24.2.2021 – L’ACCUSA DI FIAMMETTA BORSELLINO: “NESSUNA FIDUCIA NEI PM ANTIMAFIA E NEL CSM, HANNO DEPISTATO” «Pur essendo passati ormai tanti anni, non riesco ancora a farmene una ragione. Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», dichiara Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992.
Il dossier mafia-appalti venne redatto dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’allora colonnello Mario Mori. Nel dossier erano indicate tutte le principali aziende italiane che trattavano con la mafia. L’indagine era “rivoluzionaria”, affrontando per la prima volta il fenomeno mafioso da una diversa prospettiva.
I carabinieri avevano scoperto che Cosa nostra, anziché imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, così come faceva tradizionalmente, era diventava essa stessa imprenditrice con società commerciali riferibili ad appartenenti all’organizzazione che avevano assunto e realizzato, con modalità mafiose, commesse pubbliche, principalmente nel settore delle costruzioni. Al termine di una attività investigativa durata anni, i carabinieri del Ros depositarono il 20 febbraio 1991 alla Procura di Palermo l’informativa denominata “Angelo Siino + 43”. Il fascicolo, circa 900 pagine, era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato. I due magistrati, il 13 luglio dell’anno successivo, firmano la richiesta di archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, 14 luglio 1992, si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo. Giovanni Falcone era stato assassinato da circa due mesi, il 23 maggio, e Borsellino in qualità di neo procuratore aggiunto affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato, senza evidentemente sapere che era stata già avanzata la sua richiesta di archiviazione. La mattina del 19 luglio, alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata da Giammanco nel corso della quale lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata. La circostanza della telefonata emerse da una testimonianza delle moglie Agnese nel 1995. Alle ore 16.58 successive, una Fiat 126 piena di tritolo fece saltare in aria a via D’Amelio la sua auto di scorta, uccidendolo insieme ai cinque agenti di scorta. Il 22 luglio 1992 la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente. E alla vigilia di Ferragosto arrivò la definitiva l’archiviazione da parte del gip.
Fiammetta Borsellino, la sentenza del processo di Caltanissetta ha affermato che l’indagine mafia appalti aveva impresso un’accelerazione alla morte di suo padre.
Esatto.
Mentre nel processo Trattativa Stato-mafia di Palermo questo aspetto è stato escluso, negando che suo padre avesse un interesse al dossier mafia appalti. E non è vero. Mio padre era convinto della bontà dell’indagine per il suo respiro nazionale. Mi riferisco, ad esempio, agli interessi di Totò Riina nella Calcestruzzi spa.
Alla Procura di Palermo non erano tutti della stessa opinione di suo padre. C’è la testimonianza del dottor Scarpinato che riferisce del profilo regionale dell’indagine quando era evidente invece che ci fossero interessi particolari anche nella Penisola.
L’incongruenza fra le due sentenze, quella del processo Trattativa Stato-mafia e quella del Borsellino quater pare evidente. Una incongruenza che destabilizza.
Non ha fiducia nei giudici? Non ho fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta. E non ho fiducia in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale.
Ad esempio? In chi non si è accorto degli errori grossolani sul depistaggio della morte di mio padre. E nel Consiglio superiore della magistratura.
Perché non ha fiducia nel Csm? Il Csm si è dato in questi anni sempre la zappa sui piedi, tutelando interessi di tipo clientelare e di carriera. Fu solerte quando si trattò di mettere sotto processo disciplinare mio padre per aver denunciato pubblicamente lo smantellamento del pool antimafia ed è stato inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese.
Gli atti che riguardano suo padre sono stati desecretati dal Csm. Mi pare una operazione di facciata senza alcun senso se poi ci ferma e non si accertano le condotte indegne tenute dai magistrati dopo la morte di mio padre. Non mi importa nulla della desecretazione se non si fanno accertamenti seri.
Prova un po’ di amarezza? Anche. Soprattutto che debbano prendere la parola su mio padre persone distantissime da lui e che hanno indagato su altre piste
Vuole fare un nome? Nino Di Matteo.
Perché proprio lui? A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso.
Che tipo era suo padre? Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi. Paolo Comi — 24 Febbraio 2021 – IL RIFORMISTA
24.02.2021 – FIAMMETTA BORSELLINO: EREDI DI MIO PADRE? ADESSO BASTA! Ha ragione la figlia del Giudice Paolo Borsellino nel chiedere conto e ragione del perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti”. E lo fa con uno dei pochi giornali che coraggiosamente pubblica le notizie “scomode” (Il Riformista). Nel corso dell’intervista rilasciata a Paolo Comi, Fiammetta Borsellino ripercorre la storia dell’inchiesta mafia-appalti, voluta da Giovanni Falcone, e condotta dal Ros di Mario Mori, che nel febbraio del 1991 portò a un’informativa di circa 900 pagine su società riconducibili a “Cosa nostra”. Un’inchiesta “rivoluzionaria”, la definisce Fiammetta Borsellino, nella quale suo padre credeva a tal punto da chiedere – dopo la strage di Capaci – che venisse a lui stesso assegnata, tanto da incontrare segretamente, il 25 giugno 1992, Mori e De Donno, ai quali chiese di organizzare un gruppo speciale di carabinieri per riaprire l’inchiesta sotto la sua direzione. Il fascicolo – afferma Fiammetta Borsellino – “era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato”. Quello che accadde dopo ha dell’inverosimile. Come racconta la figlia del giudice, il 14 luglio 1992 si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo, e Borsellino, in qualità di neo procuratore aggiunto, affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato. Nessuno informò Borsellino che appena il giorno prima i due magistrati ai quali era stata assegnata l’indagine, avevano firmato la richiesta di archiviazione. Improvvisamente, la mattina del 19 luglio (lo stesso giorno della strage di Via D’Amelio) alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata dall’allora procuratore Giammanco che lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata.
Perché Giammanco gli comunicò la delega alle indagini, soltanto dopo che per le stesse era stata firmata la richiesta di archiviazione? Non trascorsero tre giorni dall’uccisione di Borsellino, che la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente, per essere definitivamente archiviata dal gip alla vigilia di Ferragosto.
A nessuno venne il dubbio che tra le concause dell’uccisione di Borsellino potesse esserci proprio l’indagine su mafia-appalti? Pare proprio di no, visto che le indagini seguirono altre piste, come nel caso delle “rivelazioni” del falso pentito Vincenzo Scarantino, per poi attribuire l’accelerazione dell’uccisione del giudice alla cosiddetta Trattativa Stato-mafia, che vede imputati quei vertici del Ros (Mori e De Donno) che per Giovanni Falcone avevano lavorato al dossier mafia-appalti, e che per conto di Borsellino sarebbero stati disposti a riprendere quell’indagine. Non usa mezzi termini Fiammetta Borsellino nell’evidenziare l’incongruenza tra il processo Trattativa Stato-mafia e la sentenza del Borsellino quater, che proprio in mafia-appalti individua il motivo – quantomeno dell’accelerazione – del progetto stragista di “Cosa nostra” che portò all’uccisione del Giudice Borsellino e della sua scorta. Alla domanda del giornalista se ha fiducia nei giudici, la figlia di Paolo Borsellino risponde che non soltanto non ha fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta, ma non ne ha neppure in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale. Sul banco degli imputati delle valutazioni della figlia del giudice, tutti coloro i quali non si sono accorti degli errori grossolani sul depistaggio della morte del padre, e il Consiglio superiore della magistratura, “inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese”. Tranciante il giudizio su Nino Di Matteo, uno degli autoproclamati eredi di Paolo Borsellino, del quale afferma testualmente: “A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso. Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi”. C’è molta amarezza nelle parole di Fiammetta Borsellino. Un’amarezza ancor più comprensibile e condivisibile nel rileggere le dichiarazioni di Di Matteo, riportate nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta a carico degli ex pm Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, da parte della Procura di Messina, dove si legge che il 22 aprile del 2009 Nino Di Matteo manifestò la sua contrarietà a che Gaspare Spatuzza (il collaboratore di giustizia che smentì clamorosamente Scarantino, dimostrando che era un falso pentito) usufruisse del piano provvisorio di protezione. Sia perché avrebbe attribuito alle sue dichiarazioni un’attendibilità che ancora non avevano, sia perché le sue dichiarazioni, sebbene non ancora completamente riscontrate, avrebbero rimesso in discussione le ricostruzioni e le responsabilità consacrate dalle sentenze ormai divenute irrevocabili. Ovvero le condanne ingiustamente emesse a seguito delle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Fu dunque così facile credere a Scarantino, e così difficile accettare l’amara verità che il falso pentito aveva mentito? Di Matteo temeva (e lo si legge in fondo al documento) il discredito delle Istituzioni dello Stato, poiché l’opinione pubblica avrebbe potuto ritenere che la ricostruzione delle responsabilità di quei fatti fosse stata affidata a falsi collaboratori di giustizia.
Oggi, quelle stesse Istituzioni dello Stato, di quali credito godono da parte dell’opinione pubblica che ha appreso, come dato di certezza, quello che Di Matteo temeva potesse ritenere? Che dire, inoltre, che si fosse posto in secondo piano che degli innocenti potessero marcire in carcere condannati ingiustamente all’ergastolo, e che il depistaggio potesse ancora proseguire?
Stendiamo un velo…
Caltanissetta è come un fiume in piena che ha rotto gli argini. Troppe verità sono emerse. Verità che per alcuni sarebbe stato molto meglio rimanessero sepolte da tonnellate di menzogne orchestrate per decenni da ignoti, o frutto dell’incapacità di tanti altri. Tutti eredi di Falcone e Borsellino? Gian J. Morici LA VALLE DEI TEMPLI 24.2.2021
20.2.2021 “DEPISTAGGI E COMPLICITÀ DI MAGISTRATI E POLIZIOTTI HA IMPEDITO LA VERITÀ SULL’UCCISIONE DI MIO PADRE”, PARLA LA FIGLIA DI BORSELLINO “Il Palamaragate ha stoppato le indagini della Procura generale della Cassazione sul più colossale dei depistaggi: quello relativo alla morte di mio padre!”. Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992 a soli cinquantuno anni, parla secco, senza diplomazie. A novembre del 2019 si è concluso in appello a Caltanissetta il quarto processo per la strage di via D’Amelio. La Corte ha confermato la sentenza di primo grado, condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage, e a dieci anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato al falso pentito Vincenzo Scarantino. L’uccisione di Borsellino non fu dovuta alla trattativa tra Stato e mafia, come avevano scritto i giudici di Palermo nel 2018, trattandosi invece di un “mosaico pieno di ombre, dove erano coinvolti altri gruppi di potere”. In particolare, le dichiarazioni di Scarantino, poste a fondamento dei precedenti processi sulla strage e di svariate condanne all’ergastolo, sono false in quanto frutto “di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, realizzato da “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”. Nelle settimane scorse il gip di Messina ha archiviato le posizioni di Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i due pm di Caltanissetta che avevano indagato sull’attentato, e poi erano stati accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. I due magistrati, secondo l’iniziale accusa, in concorso con tre poliziotti tuttora sotto processo, avrebbero depistato le indagini sulla strage, suggerendo a falsi pentiti, fra cui appunto Scarantino, di accusare dell’attentato persone ad esso estranee. La falsa verità, alla quale per anni i giudici hanno creduto, costò la condanna all’ergastolo a sette persone. Le false accuse dei pentiti vennero poi smontate dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Fiammetta Borsellino, perché il Palamaragate ha bloccato gli accertamenti della Procura generale della Cassazione? Quando nel 2017 venne pronunciata la sentenza del Borsellino Quater che svelò il depistaggio del falso pentito Scarantino, indicando “le anomalie nelle condotte” dei magistrati che si erano occupati di lui, iniziai subito a chiedere che si facesse luce su come era stata gestita l’indagine sulla morte di mio Padre.
Cosa aveva evidenziato? Imprecisioni e irregolarità processuali e investigative a non finire. Ad iniziare dalla mancata verbalizzazione del sopralluogo nel garage dove era stata tenuta la Fiat 126 che venne poi imbottita di tritolo per l’attentato. Senza contare l’uso scellerato dei colloqui investigativi.
Denunciò l’accaduto? Chiesi che il Consiglio superiore della magistratura si occupasse di queste anomalie rinvenute dai giudici nisseni nell’operato dei magistrati che avevano svolto le indagini sulla strage di in cui morì mio padre.
Risposta? Nessuna.
E allora? Mi sono più volte rivolta anche al capo dello Stato Sergio Mattarella nella sua qualità di presidente del Csm.
Una precisazione: in che anno siamo? 2018 inizio 2019.
Questo Csm? Si.
Ha chiamato l’attuale vice presidente David Ermini? Certo.
Cosa le disse? Mi riferì che senza un’azione della Procura generale della Cassazione la Sezione disciplinare non avrebbe potuto fare alcunché.
All’epoca il procuratore generale della Cassazione era Riccardo Fuzio. Esatto. Fuzio mi convocò, insieme a mia sorella Lucia, a Roma per rendere dichiarazioni.
Come andò l’interrogatorio? Mi sono subito resa conto che Fuzio non sapeva nulla della vicenda e degli sviluppi processuali e così ho parlato per oltre un’ora di tutto quello che riguardava le anomalie nell’inchiesta, che fu condotta a ridosso della strage e di come nessuno si fosse accorto di un pentito che era palesemente falso.
Una ricostruzione dettagliata? Si. Ho riferito fatti che i magistrati dovevano sapere e invece li chiedevano a me. Veda un po’ lei.
Poi? Vorrei ricordare che la dottoressa Ilda Boccassini, all’epoca dei fatti in servizio in Sicilia, scrisse una lettera che mise in un cassetto, chiedendo di lasciare la Procura perché era convinta che Scarantino fosse un bluff. Purtroppo nessuno dei magistrati allora nel pool con lei le volle dare retta.
Se avesse consegnato quella lettera, forse, le indagini avrebbero preso una piega diversa… Ovvio: sono passati 25 anni per poter avere una sentenza che scrive quello che qualcuno già aveva rilevato nel 1992.
Torniamo a Fuzio, soprannominato “baffetto” da Luca Palamara, il magistrato che nel 2017 “soffiò” il posto a Giovanni Salvi, come si legge nel libro dell’ex zar delle nomine al Csm.
Fuzio disse che avrebbe inviato la mia deposizione al procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone (in pensione dallo scorso settembre, ndr).
Sa se è arrivato il verbale? Non so se quel verbale arrivò mai sul tavolo del procuratore Bertone e né se Bertone lo abbia mai letto.
A parte questo? Fuzio mi garantì anche che una delegazione della Procura generale della Cassazione sarebbe andata nella Procura nissena per questa ragione.
E anche su questa circostanza non sa dirmi nulla? No.
Si sente presa in giro? Mi sembra il minimo. Insieme a mia sorella avevo solo chiesto che il Csm facesse il suo dovere di indagare quei magistrati che una sentenza del 2017 aveva stabilito avessero agito in modo irregolare. Peggio ancora se pensiamo che la Corte d’Assise d’Appello ha confermato interamente quello che scrissero i giudici di primo grado.
Veniamo al Palamaragate, nato da una fuga di notizie da parte di tre quotidiani sull’indagine di Perugia. Fuzio, finito nelle intercettazioni di Palamara e ora indagato per rivelazione del segreto d’ufficio insieme a Palamara venne costretto a luglio del 2019 alle dimissioni. Cosa successe? Mi scrisse una mail pietosa con cui si dichiarava dispiaciuto di non aver potuto fare nulla. Il punto però è che era proprio lui a dover fare qualcosa, almeno come ci disse Ermini. E non fece nulla. Ancora conservo quella mail e ricordo bene la rabbia che quel tentativo di ispirare il mio pietismo mi diede.
Però, signora Fiammetta, la Procura generale della Cassazione non è il calzolaio che se il titolare va in pensione il negozio chiude… Certo. Spero che chi c’è ora (Giovanni Salvi, ndr) trovi il tempo per farmi sapere che fine hanno fatto le mie deposizioni. IL RIFORMISTA
20.2.2021 – FIAMMETTA BORSELLINO: “COSÌ MAGISTRATI E POLIZIOTTI HANNO IMPEDITO DI SAPERE PERCHÉ HANNO UCCISO MIO PADRE”La figlia del magistrato massacrato da Cosa Nostra racconta dei depistaggi, delle complicità, e delle mancate risposte da parte del Csm (e anche del Presidente Mattarella). Ora, dice, spero in Salvi” “l Palamaragate ha stoppato le indagini della Procura generale della Cassazione sul più colossale dei depistaggi: quello relativo alla morte di mio padre!”. Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafi a a Palermo il 19 luglio del 1992 a soli cinquantuno anni, parla secco, senza diplomazie.
A novembre del 2019 si è concluso in appello a Caltanissetta il quarto processo per la strage di via D’Amelio. La Corte ha confermato la sentenza di primo grado, condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage, e a dieci anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato al falso pentito Vincenzo Scarantino. L’uccisione di Borsellino non fu dovuta alla trattativa tra Stato e mafi a, come avevano scritto i giudici di Palermo nel 2018, trattandosi invece di un “mosaico pieno di ombre, dove erano coinvolti altri gruppi di potere”. In particolare, le dichiarazioni di Scarantino, poste a fondamento dei precedenti processi sulla strage e di svariate condanne all’ergastolo, sono false in quanto frutto “di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, realizzato da “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”. Nelle settimane scorse il gip di Messina ha archiviato le posizioni di Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i due pm di Caltanissetta che avevano indagato sull’attentato, e poi erano stati accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. I due magistrati, secondo l’iniziale accusa, in concorso con tre poliziotti tuttora sotto processo, avrebbero depistato le indagini sulla strage, suggerendo a falsi pentiti, fra cui appunto Scarantino, di accusare dell’attentato persone ad esso estranee. La falsa verità, alla quale per anni i giudici hanno creduto, costò la condanna all’ergastolo a sette persone. Le false accuse dei pentiti ven nero poi smontate dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Fiammetta Borsellino, perché il Palamaragate ha bloccato gli accertamenti della Procura generale della Cassazione?Quando nel 2017 venne pronunciata la sentenza del Borsellino Quater che svelò il depistaggio del falso pentito Scarantino, indicando “le anomalie nelle condotte” dei magistrati che si erano occupati di lui, iniziai subito a chiedere che si facesse luce su come era stata gestita l’indagine sulla morte di mio Padre.
Cosa aveva evidenziato? Imprecisioni e irregolarità processuali e investigative a non fi nire. Ad iniziare dalla mancata verbalizzazione del sopralluogo nel garage dove era stata tenuta la Fiat 126 che venne poi imbottita di tritolo per l’attentato. Senza contare l’uso scellerato dei colloqui investigativi.
Denunciò l’accaduto? Chiesi che il Consiglio superiore della magistratura si occupasse di queste anomalie rinvenute dai giudici nisseni nell’operato dei magistrati che avevano svolto le indagini sulla strage di in cui morì mio padre.
Risposta? Nessuna.
E allora? Mi sono più volte rivolta anche al capo dello Stato Sergio Mattarella nella sua qualità di presidente del Csm.
Una precisazione: in che anno siamo? 2018 inizio 2019
Questo Csm? Si.
Ha chiamato l’attuale vice presidente David Ermini? Certo.
Cosa le disse? Mi riferì che senza un’azione della Procura generale della Cassazione la Sezione disciplinare non avrebbe potuto fare alcunché.
All’epoca il procuratore generale della Cassazione era Riccardo Fuzio. Esatto. Fuzio mi convocò, insieme a mia sorella Lucia, a Roma per rendere dichiarazioni.
Come andò l’interrogatorio? Mi sono subito resa conto che Fuzio non sapeva nulla della vicenda e degli sviluppi processuali e così ho parlato per oltre un’ora di tutto quello che riguardava le anomalie nell’inchiesta, che fu condotta a ridosso della strage e di come nessuno si fosse accorto di un pentito che era palesemente falso.
Una ricostruzione dettagliata? Si. Ho riferito fatti che i magistrati dovevano sapere e invece li chiedevano a me. Veda un po’ lei.
Poi? Vorrei ricordare che la dottoressa Ilda Boccassini, all’epoca dei fatti in servizio in Sicilia, scrisse una lettera che mise in un cassetto, chiedendo di lasciare la Procura perché era convinta che Scarantino fosse un bluff. Purtroppo nessuno dei magistrati allora nel pool con lei le volle dare retta.
Se avesse consegnato quella lettera, forse, le indagini avrebbero preso una piega diversa… Ovvio: sono passati 25 anni per poter avere una sentenza che scrive quello che qualcuno già aveva rilevato nel 1992.
Torniamo a Fuzio, soprannominato “baffetto” da Luca Palamara, il magistrato che nel 2017 “soffi ò” il posto a Giovanni Salvi, come si legge nel libro dell’ex zar delle nomine al Csm. Fuzio disse che avrebbe inviato la mia deposizione al procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone (in pensione dallo scorso settembre, ndr).
Sa se è arrivato il verbale? Non so se quel verbale arrivò mai sul tavolo del procuratore Bertone e né se Bertone lo abbia mai letto.
A parte questo? Fuzio mi garantì anche che una delegazione della Procura generale della Cassazione sarebbe andata nella Procura nissena per questa ragione.
E anche su questa circostanza non sa dirmi nulla? No.
Si sente presa in giro? Mi sembra il minimo. Insieme a mia sorella avevo solo chiesto che il Csm facesse il suo dovere di indagare quei magistrati che una sentenza del 2017 aveva stabilito avessero agito in modo irregolare. Peggio ancora se pensiamo che la Corte d’Assise d’Appello ha confermato interamente quello che scrissero i giudici di primo grado.
Veniamo al Palamaragate, nato da una fuga di notizie da parte di tre quotidiani sull’indagine di Perugia. Fuzio, finito nelle intercettazioni di Palamara e ora indagato per rivelazione del segreto d’ufficio insieme a Palamara venne costretto a luglio del 2019 alle dimissioni. Cosa successe? Mi scrisse una mail pietosa con cui si dichiarava dispiaciuto di non aver potuto fare nulla. Il punto però è che era proprio lui a dover fare qualcosa, almeno come ci disse Ermini. E non fece nulla. Ancora conservo quella mail e ricordo bene la rabbia che quel tentativo di ispirare il mio pietismo mi diede.
Però, signora Fiammetta, la Procura generale della Cassazione non è il calzolaio che se il titolare va in pensione il negozio chiude… Certo. Spero che chi c’è ora (Giovanni Salvi, ndr) trovi il tempo per farmi sapere che fine hanno fatto le mie deposizioni. IL RIFORMISTA
25.2.2021 FIAMMETTA BORSELLINO, RAGIONE E SENTIMENTO. Era inevitabile. Prima o poi sarebbe dovuto accadere. L’evento scatenante, questa volta, è l’intervista rilasciata da Fiammetta Borsellino a “Il Riformista”.E così, come mi fu suggerito un po’ di tempo fa da un “amico”, la profezia si è avverata: a Palermo si muore spesso più per fuoco amico che non per fuoco nemico.Una volta si sarebbe detto “si alzano a destra e a manca voci di dissenso” mentre nella giornata di ieri abbiamo assistito all’esatto contrario, ossia “da destra e da manca” arrivava l’assordante rumore del silenzio. Nessun rilancio, nessuna citazione. Anche i “leoni da tastiera” hanno taciuto pubblicamente sui social, anche se non lo hanno fatto all’interno delle loro segretissime chat su Whatsapp o su equivalenti servizi di messaggistica istantanea. Si è alzato il velo silenzioso dello scandalo per le affermazioni della figlia del giudice Paolo Borsellino contenute nell’intervista rilasciata all’ottimo Paolo Comi che ha fatto il suo mestiere di giornalista, senza commentare e, soprattutto, senza anteporre il proprio pensiero personale alla voce di Fiammetta. Ma ciò non toglie che le sue parole siano state mal sopportate e abbiamo creato malumore e critiche ma non è politicamente corretto attaccarla pubblicamente.Poi, questa mattina, qualche voce si è sentita. Forse la notte ha portato (s)consiglio ed è partita la prima raffica di dissenso, un dissenso calibro 38 Special. Questa volta il fuoco amico nei confronti di Fiammetta Borsellino arriva dalla stampa, quella che da sempre è schierata in prima fila con i diversi movimenti antimafia.Ma cosa è successo? Ragione e sentimento, questo è successo. Fiammetta Borsellino ha commesso il reato di lesa maestà. Si è permessa, ancora una volta, di lanciare il suo monito e di puntare il dito nei confronti della magistratura, delle sue indagini e, in modo particolare, nei confronti del dottor Nino Di Matteo dichiarando: «A parte la vicenda del processo “Trattativa Stato-mafia” condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso».
Di recente, la sentenza del “Borsellino Quater” ha stabilito che ad accelerare l’uccisione di Borsellino furono diversi motivi, come il probabile esito sfavorevole del maxiprocesso e la pericolosità, per Cosa nostra, delle indagini che il magistrato era intenzionato a portare avanti, in particolare in materia di mafia e appalti. «Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò̀ per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», ha dichiarato Fiammetta Borsellino sulle colonne de “Il Riformista”. Ma se questo è veramente stato il possibile accelerante, come sostiene Fiammetta ma anche la sentenza del “Borsellino Quater”, della strage di via d’Amelio per eliminare il dottor Paolo Borsellino, perché non si è indagato? Semplice, molto semplice. Non si è indagato perché il dossier “mafia-appalti” è stato archiviato.
Ma facciamo ordine Parliamo del dossier “mafia-appalti”, quel dossier investigativo realizzato dal Ros e voluto da Giovanni Falcone. Quel dossier investigativo che, nonostante il costante tentativo di sminuirne l’importanza e, addirittura, considerarlo una semplice indagine locale, conteneva un’approfondita analisi delle connessioni tra le famiglie mafiose siciliane, i loro interessi e quelli di grandi aziende coinvolte in appalti locali.
Documento esplosivo? Se ripensiamo con lucidità ai contenuti del dossier in oggetto, possiamo pensare che fosse più confermativo che esplosivo. Molte delle grandi aziende citate nel dossier del Ros sono le stesse che comparivano nelle inchieste giornalistiche condotte negli anni ’70 da Mario Francese, quel cronista di razza che il 26 gennaio 1979 pagò con la vita la sua perspicacia e la sua capacità di analisi. Quelle grandi aziende che avevano interessi nella costruzione della diga Garcia, oggetto delle inchieste giornalistiche di Mario Francese.
Rimettiamo in ordine eventi e date. Il 16 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’«informativa mafia e appalti» relativa alla prima parte delle indagini. Il dossier passò per le mani prima dell’allora capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, e poi dei sostituti Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato. Il 9 luglio 1991 la procura chiese cinque provvedimenti di custodia cautelare e, ai legali dei cinque arrestati, fu stranamente consegnata l’intera informativa del Ros, anziché gli stralci relativi alle posizioni dei diretti interessati, con il risultato che tutti i contenuti dell’indagine vennero resi pubblici, vanificando il lavoro degli investigatori. La vicenda provocò una frattura insanabile tra il Ros e la procura di Palermo e diverse polemiche sui giornali, che parlarono addirittura di “insabbiamento” della parte d’indagine che chiamava in causa esponenti politici. Dopo la strage di Capaci il dottor Borsellino, che all’epoca della consegna del rapporto era procuratore capo a Marsala ma che dal marzo 1992 era di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto, decise di riprendere l’inchiesta riguardante il coinvolgimento di Cosa nostra nel settore degli appalti e fornirle un nuovo slancio, considerandola di grande importanza. Ciò è confermato non solo da un incontro che il dottor Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con Mori e De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini in materia di mafia e appalti riferendo esclusivamente a lui, ma anche dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che allora stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di “Mani Pulite”.
Elemento cardine è la riunione che il 14 luglio 1992, cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino, il procuratore Giammanco convocò in procura per salutare i colleghi prima delle ferie estive e per trattare “problematiche di interesse generale” attinenti ad alcune indagini: “mafia e appalti, ricerca latitanti e racket delle estorsioni”. Nella riunione, alla quale partecipò anche Borsellino, Lo Forte fu chiamato a relazionare sull’indagine, ma dalle testimonianze dei presenti risulta che la parola “archiviazione” non venne mai pronunciata e da ciò si evince che il dottor Borsellino non fu informato che il giorno prima, il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, fu presentata dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, con il visto del Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, archiviazione che verrà presentata il 22 luglio 1992, due giorni dopo la strage di via d’Amelio, e posta in essere, con la restituzione degli atti, il 14 agosto 1992. Ragione e sentimento. Omissioni, pezzi mancanti, discordanze. Dossier archiviati, vuoti di memoria ma, soprattutto, vergogna, tanta vergogna. GLI STATI GENERALI – ROBERTO GRECO
3.2.2021 – L’IRA DI FIAMMETTA: “FARANNO I CONTI CON LA PROPRIA COSCIENZA” Depistaggio via D’Amelio, il gip: “Anomalie su Scarantino, ma gli ex pm non fecero reati”. Le motivazioni del provvedimento che ha archiviato l’indagine sui magistrati Palma e Petralia. Il dolore della figlia del giudice ucciso in via D’Amelio. “Povera patria” “E’ tutto coerente – dice Fiammetta Borsellino – in linea col principio che ‘cane non mangia cane’. Chi ha lavorato male, permettendo che certe nefandezze accadessero, non farà i conti con la giustizia ma non potrà sfuggire ai conti con la propria coscienza”. La figlia di Paolo Borsellino è amareggiata per l’archiviazione dell’indagine sui due ex magistrati di Caltanissetta Annamaria Palma e Carmelo Petralia che si occuparono di Vincenzo Scarantino, il falso pentito della strage di via D’Amelio. Fiammetta, che da anni si batte per la verità attorno al depistaggio nelle indagini, ha parole severe per i due magistrati che erano indagati per calunnia aggravata. E aggiunge: “L’epilogo di questa putrida vicenda è la storia dell’Italia: lo stivale dei maiali che affonda sempre di più nel fango come dice Battiato in “Povera Italia”, pensando a quei corpi a terra senza più calore”. Per il gip di Messina Simona Finoacchiaro “ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore Scarantino”, ma non è stata “individuata alcuna condotta penalmente rilevante a carico dei magistrati oggi indagati che fosse volta a indurre consapevolmente Scarantino a rendere false dichiarazioni e a incolpare ingiustamente”. Per questa ragione è stata archiviata l’inchiesta nei confronti di Annamaria Palma (oggi avvocato generale a Palermo) e di Carmelo Petralia (procuratore aggiunto a Catania). Secondo il giudice Simona Finocchiaro, che in 23 pagine ha accolto la richiesta di archiviazione della procura, “non si ravvisa” neanche “l’utilità di ulteriori indagini”, perché “un eventuale approfondimento dibattimentale non consentirebbe l’esplorazione di alcun tema di indagine nuovo rispetto a quelli già ampiamente e approfonditamente analizzati nel corso degli anni e da ultimo con l’attività posta in essere dalla Procura di Messina”. Insomma, il depistaggio attorno alle indagini sulla strage di via D’Amelio è destinato a restare un altro mistero italiano. E restano sotto accusa solo due ispettori di polizia in pensione e un funzionario, Fabrizio Mattei, Michele Ribaudo e Mario Bò, accusati di essere stati gli esecutori degli ordini dell’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. “Possibile che hanno fatto tutto da soli?”, ha continuato a chiedersi in questi mesi Fiammetta Borsellino. Non si potrà più dare risposta a questa domanda. Il caso è archiviato. E continuiamo anche a non sapere chi ha rubato l’agenda rossa di Paolo Borsellino in via D’Amelio. “C’è uno stretto collegamento fra quel furto e il depistaggio”, hanno scritto i giudici del Borsellino Quater, ricordano le strane presenze di agenti segreti sul luogo della strage, come raccontato da due poliziotti delle Volanti, arrivati per primi dopo l’esplosione. I servizi segreti, quelli che l’allora procuratore capo di Caltanissetta Gianni Tinebra invitò a partecipare alle indagini sulla bomba di via D’Amelio. Salvo Palazzolo LA REPUBBLICA 3.2.2021