20 settembre 2017 SICILIA OGGI
Fiammetta Borsellino riempie la scena. Spalle larghe e capelli corti biondi ed una voce calma, a tratti emozionata nel ripercorrere, con lentezza accattivante, le fasi successive ed immediatamente precedenti la strage di via D’Amelio del 19 luglio ’92 in cui morirono il padre e cinque agenti di scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La figlia del giudice, seduta su un divano giallo e in tuta nera, ha elencato le “anomalie” dei processi istituiti per fare luce sulla morte del padre e lo ha fatto al “Caffè Internazionale ” di via Basilio a Palermo, in una atmosfera avvolgente. «Tutte le mie dichiarazioni sono supportate da prove contenute negli atti giudiziari». Con questa premessa Fiammetta
Borsellino ha aperto una labirintica trasposizione dei fatti che, nel silenzio più rigoroso, ha
intrattenuto i presenti. Fatti, dunque, e mezze verità, nonchè sviste, volute, indotte, ingenuità
istintive o sapientemente premeditate. Questo il succo della storia raccontata da Fiammetta
Borsellino. I processi dunque. Ne sono stati fatti quattro, ultimo fra tutti, in ordine di tempo il
“Borsellino quater” appunto, dove tutto o quasi è stato rifatto, ripreso, vivisezionato a ritroso,
cercando di non incappare più negli errori di percorso fatti nei tre precedenti. Ma procediamo
con ordine. Chi ha condotto le prime indagini sulla strage? Il primo team di magistrati era
composto dal procuratore Tinebra, oggi defunto, il procuratore Carmelo Petralia, dal pm
Annamaria Palma, mentre nel novembre del ’92 si aggiunse il procuratore Nino Di Matteo. Anche
Ilda Boccassini e il magistrato Roberto Sajeva,che si occuparono inizialmente della strage di
Capaci, si interessarono del “caso Borsellino” ma andando via, nell’ottobre del ’94,
sottolinearono, in due lettere “di fuoco”, l’operato dei loro colleghi definendolo addirittura
eccentrico. Le lettere sono piene di ammonimenti circa la necessità a provvedere in tempestivi
ravvedimenti nel rispetto delle regole del Codice di rito. La prima anomalia è ravvisabile nella
figura, ambigua, sopra le righe, a tratti inquietante del “pentito” Vincenzo Scarantino che si
autoaccusa e dice di essere stato lui a rubare la 126 beige e piazzarla sotto la casa della mamma
del giudice non prima di averla imbottita nel garage meccanico “Oro fino” ovviamente del
micidiale Semtex. A Scarantino credono tutti tranne la Boccassini, e il primo processo si fonda
sulle sue dichiarazioni e non per niente il “teorema Scarantino” serve a dimostrare, accusare,
assolvere e infangare a destra e a manca e a infliggere ergastoli immeritati. La Boccassini anzi
già nel ’94 invita i colleghi a rivedere le dichiarazioni di Scarantino, quando si stava preparando
il rinvio a giudizio, una fase importante del processo.
Vincenzo Scarantino
Fiammetta non tralascia di parlare del gruppo di funzionari di polizia che si occuparono
inizialmente del caso. Il gruppo era capeggiato da Arnaldo La Barbera, anch’egli morto nel
frattempo, Mario Bo, Vincenzo Ricciardi, Giovanni Guerrera, Giacomo Pietro Guttadauro e
Francesco Zerilli, tutti con brillanti carriere. E poi c’è l’incredibile estromissione di Giammanco, il
procuratore capo, il quale non viene chiamato come testimone nei processi, confermando
l’anomalia delle anomalie, forse la più “scandalosa”. Lo stesso diretto superiore di Paolo
Borsellino non lo informa che nel giugno del’92, poco più di un mese prima della strage quindi,
sia arrivato il tritolo destinato per compiere l’attentato, cosa che lo stesso giudice apprende
dall’ex ministro della giustizia Salvo Andò incontrato a Fiumicino. Questa notizia sconvolse il
giudice sia per la sua gravità che per la “riservatezza” del suo capo, di Giammanco appunto che
omette di informarlo. Erano stati i carabinieri ad informare lo stesso procuratore capo. Borsellino,
trasferitosi da Marsala a Palermo, vorrebbe occuparsi di mafia, mettendo a frutto le sue
esperienze maturate nella cittadina lilibetana ma Giammanco non gli affida alcuna indagine
mafiosa, salvo poi cambiare idea la mattina del 19 luglio del ’92, giorno della strage, in cui lo
stesso Giammanco , alle 7 del mattino, telefona a Borsellino per informarlo che da quel giorno
in avanti si occuperà di mafia, cosa che ovviamente non potrà fare, dato che morirà poche ore
dopo. Per non parlare poi del mancato esame del dna alla borsa del padre, rimasta intatta
nell’attentato ma da cui è sparita la famigerata agenda rossa. L’FBI voleva collaborare nelle
indagini ma è stata tenuta fuori. La borsa, considerata un reperto fondamentale, viene
“abbandonata” nella stanza di Arnaldo La Barbera, il quale afferma candidamente che la
probabilmente l’agenda in essa contenuta era andata distrutta nell’esplosione, ma non si
comprende bene perché non ha subito danni il contenitore mentre il suo contenuto, (l’agenda)
sì. L’omissione di molte procedure avrebbero fin da subito dimostrare l’assoluta inattendibilità
dello Scarantino. Se non fosse stato per Gaspare Spatuzza, collaboratore di giustizia, Scarantino
avrebbe goduto ancora di chissà quali privilegi. Scarantino, inoltre, portato nel garage dove
avrebbe imbottito la 126 di tritolo, non sa nemmeno aprirlo, perchè non sa che la serratura è
particolare, cosa che invece saprà fare lo stesso Spatuzza portato nello stesso luogo, dato che
fu proprio lui a “sistemare” l’auto utilizzata per la strage. Fiammetta Borsellino non risparmia
nemmeno il super magistrato Nino Di Matteo, il magistrato Giordano e lo stesso Petralia, i quali,
non avrebbero messo a verbale le dichiarazioni del “pentito” Scarantino fatte nel confronto con
altri tre mafiosi, ovvero con Cancemi, La Barbera e Santo Di Matteo, padre del piccolo
cavallerizzo sciolto in seguito nell’acido. In quella occasione, Scarantino venne letteralmente
umiliato da Cancemi ma del confronto non vi è traccia. Scarantino sarebbe stato minacciato e
indotto a dire le “verità” che disse da Arnaldo La Barbera, il poliziotto capo del gruppo di indagine
“Falcone Borsellino”. Veleni e ritrattazioni e ritrattazioni delle ritrattazioni, un ginepraio da cui è
difficile venire a capo. E le parole ascoltate ieri sera, al “Caffè internazionale” edulcorano
certamente, apparentemente confondono e di certo inducono a pensare, a riflettere su quello
che è successo.
Tiziana Sferruggi