28 settembre 2018 “Via D’Amelio, depistaggio di Stato per favorire i boss”. Processo per i tre poliziotti che costruirono il falso pentito

 

CALTANISSETTA. Non fu per ansia di trovare un colpevole che il superpoliziotto Arnaldo La Barbera e i suoi collaboratori costruirono il falso pentito Scarantino. Il depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino fu architettato per favorire una parte di Cosa nostra. Un depistaggio di Stato. Si farà presto un processo, sul banco degli imputati gli ispettori Fabrizio Mattei, Michele Ribaudo e il funzionario Mario Bo, accusati di concorso in calunnia. Così ha deciso il giudice delle indagini preliminari di Caltanissetta Graziella Luparello, che ha disposto il rinvio a giudizio per i tre componenti del gruppo d’inchiesta della polizia incaricati di fare luce sulle stragi del 1992, avrebbero invece costruito un castello di menzogne che ha tenuto lontana la verità per tanti, troppi anni. A Scarantino venivano passati anche degli appunti prima delle audizioni in aula, appunti oggi agli atti.

Il processo che inizierà il 5 novembre è senza precedenti. Un pezzo dello Stato alla sbarra mentre un gruppo di mafiosi è parte civile, paradosso di una Sicilia ancora senza verità. Ma questo è accaduto. Sei mafiosi accusati ingiustamente della strage Borsellino sono rimasti in carcere più del dovuto, e adesso sono “parte offesa” del reato di calunnia commesso dai poliziotti. Gaetano Scotto (attualmente indagato per l’omicidio dell’agente Nino Agostino e di sua moglie) Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Giuseppe Urso e Gaetano Murana chiedono 50 milioni di euro di risarcimento al ministero dell’Interno e alla presidenza del consiglio dei ministri, in questo processo chiamati in causa come “responsabile civile”. 

Un pezzo di Stato sul banco degli imputati, per non aver cercato la verità. Anzi, di più – questa è l’accusa del procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone e del sostituto Stefano Luciani oggi in aula – per aver protetto i veri assassini di Paolo Borsellino. Si preannuncia un processo pieno di colpi di scena, mentre gli imputati respongono ogni accusa. “Seguiremo tutti i passaggi di questa vicenda – dice Fiammetta Borsellino uscendo dall’aula dove anche lei è parte civile con i suoi fratelli – La ricerca della verità non può fermarsi. Il silenzio degli imputati su quanto accaduto è davvero sconvolgente: il silenzio di questi poliziotti è peggio dell’omertà dei mafiosi”. In aula, ci sono Mattei e Ribaudo, con il loro avvocato, Giuseppe Seminara.  “Dite la verità, fatelo per i vostri figli, per la vostra famiglia, per i colleghi morti”, è l’appello agli imputati lanciato dall’avvocato Giuseppe Scozzola, legale dei mafiosi parte civile assieme ai colleghi Rosalba Di Gregorio, Giuseppe Dacquì e Ornella Butera. Fiammetta Borsellino commenta ancora: “Perché tanta omertà? E dov’erano i magistrati quando i poliziotti istruivano Scarantino?”

Ombre sui servi segreti

Misteri su misteri. Perché le parole suggerite al falso pentito Scarantino non erano del tutto false. Ad esempio, è vero che l’autobomba di via D’Amelio era una Fiat 126 modificata in un dato modo. Solo che a rubarla non era stato Scarantino, ma il boss Gaspare Spatuzza, come lui stesso ha confessato nel 2008. E, allora, la domanda cruciale, visto che i poliziotti non erano veggenti: chi suggerì ai suggeritori? Un indizio l’hanno indicato i giudici dell’ultimo processo per la strage Borsellino. Il superpoliziotto Arnaldo La Barbera era anche uomo del Sisde, il servizio segreto civile, come svelato di recente dai nuovi vertici dell’Intelligence ai magistrati di Caltanissetta. Nome in codice “Rutilius”, il nome di un militare. Quale missione doveva compiere Arnaldo La Barbera? Quale verità si doveva nascondere in via D’Amelio? “Il depistaggio e la sparizione dell’agenda rossa del magistrato sono un unico mistero”, hanno scritto anche questo i giudici del Borsellino quater.

In udienza, il Comune di Palermo e i figli di Rita Borsellino avevano chiesto di costituirsi parte civile contro i poliziotti, ma il giudice ha ritenuto “tardive” le istanze, che potranno comunque essere ribadite alla prima udienza del processo.