Denigrazione violenta, fango, bugie e falsità. Un metodo che viene applicato per screditare quei magistrati che, più di altri, cercano ed hanno cercato le verità scomode ed indicibili su stragi e delitti eccellenti. Attacchi diretti spesso provenienti da ambienti giornalistici e politici e, alle volte, persino dalla magistratura.
Accadeva ieri, ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Accade oggi, in particolare nei confronti del magistrato Nino Di Matteo, oggi consigliere togato indipendente al Csm, ma nel recente passato in primissima linea nella ricerca dei mandanti esterni delle stragi come sostituto procuratore a Caltanissetta, Palermo e alla Procura nazionale antimafia.
I protagonisti di questa campagna mediatica di delegittimazione sono sempre gli stessi e ciclicamente tornano a sputare i propri veleni. Dopo gli attacchi del 2012 e del 2014 è il giornalista Enrico Deaglio a prestarsi al gioco sporco. Lo fa nel suo ultimo libro, “Patria 2010-2020” (ed. Feltrinelli) in cui analizza una serie di vicende inerenti il primo decennio del Ventunesimo secolo. Nel calderone di fatti e misfatti, tutt’altro che in buona fede, offre ai lettori e al pubblico italiano una serie di informazioni incomplete e mendaci sul lavoro del magistrato. Basta leggere alcuni passaggi del libro per comprendere i deliri delle contestazioni. Il consigliere del Csm viene accusato da Deaglio non solo di essere “coinvolto”, ma anche di aver “gestito il più grande depistaggio mai avvenuto sul delitto Borsellino”. E’ un fatto noto che lo stesso Di Matteo non ha ricevuto alcun avviso di garanzia dalla Procura di Messina, impegnata nelle indagini sul depistaggio contro i magistrati che al tempo indagarono sulla strage di via d’Amelio.
Quella stessa Procura che ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia aggravata, in quanto le indagini “non hanno consentito di individuare alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino”. Una richiesta di archiviazione, su cui dovrà decidere il Gip dopo l’opposizione delle parti civili e della famiglia Borsellino, che mette in evidenza quelle vicende ricostruite nel corso del processo per il depistaggio, in corso a Caltanissetta, contro i funzionari di polizia Bo, Mattei e Ribaudo. Lo abbiamo già detto in altre occasioni: è ovvio che i tasselli del mosaico sulla strage di via d’Amelio vanno messi al loro giusto posto, ma il depistaggio non rappresenta altro che un pezzo del puzzle che riempie i buchi neri sulle indagini ma non può rappresentare la chiave di risoluzione per capire o comprendere le verità nascoste nella loro interezza. In questo puzzle Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con la vestizione del “pupo” Vincenzo Scarantino.
😡 E’ un fatto noto che si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel “Borsellino bis” (dove entrò a dibattimento già avviato, ndr).
Per questo motivo è più che mai necessario effettuare dei distinguo sull’operato dei vari magistrati e giudici che si sono occupati della strage di via d’Amelio. E se le parole hanno un peso affermare che un magistrato ha avuto un ruolo nel depistaggio significa dire che lo stesso ha collaborato con quei mandanti esterni che hanno voluto la morte di Paolo Borsellino. Tra questi certamente non vi è il pm Di Matteo che in più occasioni ha chiarito con fatti e carte alla mano, come fu valutata la vicenda Scarantino.
Lo ha fatto ogni volta che è stato chiamato a riferire nelle sedi istituzionali competenti (nei processi, in Commissione Antimafia e davanti al Csm. Ma il travisamento della realtà di Deaglio prosegue anche su altri piani laddove volutamente non parla della sentenza trattativa Stato-mafia, che in primo grado ha portato alle condanne di boss, politici e uomini delle istituzioni, accennando solo all’assoluzione dell’ex ministro Mancino dal reato di falsa testimonianza e facendo riferimento a Massimo Cianciminoaccusando Di Matteo di essersi fatto “ugualmente fregare da un secondo pentito nello sgangherato processo della ‘Trattativa’”. Parole illogiche nel momento in cui la stessa Corte d’assise nelle motivazioni della sentenza ha spiegato come le dichiarazioni del figlio di don Vito abbiano avuto un “valore assolutamente neutro” nella sentenza di condanna. Deaglio afferma anche che Di Matteo avrebbe lasciato intendere che nelle famose telefonate tra l’ex ministro Mancino e l’ex Capo dello Stato, andate distrutte dopo il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale contro la Procura di Palermo, vi fossero cose “anomale”. Partendo dal dato che mai Di Matteo ha fatto alcun cenno ai contenuti di quelle conversazioni, Deaglio dovrebbe rinfrescarsi la memoria, magari leggendo le motivazioni della sentenza, scritta dal Presidente Alfredo Montalto e dal giudice a latere Stefania Brambille, che per la posizione dell’ex ministro è divenuta definitiva dopo i mancati ricorsi della Procura e della Procura generale. Quelle telefonate, giustificate dal giornalista, vengono dichiarate come “irricevibili” dai giudici. “Ad un certo momento, – scrivevano i giudici – tra gli scopi perseguiti dal Mancino abbia assunto rilievo principale anche quello di sottrarsi ad un ulteriore confronto con l’Onorevole Martelli (relativo ai colloqui tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino, che lo stesso Martelli avrebbe fatto a Mancino, ndr) nel timore che si potesse dare credito alla versione dei fatti di quest’ultimo e che da ciò potessero derivare conseguenze negative per lo stesso Mancino in tema di falsa testimonianza” come è poi effettivamente accaduto. Ma anche che “l’intendimento che ha mosso l’imputato sia stato quello di sottrarre, in qualche modo, alla Procura della Repubblica di Palermo le indagini sulla C.d. ‘trattativa Stato-Mafia”. “Non può esservi alcun dubbio – si aggiungeva – che le sollecitazioni del Mancino si pongono al di fuori di ciò che l’ordinamento consente”. Ma cosa aspettarsi da chi, come Deaglio, di quei processi non ha seguito neanche un’udienza? Noi a Palermo e a Caltanissetta, per le udienze del processo Stato-mafia, per il Borsellino quater o il Depistaggio c’eravamo e un’idea ce la siamo fatta sul campo. Senza pregiudizi. Quei pregiudizi che invece Deaglio ha nel momento in cui omette Di Matteo nell’elenco dei magistrati che “sono andati molto avanti nel lavoro, e hanno messo nel mirino Dell’Utri, Berlusconi, Raul Gardini”. Giustamente vengono fatti i nomi di Luca Tescaroli, Antonio Ingroia, Gabriele Chelazzi ed Augusto Lama, ma l’assenza di Di Matteo, (a cui possono aggiungersi anche altri come quello di Scarpinato) è tutt’altro che un lapsus. Eppure è noto che il magistrato palermitano istruì insieme ad Anna Maria Palma il “Borsellino ter”. In questo processo per la prima volta – congiuntamente con il processo sulle stragi del ’93 a Firenze,- si parlò di mandanti esterni sulla base delle dichiarazioni di pentiti di peso come Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi. Non solo. Nelle motivazioni della sentenza si parla delle piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d’Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei Carabinieri; ma anche del fatto (così come riferiva Cancemi) che Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare “ora e in futuro”, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga “un bene per tutta Cosa nostra”. Partendo da quelle dichiarazioni proprio Di Matteo, assieme al collega Luca Tescaroli (oggi procuratore aggiunto a Firenze), aprì il fascicolo su “Alfa e Beta” (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri). In pochi ricordano che nell’inchiesta nei confronti dell’ex senatore e l’ex premier Di Matteo e Tescaroli furono lasciati soli con uno scollamento di fatto con il resto della procura di Caltanissetta. Di Matteo indagò anche sulla presenza in Via d’Amelio di Bruno Contrada, che fu anche accusato di concorso in strage (e poi archiviato), e incriminò per false dichiarazioni ai pm l’allora funzionario di Polizia Roberto Di Legami. Una vicenda complessa ricostruita in più occasioni dallo stesso Di Matteo, quando è stato sentito nei procedimenti Borsellino quater e quello contro i poliziotti. A Palermo, con il processo Trattativa Stato-mafia, valorizzò le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, lo stesso collaboratore che aveva contribuito a riscrivere la storia della strage di via d’Amelio che era stato sentito già nel Processo d’appello per concorso esterno contro Dell’Utri, sull’incontro che ebbe a Roma con il bossGiuseppe Graviano al bar Doney in cui si fece riferimento a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come i soggetti grazie a cui Cosa nostra si era messa “il Paese nelle mani”. Si commentano da sole squallide considerazioni sul rafforzamento della scorta ricevuta dal magistrato a seguito della condanna a morte di Totò Riina. Affermazioni gravi nel momento in cui svariati collaboratori di giustizia hanno parlato, anche di recente, del progetto di attentato contro il pm. Un progetto che, scrivevano i pm nisseni nell’indagine archiviata “resta operativo”. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande” diceva Giovanni Falcone in un’intervista rilasciata a Marcelle Padovani. E la solitudine e l’isolamento attorno ai magistrati passa anche da qui. Dall’operato di un giornalismo “sporco” capace solo di mistificare la verità tradendo il proprio fondamento. Giorgio Bongiovanni 23 Dicembre 2020 ANTIMAFIA DUEMILA