9.4.2023 Depistaggio Borsellino, il grande bluff e il gioco delle tre scimmiette: pm vittime o complici? La determinazione di FIAMMETTA BORSELLINO

 

Adesso che abbiamo la conferma sul più grande depistaggio di Stato della storia italiana, e l’abbiamo potuta leggere nero su bianco nelle motivazioni della sentenza di Caltanissetta sui tre poliziotti accusati di calunnia, non sarà ora di chiamare, quanto meno al tribunale della storia, per nome e cognome tutti coloro che, in divisa e in toga, avrebbero potuto smascherarlo e non lo hanno fatto? E chiederci anche perché non lo hanno fatto?

Partiamo dalla deportazione di Stato dell’estate del 1993 di mafiosi e anche di tanti non mafiosi nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Un gesto eclatante e scenografico da parte di un governo incapace non solo di fermare le stragi di mafia dopo le uccisioni di Falcone e Borsellino, ma anche di arrestare i boss di Cosa Nostra, ancora tutti latitanti. Esibizione muscolare ma non solo. Torture, botte e minacce, persino finte esecuzioni: questo è quanto testimoniato e mai smentito da coloro che subirono quel tipo di detenzione in quei giorni. “Pentitificio”, lo abbiamo definito, anche questo senza smentita. È la storia di Enzino Scarantino, analfabeta della Guadagna, uomo dalla condotta non certo militaresca, non proprio l’immagine del mafioso di fiducia di Totò Riina. Sicuramente torturato e minacciato, come emerso da subito. Ha parlato e ritrattato, poi ancora parlato e ritrattato.

Ha detto di aver imbottito di tritolo l’auto della strage di via D’Amelio in un certo garage situato in una via che lui neanche conosceva. Ma nessuno ha controllato, poi è stato fatto un sopralluogo di cui non esiste un verbale. Tutto ciò solo per far fare carriera a Arnaldo La Barbera, l’abile poliziotto chiamato a Palermo a dirigere il gruppo di lavoro “Falcone e Borsellino” e a farlo poi diventare questore della città? Poco credibile. Ma resta il fatto che, di mancato controllo in mancato controllo, passano trent’anni prima che un tribunale sancisca che, se il depistaggio era di Stato, probabilmente anche le stragi lo erano. Questa vicenda lascia sul terreno morti e feriti, non solo in senso letterale. Gli innocenti chiamati alla sbarra dal fantoccio Scarantino, prima di tutto, condannati all’ergastolo e rimasti in carcere fino al 2008, quindici anni dunque, quando Gaspare Spatuzza iniziò la collaborazione con la magistratura e svelò di esser stato lui in persona, e non Scarantino, a imbottire di tritolo l’auto che avrebbe ucciso il giudice Borsellino.

Lui conosceva bene il garage e anche la via, così quella volta dopo il sopralluogo fu steso il verbale. Ma nel frattempo, quanti pubblici ministeri e quanti giudici non mostrarono curiosità nei confronti di quello strano “pentito” creato a tavolino a suon di botte e minacce? La curiosità, ecco la grande assente di questi processi. Partiamo dai pubblici ministeri che “gestirono” le testimonianze di Scarantino, i pubblici ministeri Alma Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo. I primi due sono stati scagionati dal Csm, del terzo si disse che aveva avuto un ruolo marginale. Tutti come le tre scimmiette che non vedono non sentono e non parlano. E lasciamo perdere il capo dell’ufficio Giovanni Tinebra, ormai scomparso come La Barbera. Mezza procura di Caltanissetta si chiudeva nell’ufficio con il “pentito” ogni volta che questi doveva andare a deporre nei vari processi, lo ha testimoniato Ilda Boccassini.

Inoltre, sugli appunti che il fantoccio portava con sé come promemoria, c’erano anche intere frasi vergate da una scrittura femminile, che evidentemente non era quella della moglie. Che bisogno c’era di dare l’imbeccata, se il teste era genuino e sincero? E come mai, ogni volta che Scarantino cercava di ritrattare, non veniva creduto? Neanche quando, in seguito a una lettera della moglie che denunciava le torture cui il marito veniva sottoposto nel carcere di Pianosa, la vicenda fu resa pubblica persino in Parlamento? Ci sono tanti modi di rendersi complici del silenzio, di quella mancanza di curiosità. Non vogliamo accusare nessuno, ci ha già pensato con grande determinazione Fiammetta, una delle figlie di Paolo Borsellino, di fronte all’assurdità di chi ha pensato, la procura di Caltanissetta, con l’impegno personale del suo capo Salvatore De Luca, di mettere una pezza al Grande Depistaggio di Stato con il processo per calunnia a tre poliziotti. Oltre a tutto con l’evidente svarione di voler contestare loro l’aggravante di mafia, che naturalmente è caduta fin dal primo grado del processo, portando alla fine a due prescrizioni e un’assoluzione.

Ma in tanti avrebbero potuto parlare, in questi trent’anni. L’ex magistrato Antonio Ingroia, per esempio, che da giovane pm era andato a interrogare Scarantino su Contrada (altra vittima del depistaggio) e Berlusconi come “narcotrafficante”. Ritenne di trovarsi davanti a una bufala e lasciò perdere. Quando lo ha detto? Nel 2021. Aggiungendo che qualora avesse denunciato il “pentito” per calunnia “si sarebbe innescata una guerra”. E Ilda Boccassini, che nel 1994 fiuta l’imbroglio e lo scrive sia al procuratore capo di Caltanissetta Tinebra che al procuratore di Palermo Caselli. E quest’ ultimo, che addirittura si impegnò in una conferenza stampa con le massime autorità palermitane per difendere l’onorabilità di La Barbera e la sacralità del “pentito”, accusando i suoi detrattori di complicità con la mafia. Se ci sono tanti, noi per primi, “complici della mafia”, chi sono invece i complici, diretti e indiretti, del più grande depistaggio di Stato, seguito alla strage di Stato? Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. Tiziana Maiolo IL RIFORMISTA