparazioni erano state ultimate il sabato 18/7/1992, giorno di chiusura della ditta che aveva commissionato i lavori, precisando che l’officina era rimasta aperta anche nella giornata del sabato fino alle ore 13.30 e che si era accorto personalmente del furto allorchè la mattina del 20/7/1992 aveva riaperto il locale.

Peraltro in data 8/9/1992 l’Orofino aveva integrato la denuncia di furto del 20/7/1992, aggiungendo che dalla Fiat 126 targata PA 878659 erano stati asportati anche il libretto di circolazione ed il foglio complementare.

Gli esiti dei rilievi tecnici e fotografici eseguiti dalla Polizia Scientifica avevano già indotto negli Inquirenti il sospetto che la denuncia di furto fosse simulata.

 

 

 

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