12 luglio 2022 Depistaggio Borsellino, aggravante mafiosa, la prescrizione salva due poliziotti: assolto il terzo

 

E’ arrivata dopo quasi dieci ore la sentenza del processo che riguarda Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo che erano accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra in relazione alla gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino

Cade l’aggravante mafiosa per due dei tre poliziotti imputati del processo depistaggio Borsellino: prescritti i reati per Mario Bo e Fabrizio Mattei mentre Michele Ribaudo è stato assolto. E’ arrivata dopo quasi dieci ore la sentenza del processo. La prescrizione salva dunque due dei tre poliziotti per i quali l’accusa aveva chiesto pene altissime.

Il poliziotto Michele Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. E’ quanto si legge nel dispositivo della sentenza del processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio appena emessa dal Tribunale di Caltanissetta.
Per gli altri due poliziotti, Mario Bo e Fabrizio Mattei è stata decisa la prescrizione del reato perché è decaduta l’aggravante mafiosa. Erano tutti accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio e, in particolare, per aver contribuito a “vestire il pupo”, ovvero a “costruire” il falso pentito Vincenzo Scarantino.

Per Bo il procuratore Salvatore De Luca e i sostituti Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso avevano chiesto 11 anni e 10 mesi di carcere, per gli altri due imputati 9 anni e mezzo.

Cronistoria di un depistaggio

Cinque processi in trent’anni, che diventano quattordici se si contano anche gli appelli e le decisioni della Corte di Cassazione. Oltre trenta giudici si sono espressi su quanto accaduto alle 16.58 del 19 luglio del 1992 in via D’Amelio. Sono state emesse condanne, anche all’ergastolo, assoluzioni, e c’è stata una revisione per delle condanne a vita inflitte ad innocenti che nulla c’entravano con la strage in cui furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Una storia lunga, lunghissima. Il primo processo, il cosiddetto “Borsellino Uno”, ha preso il via dopo le dichiarazioni di quello che si rivelerà essere poi un falso pentito, Vincenzo Scarantino. A presiedere la Corte d’assise di Caltanissetta era il giudice Renato Di Natale. Il 26 gennaio 1996 fu emessa la sentenza con la condannato all’ergastolo per Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto e a 18 anni di reclusione per il collaboratore Vincenzo Scarantino, come richiesto dalla Procura.

In secondo grado, la Corte d’appello, presieduta da Giovanni Marletta, aveva confermato l’ergastolo solo per Profeta, invece Orofino venne condannato per favoreggiamento a nove anni e Scotto fu assolto. Nel frattempo Vincenzo Scarantino, l’ex picciotto della Guadagna, aveva già ritrattato le sue accuse. La Corte d’assise presieduta da Pietro Falcone, il 13 febbraio 1999, aveva emesso la condanna a sette ergastoli per Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino e Gaetano Scotto e altre dieci per associazione mafiosa.

Passa qualche anno e inizia il processo “Borsellino bis”. Il 18 marzo 2002 la Corte d’appello, presieduta da Francesco Caruso, aveva modificato la sentenza, aumentando gli ergastoli così da portarli a tredici e infliggendoli anche a Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana e Giuseppe Urso. Dopo la clamorosa ritrattazione, Scarantino decise nuovamente di tornare sui propri passi. E in parte venne creduto dai giudici.

Quella del 2002, è la sentenza che venne poi travolta dalla revisione. Nel frattempo, la Procura generale aveva portato in tribunale anche un nuovo collaboratore di giustizia, Calogero Pulci. Il verdetto del 18 marzo 2002 aveva restituito piena credibilità all’intero racconto del ‘picciotto’ della Guadagna rivalutandone integralmente le dichiarazioni.

A gennaio del 2003 si concluse il processo “Borsellino ter” in primo grado. Il collegio presieduto da Carmelo Zuccaro, l’attuale procuratore capo di Catania, aveva inflitto 17 ergastoli e 175 anni di reclusione, dieci le assoluzioni. Condanne a vita per Giuseppe Madonia, Nitto Santapaola, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo, Cristoforo Cannella, Domenico e Stefano Ganci. Ventisei anni per il pentito Salvatore Cancemi, 23 per Giovanbattista Ferrante, 16 a Giovanni Brusca.

In appello, per Cancemi e Ferrante era arrivato uno sconto di pena: la Corte presieduta da Giacomo Bodero Maccabeo gli aveva riconosciuto l’attenuante prevista per i collaboratori di giustizia. Ma dei 22 ergastoli chiesti dalla procura generale, ne fu decretato solo uno. Non confermati quelli inflitti in primo grado per Stefano Ganci (condannato a 30 anni), per Giuseppe Farinella, Giuseppe Madonia, Nitto Santapaola, Nino Giuffrè, Salvatore Montalto e Matteo Motisi, condannati a 20 anni. La sentenza della Suprema Corte, di annullamento con rinvio di alcune posizioni, ha determinato un nuovo processo d’appello, a Catania.

Nel frattempo irrompe sulla scena un nuovo collaboratore di giustizia. Il suo nome è Gaspare Spatuzza. Inizia a raccontare particolari sulla strage di via D’Amelio e a dire, con forza, che Vincenzo Scarantino ha detto solo fandonie. Perché non poteva sapere nulla di quella strage. Inizia dunque una nuova fase di indagini per la Procura nissena.

La Procura di Caltanissetta, diretta da Sergio Lari, ha chiesto, dunque, l’emissione di quattro ordinanze di custodia cautelare, riguardanti il capomafia pluriergastolano Salvino Madonia perché accusato di aver partecipato nel dicembre 1991 alla riunione della Cupola in cui si decise l’avvio della strategia stragista, ma anche i boss Vittorio Tutino e Salvatore Vitale. Il primo rubò con Spatuzza la 126 per la strage; il secondo abitava nel palazzo della madre di Borsellino, in via D’Amelio, e avrebbe fatto da talpa. Un quarto provvedimento ha riguardato il pentito Calogero Pulci, l’unico in libertà. Per lui l’accusa era di calunnia aggravata, perché con le sue dichiarazioni avrebbe finito per fare da riscontro al falso pentito Vincenzo Scarantino.

Vengono passate al setaccio le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Che racconta tanti dettagli, tutti veritieri. I magistrati e gli investigatori della Dia di Caltanissetta iniziano a conoscere i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano. Ma resta un mistero: chi era l’uomo che il giorno prima della strage avrebbe partecipato alle operazioni di caricamento dell’esplosivo sulla 126, in un garage di via Villasevaglios, a Palermo? Spatuzza ha sempre detto di non conoscerlo. Forse appartiene, pensano i magistrati, ai servizi segreti. A confermare le parole di Spatuzza sugli esecutori della strage di via D’Amelio è la confessione di chi si era accreditato come collaboratore di giustizia attendibile, depistando le indagini sull’eccidio del 19 luglio 1992.

Soltanto nel 2017, con l’esito del processo Borsellino quater primo grado (sentenza del 20 aprile) e quello del processo di revisione (sentenza del 13 luglio), si è conseguita la certezza della inattendibilità inconfutabile ed irreversibile di Scarantino, di Andriotta e degli altri collaboratori a loro legati. Dunque l’incontestabile falsità delle rispettive propalazioni. A mettere una pietra tombale sui processi sulla strage di via D’Amelio è la Corte di Cassazione, che nel processo Borsellino quater scrive: “La strage di via d’Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa Nostra, in quanto stretta dalla paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il ‘maxiprocesso’, potendo le emergenze probatorie relative a quelle ‘zone d’ombra’ – in parte già acquisite in altri processi, in parte disvelate dal presente processo – indurre, al più, a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti, o gruppi di potere, interessati alla eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta”.

La Cassazione ha così confermato le condanne all’ergastolo per i boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, condannando per calunnia i falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci e Francesco Andriotta (per quest’ultimo con un lieve sconto di pena di 4 mesi) confermando la sentenza emessa dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nel novembre 2019.

Per i giudici della quinta sezione penale della Cassazione i “nuovi scenari” che le vicende oggetto del processo “trattativa Stato- mafia” avrebbero disvelato, non incidono in maniera sostanziale sul processo. Gli ermellini infatti hanno sottolineato la “sostanziale neutralità” ai fini dell’accertamento oggetto del presente processo nella ricostruzione della sentenza impugnata (e della conforme sentenza di primo grado). E oggi arriva un altro giudizio, il quattordicesimo. Sul “più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”. In attesa di capire quanto accadde quel pomeriggio del 19 luglio di 30 anni fa.

fonte Adnkronos


Depistaggio Borsellino, il tribunale assolve uno dei poliziotti. Per altri due il reato è prescritto

 

Erano imputati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. Non si esclude il depistaggio, “il più grave nella storia della Repubblica” secondo l’accusa

 

Il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. Assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo. Erano imputati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia.

Secondo la Procura, gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi del ’92, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, poi deceduto, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire e ad accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti: da qui la contestazione di calunnia.  

Il castello di menzogne costruito grazie ai falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato, per i pm,  i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. E per questo ai tre poliziotti la Procura ha imputato l’aggravante di aver favorito Cosa nostra.  

Aggravante che, evidentemente non ha retto al vaglio del  tribunale e ha determinato la prescrizione del reato contestato a due dei tre imputati.   Il terzo è stato, invece, assolto nel merito con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. 

 Solo il lavoro dei pm nisseni e le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ha ridisegnato le responsabilità nell’attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, e che ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, ha svelato un depistaggio, definito dai giudici dell’ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica. 

Depistaggio che questa sentenza non esclude. 

Al dibattimento si sono costituiti parte civile i figli del giudice Borsellino, Fiammetta, Lucia e Manfredi, che da 30 anni chiedono di conoscere la verità sulla morte del padre; il fratello del magistrato, Salvatore Borsellino,  i figli della sorella Rita Borsellino, i familiari degli agenti di scorta, oltre ai sette innocenti, scagionati dopo il processo di revisione: Gaetano Scotto, Gaetano Murana, Natale Gambino, Salvatore Profeta.

Inquirenti, pompieri e gente comune in via D’Amelio a Palermo subito dopo l’attentato del 19 luglio 1992 in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta RAI NEWS


Depistaggio Borsellino, due poliziotti prescritti e uno assolto: “Salvati da ritardo dello Stato”

Due prescrizioni e un assoluzione. È quanto ha deciso il tribunale di Caltanissetta sulle accuse contestate a Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, i tre poliziotti erano accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992 nella quale morirono il giudice Paolo Borsellino e alcuni agenti della scorta. L’attentato di Cosa Nostra si inseriva in quella strategia stragista che solo due mesi prima aveva colpito e ammazzato il giudice Giovanni Falcone. La sentenza lascia scontenti quasi tutti e rappresenta l’ennesimo giro a vuoto nella ricerca della verità sull’attentato di trent’anni fa in via D’Amelio.

Gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi del 1992, erano accusati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Secondo l’accusa avevano costruito a tavolino, con la regia del loro capo deceduto Arnaldo La Barbera, una falsa verità sull’attentatocostringendo Vincenzo Scarantino e gli altri due pentiti Salvatore Candura e Francesco Andriotta ad autoaccusarsi e ad accusare sette persone innocenti della strage di via D’Amelio che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il processo per il depistaggio è iniziato nel novembre 2018. Ha avuto quasi cento udienze.

Stando all’accusa quella costruzione di falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. “I plurimi, gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza”, aveva detto la Procura durante la requisitoria. L’aggravante di aver favorito Cosa Nostra non ha retto al vaglio del tribunale che quindi ha dettato la prescrizione. Al termine della requisitoria il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore De Luca e i pubblici ministeri Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso avevano chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo, 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Fra le parti civili nel processo la famiglia Borsellino (assistita dall’avvocato Fabio Trizzino), l’avvocato Rosalba Di Gregorio a rappresentare Gaetano Murana, l’ex netturbino in carcere per 17 anni da innocente, l’avvocato Giuseppe Scozzola, legale di Gaetano Scotto e l’avvocato Roberto Avellone in rappresentanza di alcuni familiari degli agenti di scorta.

Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato” secondo quanto si legge nel dispositivo di sentenza sul depistaggio. A presiedere il collegio era Francesco D’Arrigo. Il lavoro dei pm nisseni e le parole del pentito Gaspare Spatuzza avevano ridisegnato le responsabilità nell’attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, e ha svelato quel depistaggio, definito dai giudici dell’ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica.

“Aspetteremo di leggere le motivazioni per capire eventualmente quali sono gli aspetti che potranno costituire motivi d’appello”, le prime parole dell’avvocato Fabio Trizzino che ha rappresentato durante tutto il dibattimento i fratelli Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, i primi due presenti in aula alla lettura del dispositivo di sentenza. “Il Tribunale non ha accolto la nostra ricostruzione specie all’aggravante, è una sentenza che va rispettata. Il dato che evidenzio è che Bo e Mattei hanno commesso la calunnia, quindi la prescrizione che nasce da un ritardo dello Stato li salva perché sono fatti di 30 anni fa, ma l’elemento della calunnia resta. Il fatto che lo Stato ha esercitato in ritardo la potestà punitiva li ha posti al riparo, però è una sentenza che non ci soddisfa ma ci prendiamo quel che di buono c’è”.

Insoddisfatto dalla sentenza anche l’avvocato Giuseppe Panepinto, legale del funzionario di polizia Mario Bo, “perché riteniamo che i nostri assistiti sono completamente estranei ai fatti contestati”. Il tribunale di Caltanissetta ha rinviato alla procura gli atti affinché valuti se procedere per il reato di calunnia nei confronti del falso pentito Vincenzo Scarantino. Tramessi anche gli atti in ordine alle dichiarazioni rese dai poliziotti Maurizio Zerilli, Angelo Tedesco, Vincenzo Maniscaldi e Giuseppe Di Gangi in quanto testimoni sospettati di falsità o reticenza.

“Ritenere in questo processo – ha aggiunto l’avvocato Giuseppe Seminara, legale di Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo – che calunnia vi sia stata e nello stesso tempo assolvere Ribaudo significa che anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore. Il fatto che sia stata dichiarata la prescrizione non significa affatto che noi siamo in presenza di elementi certamente univoci rispetto alla responsabilità di Bo e di Mattei. Dovremo analizzare le motivazioni della sentenza per comprendere qual è il percorso motivazionale. Certamente è stata esclusa l’aggravante. Quindi sotto questo aspetto per quanto riguarda l’agevolazione all’associazione criminale non c’è alcun dubbio secondo questa ricostruzione che anche i nostri assistiti sul punto devono essere ritenuti estranei. Sul resto aspetteremo la motivazione della sentenza e anche se ci fosse un solo pelo che possa turbare l’onore, il decoro delle loro posizioni professionali in 40 anni di attività, presenteremo appello e vedremo cosa ci sarà da fare“.

Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.


Processo Borsellino: prescrizione e assoluzione per i poliziotti, il depistaggio rimane senza autori

Nel primo grado del processo per il depistaggio per la morte di Paolo Borsellino: prescrizione per Mario Bo e Fabrizio Mattei, assoluzione per Michele Ribaudo

12 luglio, 2022 • 23:20

Due prescrizioni e una assoluzione perché il fatto non sussiste, così si conclude in primo grado il processo per il depistaggio per la morte di Paolo Borsellino nei confronti di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. I tre poliziotti accusati di calunnia per aver indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino a mettere a verbale bugie e ad accusare ingiustamente degli innocenti, che poi furono condannati all’ergastolo per la strage. I reati contestati a Bo e Mattei sono stati dichiarati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto. Il Borsellino quater, ricordiamo, ha sentenziato che è stato messo in atto il più grande depistaggio della storia giudiziaria del nostro Paese. Ma con questa sentenza, sommandola all’archiviazione nei confronti dei magistrati che seguirono le indagini, si rimane senza colpevoli. Un depistaggio senza autori, quindi. Ricordiamo che, durante la requisitoria, secondo il pubblico ministero Stefano Luciani, i tre imputati «hanno avuto molteplici condotte e tutte estremamente gravi, che rendono tangibile il grado di compenetrazione nelle vicende: non una condotta illecita di passaggio, ma che dal primo momento fino all’ultimo si ripete e si reitera». E poi ha aggiunto: «È dimostrato in maniera assoluta il protagonismo del dottor Mario Bo, sulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e nella illecita gestione di Scarantino nella località protetta». Ma con la sentenza di primo grado, tale reato – se c’è stato – è prescritto.

Il rapporto tra Cosa nostra e ambienti esterni confermato da Giuffrè

Rimangono così sospesi tanti punti interrogativi. Ricordiamo che a parere del procuratore Luciani ci sarebbero forti elementi a dimostrare «convergenze che certamente ci sono state nella ideazione della strage di via D’Amelio, tra i vertici e gli ambienti riferibili a Cosa nostra, e ambienti esterni ad essa». Ma quali sarebbero stati questi ambienti? Il pm Luciani fa riferimento a ciò che disse l’ex boss Antonino Giuffrè pentito nel 2001. Cosa nostra, prima di deliberare le stragi di Capaci e Via D’Amelio aveva assunto dei contatti con soggetti esterni ad essa per sondare i loro umori. Giuffrè è stato preciso e il pm ha sottolineato di prestare attenzione agli ambienti di riferimento di cui parla il pentito. Ovvero imprenditori e una parte di politici. Di cosa si è parlato? «Hanno inciso profondamente – ricorda Luciani le parole di Giuffrè – in discorsi economici e in modo particolare il discorso degli appalti pubblici». Il dato, tra l’altro riportato in tutte le sentenze sulle stragi, è che le stragi sono frutto di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e ambienti imprenditoriali e politici. Ma a facilitare la strage è stato anche il clima di isolamento nei confronti di Borsellino soprattutto dal suo ambiente lavorativo. Anche qui il pm Luciani è stato chiaro durante la requisitoria. I dati sono incontrovertibili. Sono tanti, a partire – così ha ricordato il pm durante la requisitoria – dalla testimonianza della moglie Agnese quando si riferì alla passeggiata sul lungomare senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, così riferì la moglie, «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ud ucciderlo della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere». Quindi i suoi colleghi ed altri avrebbero permesso che si potesse addivenire alla sua eliminazione. «E questa è la traduzione di quello di cui ha parlato Giuffrè, ovvero il clima di isolamento che crea le condizioni per arrivare ad eliminare il dottor Borsellino!», ha chiosato il pm Luciani.

Per Lipari con l’arrivo di Borsellino Giammanco avrebbe avuto problemi

Altro dato, ma è solo la punta dell’iceberg, è ciò che disse Pino Lipari in merito al trasferimento di Borsellino alla Procura di Palermo. Il pm Luciani ha ricordato le motivazioni della sentenza del quater: «Il pentito Angelo Siino ha riferito i commenti di Pino Lipari secondo cui l’arrivo di Borsellino avrebbe certamente creato delle difficoltà a quel santo cristiano di Giammanco e cioè al procuratore della Repubblica con il quale già Giovanni Falcone aveva avuto contrasti e incomprensioni dal punto di vista professionale che l’avevano determinato ad accettare l’incarico propostogli del ministero della giustizia». Ma perché il pm ha fatto riferimento a ciò? Si ritorna sempre agli ambienti esterni riferiti da Giuffrè. Ricorda che durante l’udienza del 2019, il pentito Brusca fece riferimento all’impresa Reale e tale azienda era proprio legata a Lipari. «Era un’impresa fallita, ma a un certo punto questa impresa riemerge e viene sponsorizzata da Salvatore Riina – ha spiegato il pm sempre durante la requisitoria – e messa nel giro dei grandi appalti: doveva essere lo strumento per creare il nuovo canale politico istituzionale: uno degli strumenti che venne individuato da Cosa Nostra quale possibile cerniera tra il mondo mafioso, quello politico di rilievo nazionale e imprenditoria di rilievo nazionale». E chi c’era dietro l’impresa reale come referenti per Cosa nostra? Pino Lipari e Antonino Buscemi. Quest’ultimo doveva curare il rapporto con le figure del gruppo Ferruzzi, «ma era l’ingegner Bini quello che rappresentava questa nuova cordata politica imprenditoriale», ha sottolineato Luciani. Tutta questa operazione, come ha riferito Brusca, avviene tra il 1989 e il 1992. «Siamo nel pieno periodo stragista!», ha chiosato Luciani.

L’avvocato Trizzino: «Un disegno criminoso di chi doveva cercare la verità»

Quindi il depistaggio non può non essere slegato dalla genesi dell’attentato di Via D’Amelio. Entrambi i momenti sono stati congegnati da Cosa nostra con il benestare di queste forze esterne appena descritte. Aiutano le parole dette in aula dall’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile dei figli di Borsellino: «Nell’opera di ricostruzione di ciò che è avvenuto dopo la strage di via D’Amelio, l’approssimazione, le anomalie e negligenze corrispondevano a un disegno criminoso portato avanti da uomini che doveva ricostruire la verità: è stato compromesso il diritto dell’accertamento della verità negli eventi antecedenti e successivi che hanno portato alla strage di via d’Amelio!». È oramai storia nota che erano state condannate – con tanto di conferma in Cassazione – delle persone innocenti, accusate di essere stati gli esecutori della strage di Via D’Amelio. Tesi che si è retta esclusivamente sulle accuse da parte di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e soprattutto da Vincenzo Scarantino, il quale (pur attraverso un percorso dichiarativo disseminato di contraddizioni e ritrattazioni) aveva accusato di partecipazione alla strage di Via D’Amelio, oltre che sé stesso, numerose persone, alcune delle quali appartenenti alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù (uomini di Pietro Aglieri).

Con le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza nel 2008 la svolta nelle indagini

La svolta si ebbe nel 2008, con un lavoro iniziato dalla “nuova” procura di Caltanissetta sulla scorta delle dichiarazioni sconvolgenti di Gaspare Spatuzza, il quale nel giugno dello stesso anno aveva manifestato tale intendimento al Procuratore Nazionale antimafia, spiegando che la propria decisione era frutto di un sincero pentimento basato su una autentica conversione religiosa e morale, oltre che sul desiderio di riscatto. Spatuzza si è attribuito la responsabilità – unitamente ad altri soggetti inseriti in Cosa nostra – di un importante segmento della fase esecutiva della strage di Via D’Amelio. Siamo così arrivati al Borsellino quater che accertò il depistaggio, da lì è nata anche una indagine nei confronti dei magistrati di allora, coloro che gestirono lo pseudo pentito Scarantino. Ma è stata archiviata. Erano rimasti soltanto i poliziotti, conclusasi con la prescrizione e una assoluzione. IL DUBBIO