Dalla SENTENZA BORSELLINO QUATER
1) FABIO TRANCHINA e I SOPRALLUOGHI IN VIA D’AMELIO con GIUSEPPE GRAVIANO
2) GASPARE SPATUZZA
[…]. Proseguendo, poi, nell’analisi delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia, sulla preparazione della strage e sulle attività compiute il sabato 18 luglio 1992, dopo aver personalmente consegnato la Fiat 126, nel garage di via Villasevaglios, ai sodali Renzino Tinnirello e Ciccio Tagliavia, oltre che (si ripete) al predetto terzo estraneo, si deve esaminare la successiva sottrazione delle targhe (poi apposte all’autobomba), da parte di Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino, secondo le direttive impartite dal loro capo mandamento.
L’incarico in tal senso (come anticipato) veniva dato a Spatuzza da Giuseppe Graviano, nella settimana antecedente alla strage, nella casa di Borgo Ulivia, dove il capo mandamento trascorreva la sua latitanza: le direttive (come già accennato) erano quelle di rubare delle targhe da una Fiat 126, nel pomeriggio del sabato di quella settimana, da automobili parcheggiate all’interno di autosaloni od officine, senza far scattare allarmi né operare alcuna effrazione, in maniera tale che il proprietario se ne potesse accorgere solo al momento della successiva riapertura, dopo il fine settimana (secondo i piani di Cosa nostra, a strage già avvenuta).
Peraltro, simili modalità operative erano state seguite anche in precedenza, come spiegato dal collaboratore, per l’esecuzione di un omicidio negli anni ’90 (in quel caso le targhe venivano prelevate in via Fichidindia), oltre che, successivamente, per il fallito attentato allo stadio Olimpico nel gennaio del 1994: lo scopo non era tanto quello di sfuggire ai possibili controlli delle forze dell’ordine, in occasione degli spostamenti del mezzo da utilizzare come autobomba (come visto, infatti, la Fiat 126 di Pietrina Valenti, circolava con la sua targa originale, sia pure per pochi chilometri e con altre due automobili a far da vedetta, ancora il sabato 18 luglio 1992), quanto quello di evitare che ne venisse accertata la provenienza furtiva, una volta che l’automezzo era, appunto, già imbottito d’esplosivo e posizionato nei luoghi dove doveva esplodere. […]
Una volta reperite le due targhe, Spatuzza (come già concordato con il capo mandamento) si recava, da solo, al maneggio dei fratelli Vitale, per incontrare Giuseppe Graviano e consegnargli le targhe stesse.
Giuseppe Graviano lo aspettava, come concordato, appoggiato sulla Renault 19 che usava in quel periodo intento a conversare con un’altra persona. Una volta avvedutosi della sua presenza, Graviano gli si faceva incontro, a piedi, mentre il soggetto col quale parlava, entrava negli uffici della Palermitana Bibite (si trattava di uno de fratelli Vitale, in particolare, di quello che abitava proprio nello stabile di via Mariano D’Amelio).
Il capo mandamento di Brancaccio prendeva in consegna le targhe da Spatuzza e, dopo essersi informato sul luogo dove le aveva rubate, gli raccomandava di allontanarsi, l’indomani 19 luglio 1992, stando il “più lontano possibile” di Palermo.
Seguendo il consiglio, Spatuzza si recava a trascorrere la domenica in un villino che prendeva in affitto a Campofelice di Roccella, organizzato una piccola festa per i familiari e le persone più care, proprio per far sì che costoro non si trovassero a Palermo e, una volta appreso, dai mezzi d’informazione, della strage in danno del dott. Paolo Borsellino e degli uomini della sua scorta, pensava “ce l’abbiamo fatta” (sino a quel momento, non aveva ricevuto alcuna informazione sull’identità dell’obiettivo).
L’indomani, Spatuzza faceva rientro a Palermo ed aveva un ulteriore incontro con Giuseppe Graviano, in un appartamento di via Lincoln, nella disponibilità di Giuseppe Farana: nell’occasione, il capo mandamento si complimentava con Spatuzza per il suo apporto nell’attentato e si dimostrava estremamente soddisfatto, poiché avevano dimostrato di essere in grado “di colpire dove e quando” volevano; nel contempo, invitava Spatuzza ad adoperarsi affinché si componessero i malumori ed i piccoli contrasti che, di tanto in tanto, insorgevano nella famiglia mafiosa di Brancaccio, in prospettiva di “altre cose” che dovevano “portare avanti”.
[…] Dunque, si può senz’altro affermare che le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, in ordine alle attività compiute nella settimana precedente all’attentato di via D’Amelio, vanno a comporsi armonicamente con quelle rese dagli altri collaboratori di giustizia coinvolti in quel segmento della fase esecutiva relativa all’osservazione degli spostamenti di Paolo Borsellino, nella giornata della domenica 19 luglio 1992.
Se ne ricava, infatti, un quadro complessivo in cui, nella settimana precedente la strage, i soggetti deputati alla sua realizzazione (appartenenti, da un lato, alle famiglie della Noce, Porta Nuova, San Lorenzo e, dall’altro, a quelle di Brancaccio, Corso dei Mille e Roccella) si attivavano, secondo i rispettivi ambiti di competenza, per portare a compimento l’attentato (pianificato per la giornata di domenica 19 luglio 1992), secondo la sequenza cronologica di seguito indicata:
– sabato 11 luglio 1992, Salvatore Biondino ed i suoi uomini (Giovan Battista Ferrante ed i due Salvatore Biondo, “il lungo” ed “il corto”), effettuavano la prova del telecomando alle Case Ferreri;
– lunedì 13 luglio oppure martedì 14 luglio, Raffaele Ganci sondava la disponibilità di suo nipote, Antonino Galliano ad effettuare, per la domenica successiva, il pedinamento del dott. Borsellino;
– in un arco di tempo compreso tra il martedì 14 luglio ed il successivo giovedì 16 luglio, Gaspare Spatuzza veniva convocato da Giuseppe Graviano, per ricevere le sue direttive sul furto delle targhe da apporre all’autobomba. Nell’occasione, il capo mandamento raccomandava espressamente di rubare le targhe il sabato pomeriggio, in orario di chiusura degli autosaloni e delle officine, senza operare alcuna effrazione o fare altro che potesse anticipare la denuncia del furto a prima del lunedì successivo;
– giovedì 16 luglio 1992, Salvatore Biondino (in compagnia di Giuseppe Graviano e di Carlo Greco) diceva a Giovanni Brusca che erano “sotto lavoro” e che non avevano bisogno di alcun aiuto, da parte sua (confermando che, in quel preciso momento, la macchina organizzativa della strage era già ben definita);
– lo stesso giovedì 16 luglio oppure l’indomani, Salvatore Biondino avvisava Giovan Battista Ferrante di non andare in barca la domenica successiva e di tenersi a disposizione, perché ci sarebbe stato “del daffare”;
– nello stesso arco di tempo, fra il 16 giovedì ed il venerdì 17 luglio, Raffaele Ganci informava Salvatore Cancemi che la domenica ci sarebbe stato l’attentato con l’esplosivo, contro Paolo Borsellino, durante una visita del Magistrato alla madre e che Salvatore Biondino aveva già messo a punto ogni dettaglio per l’esecuzione;
– venerdì 17 luglio 1992, alle ore 17.58, Gaspare Spatuzza telefonava all’utenza intestata a Cristofaro Cannella […];
– sabato 18 luglio 1992, nella tarda mattina, Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino recuperavano, da un elettrauto di Corso dei Mille, due batterie per autovettura, necessarie, assieme all’antennino procurato dall’imputato, a far esplodere l’autobomba; successivamente, Spatuzza portava la Fiat 126 in un garage seminterrato, a meno di un chilometro di distanza dalla via D’Amelio, scortato da Nino Mangano e Fifetto Cannella; nello stesso pomeriggio, Spatuzza e Tutino rubavano anche le targhe da un’altra Fiat 126, nella carrozzeria di Giuseppe Orofino e, successivamente, Spatuzza consegnava dette targhe a Giuseppe Graviano, presso il maneggio dei fratelli Vitale (come da precedenti accordi);
– sempre nella giornata del sabato 18 luglio 1992, Giovan Battista Ferrante incontrava Salvatore Biondino, che – dandogli appuntamento per le sette dell’indomani mattina – gli consegnava un biglietto con scritto il numero di un’utenza mobile (quella intestata a Cristofaro Cannella) che doveva chiamare, l’indomani, appena avvistato il convoglio di automobili della scorta di Paolo Borsellino;
– domenica 19 luglio 1992, alle ore 16.52, Giovan Battista Ferrante telefonava all’utenza mobile di Cristofaro Cannella, per avvisare dell’imminente arrivo del magistrato in via D’Amelio.
Dalla sequenza degli eventi appena indicati, desumibile dal racconto dei collaboratori di giustizia che partecipavano alla fase esecutiva dell’attentato (o che offrivano, comunque, elementi concreti per ricostruire detta fase), pare evidente che le (attendibili) dichiarazioni di Gaspare Spatuzza (sostituendosi a quelle, mendaci, rese in precedenza da Vincenzo Scarantino) si saldano perfettamente con quelle rese da Antonino Galliano, Giovan Battista Ferrante, Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca, trovando anche, nello svolgimento degli accadimenti da costoro descritta, un’efficace riscontro di natura logica.
Ancora, si deve rilevare come le predette dichiarazioni dei vari collaboratori di giustizia, oltre ad essere perfettamente compatibili e complementari fra di loro, convergono anche in merito alla circostanza fondamentale che il giorno prescelto per l’attentato in via D’Amelio era proprio la domenica 19 luglio 1992: in questo senso, infatti, vanno lette anche le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, sulle precise direttive impartitegli da Giuseppe Graviano per il furto delle targhe (di sabato pomeriggio, in orario di chiusura degli esercizi, senza fare effrazioni o lasciare tracce visibili, che avrebbero anticipato la denuncia, rispetto al lunedì).
Nello stesso senso, come detto, paiono illuminanti le dichiarazioni di Antonino Galliano, cui veniva richiesta – già lunedì 13 o martedì 14 luglio – la disponibilità a pedinare il magistrato per la domenica successiva ed anche quelle di Giovan Battista Ferrante, che doveva tenersi a disposizione per la domenica, nonché (sia pure con minor precisione) quelle di Salvatore Cancemi, cui Raffaele Ganci faceva presente, pochi giorni prima della strage (giovedì o venerdì), che tutto era già organizzato per fare un attentato a Paolo Borsellino, con l’eplosivo, quella domenica. Tutte queste dichiarazioni, trovano ora, ulteriore e significativo sostegno, in quelle rese da Gaspare Spatuzza.
[…] Per quanto riguarda, poi, le ragioni della scelta di collaborare con la giustizia, Spatuzza la spiegava come il punto d’arrivo di un tormentato percorso morale e religioso, di rivisitazione critica delle proprie condotte delinquenziali, avendo egli maturato, durante la propria detenzione ed anche a seguito dell’incontro con persone che scontavano condanne per la strage di via D’Amelio, basate su ricostruzioni che egli ben sapeva non esser rispondenti a quanto realmente accaduto il 19 luglio 1992 e nei giorni immediatamente precedenti, il desiderio di modificare radicalmente la sua vita e di riscattare i suoi trascorsi, anche cercando conforto nella religione […] In proposito va evidenziato che, […], era proprio nel periodo della detenzione a Parma, con Gaetano Murana, che Spatuzza, pur non essendo affatto intenzionato a diventare un collaboratore della giustizia, si spingeva a fare delle rivelazioni ai magistrati della Procura Nazionale Antimafia, per avvisare che c’erano stavano facendo un errore negli accertamenti giudiziari sulla strage di via D’Amelio: a tal riguardo, si rinvia alla lettura del verbale integrale del colloquio investigativo con i dottori Vigna e Grasso del 26.6.1998 (acquisito agli atti, sull’accordo delle parti, all’udienza del 7.11.2016).
In detto verbale -peraltro, ben difficilmente utilizzabile, ai fini di prova (sebbene oggetto di molteplici domande, nel controesame dibattimentale del collaboratore), in quanto reso in totale assenza di garanzie difensive (e facendo esplicitamente presente che si trattava di un colloquio senza alcuna valenza processuale)- Gaspare Spatuzza (ben dieci anni prima dell’avvio della sua collaborazione), diceva che l’automobile, poi utilizzata come autobomba in via D’Amelio, veniva rubata dai ragazzi della Guadagna e, poi, da ‘‘altri’’, senza che Orofino sapesse alcunché o c’entrasse qualcosa, avendo semplicemente subito il furto delle targhe da un mezzo ricoverato nella sua autofficina; l’automobile veniva riempita altrove, d’esplosivo, e Vincenzo Scarantino era totalmente estraneo a questi fatti; gli avevano fatto dire ‘‘quelle cose che non doveva dire’’.