… e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli a Giovanni Falcone

19 gennaio 1988 Il CSM boccia GIOVANNI FALCONE a capo dell’Ufficio Istruzione

riunione che si concluse con il voto che nominò il nuovo capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, il successore del giudice Antonio Caponnetto. Fu scelto il giudice Antonino Meli, fu bocciato il giudice Giovanni Falcone. 


L’ultimo discorso di Borsellino: “Falcone faceva paura”

Il ricordo di Falcone attraverso l’ultimo discorso di Paolo Borsellino del il 25 giugno 1992, un mese prima della strage di via D’Amelio nella quale verrà ucciso, nel quale il magistrato non solo ricorda l’amico Falcone ma anche quanto il lavoro avviato dal magistrato facesse tremare molti. 

Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.
Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte.
Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo.
Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.

Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.
Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo.  
Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo.
Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.

Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura“.


19 gennaio 1988  Consiglio Superiore della Magistratura  VERBALE di nomina a consigliere istruttore di Palermo di Antonino Meli (e non di Giovanni Falcone)

 

Resoconto integrale della seduta del Csm del 19 gennaio 1988, con gli interventi stenodattilografati. 

Plenum del 19 gennaio 1988 – Trascrizione della seduta.
Oggetto: nomina del consigliere istruttore 
di Palermo.
Antonino Meli 15 voti, Giovanni Falcone 10 voti. Astenuti: 3.

 

Cesare Mirabelli (vicepresidente del Csm):
Il consiglio passa all’esame della seguente proposta della Commissione per il conferimento degli uffici direttivi concernente il conferimento direttivo di consigliere istruttore presso il tribunale di Palermo.

La Commissione per il conferimento degli uffici direttivi, esaminate le domande per il posto di epigrafe, rileva in primis che i dottori Elio Spalitta e Pietro Giammanco sono stati, nelle more della procedura, trasferiti su istanza e con delibera 13 dicembre 1987 alla procura della repubblica di Palermo con funzione, entrambi, di procuratore aggiunto.
Ritiene, quindi, che all’esito della relazione – che qui tutta si richiama – e della valutazione comparativa degli aspiranti (dottori Antonino Meli, Giovanni Nasca, Rosario Gino, Marco Antonio Motisi, Giovanni Pilato e Giovanni Falcone), nella contemperata applicazione dei criteri contemplati dalla legge, prima ancora che dalla circolare, – dell’anzianità, delle attitudini e dei meriti «opportunamente integrati tra loro» – sia ineludibile la prioritaria considerazione in favore del dott. Antonino Meli, il quale adeguatamente coniuga alla maggiore anzianità di ruolo, un quadro professionale più che apprezzabile sui profili attitudinali e di merito e, conclusivamente, del tutto tranquillamente circa la sua piena idoneità alla reggenza di un ufficio direttivo di tanta delicatezza e importanza.
La titolarità di quest’ultimo postula, certo, l’assolvimento di compiti direttivi e organizzativi che si caricano (alla luce delle emergenze specifiche della repressione dei delitti perpetrati dalla criminalità organizzata mafiosa) di valenze e impegni particolarissimi; la ricerca, che ne consegue, di un adeguato tasso attitudinale non può, a questo punto, prescindere dal possesso da parte dell’aspirante di un’apprezzabile concreta conoscenza di quella peculiare problematica; ciò, d’altra parte, in piena coerenza con i già richiamati criteri di legge e di circolare, giacché anche la normativa consiliare sottace il recepimento del principio della concorsualità concreta (connotato essenzialmente dal rilievo che in esso assume rilevanza «la idoneità professionale a un posto determinato, non solo per il tipo di funzione che questo esprime, ma anche per le peculiarità ambientali che possono caratterizzarlo»).
Tuttavia, la giusta rilevanza del dato attitudinale e la sua lettura secondo i criteri ampi che precedono, non può trasmodare in una sopravvalutazione «a schiacciamento» di questo requisito sugli altri (anzianità e merito), che debbono ex lege concorrere nella valutazione complessiva e armonicamente coordinarsi nella individuazione del cosiddetto «uomo giusto al posto giusto».
L’uomo giusto» non è, pertanto, quegli che si prospetta in ipotesi, preliminarmente il più idoneo alla copertura di un determinato posto, volta per volta oggetto di concorso, nel quale le qualità professionali vengano commisurate anche alle specificità ambientali, ma, innanzitutto quello scelto con criteri «giusti», e cioè legittimi. Non è chi non veda come solo per tali profili l’organo di governo autonomo possa dar luogo, in un settore così delicato ed essenziale delle sue attribuzioni tipiche, a corretto esercizio dei suoi poteri discrezionali tale da rafforzarne la credibilità all’interno come all’esterno della istituzione giudiziaria; come, d’altra parte, poco valga invocare la peculiarissima necessità di tutela degli spazi di legalità in aree geografiche e sociali di particolare compromissione, giacché la legalità va salvaguardata, innanzitutto e come essenziale momento propedeutico, assicurando la coerenza dell’operato dell’organo amministrativo ai criteri di legge nei momento della scelta, coerenza della quale il consiglio non può spogliarsi, cedendo a moti emozionali ovvero alla opinione del cosiddetto «uomo della strada» (fattore questo, ove esista, rispettabile quanto estraneo allo Stato, alla legge e alla circolare).
Su tali premesse, e ritornando sui binari della valutazione comparativa, va ribadito che il dott. Meli per il suo curriculum professionale si prospetta più che adeguato ai delicati compiti già accennati, secondo le oggettive emergenze del suo fascicolo, rappresentate dai vari pareri redatti in occasione delle fasi di progressione in carriera. Questi, che ebbe a esercitare nel sia pur lontano periodo marzo 1950/aprile 1951 anche funzioni di sostituto procuratore presso la procura di Varese, – tra l’altro molto encomiabilmente, secondo gli attestati – ha poi svolto funzioni di pretore e giudice a Varese, pretore a Trapani e a Palermo, giudice del tribunale di Palermo (dal 27 maggio 1964 al 12 luglio 1970), presidente di sezione del tribunale di Caltanissetta dal 13 luglio 1970 e, infine e in atto, presidente di sezione della Corte di appello di Caltanissetta dal 20 maggio 1985.
Focalizzandosi, in particolare, l’attenzione sull’ultimo ventennio, emerge che il presidente del tribunale di Palermo, in relazione alle funzioni assolte dal Meli in quell’ufficio come «addetto alle sezioni penali», attesta aver lo stesso svolto «considerevole attività con particolare impegno, notevole capacità e non comune senso di responsabilità e vivo attaccamento al dovere», provvedendo alla stesura di «numerose sentenze, anche in processi gravi e complessi».
Tali sue capacità di magistrato versato ed esperto, in particolare nella materia penale, si articolavano e arricchivano con la successiva esperienza di presidente di sezione dei tribunale di Caltanissetta, nella quale, come riferito, mostrava «grandissime capacità, affrontando con sicurezza e prestigio i processi più complessi e difficili», in particolare «dirigendo il dibattimento con grande prestigio, dignità, serenità, diligenza e zelo», e provvedendo, personalmente, alla «redazione delle sentenze dei processi più complessi».
Appare, pertanto, innegabile una lunga e preziosa esperienza, nel Meli, di organizzazione e direzione dell’istruttoria dibattimentale (nelle funzioni per molto tempo espletate di presidente della Corte di assise di primo grado – per oltre dieci anni – e poi di appello) anche in relazione a processi di grande rilievo, quale, ad esempio, quello relativo all’assassinio dei dott. Rocco Chinnici. D’altra parte il Meli, che ha presieduto anche la sezione istruttoria presso la Corte di appello di Caltanissetta dal 20 maggio 1985, ha affinato sul campo le sue attitudini dirigenziali organizzative mercé sia l’esercizio protratto di funzioni semidirettive, come già notato, sia l’assolvimento di compiti direttivi vicari già nel periodo gennaio 1975/settembre 1976, in cui ebbe ad assumere la difficile reggenza del tribunale di Caltanissetta («carente di giudici e di funzionari di cancelleria»), e, quindi e in ultimo, di presidente della Corte di appello nissena dal 22 giugno 1987.
A fronte di questo quadro professionale alimentato da una notevole indiscutibile laboriosità e di questi dati attitudinali spiccati, anche alla luce delle specifiche esigenze ambientali e tipiche dell’ufficio ad quem, e sulla premessa del possesso sicuro, da parte dei predetto, di quei requisiti di indipendenza e refrattarietà a ogni condizionamento coessenziali alla funzione giudiziaria come voluta dal Costituente, deve ritenersi che gli altri candidati sopra rassegnati siano corredati da requisiti attitudinali e di merito, che se per taluni di essi appaiono notevoli e in particolare per l’ultimo secondo l’anzianità, il dott. Giovanni Falcone, si prospettano notevolissimi, per tutti non possono reputarsi tali, con riferimento ai requisiti di legge e ai criteri ex circolare già richiamati, da giustificare nella comparazione specifica con il Meli, e anche in relazione alle esigenze concrete del posto da coprire, il superamento della maggiore anzianità, né, comunque, il convincimento di una idoneità specifica tanto maggiore rispetto a quella già lumeggiata e ritenuta in capo al Meli.
A tale conclusione, d’altronde, non può non pervenirsi anche nel confronto specifico con l’aspirante dott. Giovanni Falcone; osservandosi, per tale particolare profilo e sulla premessa del richiamo delle considerazioni più generali sopra svolte, che se innegabili e particolarissimi sono i meriti acquisiti da questo ultimo nella gestione razionale, intelligente ed efficace – animata da una visione culturale profonda del fenomeno criminale in oggetto e da un coraggio e da una abnegazione a livelli elevatissimi – dei compiti istruttori attinenti ai più gravi processi per la repressione della criminalità mafiosa (per i quali può richiamarsi in sintesi il contenuto della comunicazione agli atti del consigliere istruttore del 17 luglio 1987), tuttavia, queste notazioni non possono essere invocate per determinare uno «scavalco» di 16 anni circa.
Una siffatta scelta condurrebbe, secondo quanto già evidenziato, all’annullamento sostanziale di un requisito di legge e renderebbe arbitrario, anzi illegittimo, l’operato dell’organo. Ciò tanto più ove si sia raggiunta la tranquillante sicurezza di una incondizionata idoneità del più anziano alla dirigenza dell’ufficio in oggetto.

P.M.Q.
La commissione a maggioranza (tre voti favorevoli per il dott. Meli e due per il dott. Falcone) propone il conferimento dell’ufficio direttivo di consigliere istruttore presso il tribunale di Palermo, a sua domanda, al dott. Antonino Meli magistrato di Cassazione nominato alle funzioni direttive superiori, attualmente presidente di sezione della Corte di appello di Caltanissetta.

Umberto Marconi (relatore in commissione, eletto di Unità per la Costituzione):
L’inefficienza della giustizia, nel settore fondamentale, anzi vitale per il paese della repressione della criminalità organizzata, deve alimentarsi della forza della intera compagine giudiziaria, vista come attivazione diffusa, volontà diffusa di impegno, responsabile potere diffuso, ai vari livelli. Accentrare il tutto in figure emblematiche, pur nobilissime, è di certo fuorviante e pericoloso. Ciò è titolo per alimentare un distorto protagonismo giudiziario, incentivare una non genuina gara per incarichi giudiziari di ribalta, degradare un così ampio impegno in una cultura da personaggio, pericolosa tentazione in chi si sia accinto su ben altre premesse a tanto encomiabile servizio. Si trasmoda nel mito, si postula una infungibilità che non risponde al reale, mortifica l’ordine giudiziario nel suo complesso ed espone a gravissimi rischi soggettivi – e oggettivi – chi vi indulga. E non è tutto: perché ciò che – solo apparentemente – si acquista per un verso, si disperde assai più e per mille rivoli altrove, in termini di concreta disincentivazione dei colleghi che, umilmente e silenziosamente, ma con notevole impegno, abnegazione e coraggio, si accaniscono nel loro lavoro. Ed è pensabile che questi siano a ciò sospinti dalla ambizione per la cosiddetta carriera? O non è il caso, piuttosto, di ritenere che costoro, destinati a operare, a volte per decenni, in condizioni di paurosa carenza di strutture, con strumenti normativi inadeguati e incerti, nella ostilità oggi cristallizzata di immensi e/o più modesti centri di potere esterni, siano fondamentalmente motivati dall’orgoglio, dalla onorabilità morale e professionale, dal senso di una pubblica funzione umile quanto bella, perché più di ogni altra permeata di valori costituzionali di autonomia, indipendenza e terzietà, ideale nutrimento per le libertà fondamentali del cittadino?
Ed e a questi, e sono tanti, che noi dobbiamo rispetto, e siamo stretti, nel nostro specifico, a tributarlo in concreto, garantendo legalità ed equilibrio nelle procedure tutte di nostra spettanza, e anche in quelle di nomina per posti direttivi, perché si possa dire che senza abusi, senza sussulti, senza «scavalchi» (indecifrabili se non in termini di logiche di potere e comunque extralegali) noi assicuriamo a ciascuno il suo.
Che il giudice si occupi del suo lavoro, sicuro che la giusta aspirazione a percorrere le varie tappe della sua formazione professionale sarà esaudita dall’organo a ciò preposto senza che egli si turbi, senza che si veda costretto ad agire in prevenzione per costruire, mercé una opportuna serie di contatti con centri di potere esterni e/o interni all’ordine giudiziario, le premesse per il suo esaudimento, magari nell’ottica di una sua necessitata tutela rispetto a prevedibili concorrenti più aggressivi e competitivi. Ed è questa una logica certo corretta, perché coerente alla legge e alle aspettative dei giudici, quanto tendenzialmente inesorabile e intollerante di eccezioni.

L’eccezione, in ipotesi supportata – nella più perfetta buona fede – dalla eccezionalità, anche oggettiva, delle circostanze esteriori, vulnera il principio con la stessa efficacia maligna e dirompente dell’accordo di potere; e costringe ogni volta, secondo la mitologica immagine, a riportare il macigno sulla china nello sforzo di Sisifo di ricostruire la credibilità dell’organo, l’immagine di correttezza istituzionale infranta. Ecco perché, con sofferenza, non è possibile anteporre l’ultimo aspirante nella graduatoria di anzianità, di 16 anni professionalmente più giovane dei primo, al più anziano e meritevole Meli, né a questi né ad altri, tutti pregressi nel ruolo. La diversa impostazione, da altri espressa, non è d’altra parte nuova nelle dialettiche consiliari.

Questa aula in certo senso ancora riecheggia degli animati dibattiti, sia delle pregresse consiliature che di quella odierna relativi ai cosiddetti casi Vigna, Gagliardi, Borsellino e altri, la cui eco si è proiettata ben oltre, a testimonianza della trascendenza indiscutibile dei valori in discussione, che impongono direttamente nell’area dei fondamentali requisiti costituzionali della funzione, innanzi richiamati.

Ma non ci è possibile condividere quella filosofia, non solo e non tanto per ragioni di coerenza imposte dalla linea seguita costantemente nelle vicende richiamate, ma soprattutto perché essa rimane e a tutt’oggi ancora una volta si disvela – al di là delle migliori intenzioni dei suoi animatori – illegale nella sua essenza e perversa nei suoi effetti. Essa è tale, infatti, da condurre a calpestare le regole dello Stato di diritto, da sfiancare pericolosamente e contra lege gli spazi di discrezionalità pure insiti nel potere di amministrazione confidato a quest’organo in un momento fondamentale delle sue attribuzioni tipiche, deraglia, in definitiva, il consiglio dai binari voluti dal Costituente.

Una crisi così profonda quale quella che mostra travagliare, secondo profili vieppiù marcati e crudi, la giustizia, non si risolve con i fuochi di artificio di segnali emblematici. Lo sforzo troppo spesso individualistico quanto nobile gravante su larghe fasce della magistratura italiana – per esempio sui giudici calabresi oppressi da una criminalità dilagante, cresciuta paurosamente in termini percentuali e qualitativi, secondo quanto si evince dalla impressiva relazione dell’avvocato generale Belmonte, ma al contempo su tanti, tanti altri, tra i quali, in primissima linea, il collega Falcone – esige, al di là della stessa abnegazione dei magistrati, ben altro.[…]

Ed ecco lo strano, ma non casuale parallelismo, di una siffatta, ampia alternativa con il più modesto, ma analogo bivio, che oggi vede questo Consiglio superiore della magistratura travagliato nella vicenda qui in discussione, che, pure, attiene alla efficienza di un piccolo, ma essenziale segmento della complessiva struttura giudiziaria: segno incisivo, permanente, nella coerenza del rispetto della legge, o segnale, reclamistico, a effetto; buono per l’uomo della strada e per la cultura perversa del protagonismo giudiziario.

Ai cari colleghi, sciogliere il nodo di questa alternativa. Appello non retorico, al quale, sono certo, e concludo, saprete, con la vostra odierna espressione di voto, sofferta quanto bella perché consapevole, libera, pubblica, dare una risposta coerente a quelle complessive, fervide attese dei colleghi, degli operatori giudiziari, dei cittadini più avvertiti e consapevoli; una risposta che non dia un effimero segnale, ma sia segno profondo, irreversibile, del nuovo corso di politica della giustizia.

Antonino Abbate (membro togato, eletto di Unicost)
La nomina del dirigente dell’ufficio istruzione dei tribunale di Palermo avviene in un momento delicato ma non nuovo della vita politica, istituzionale, giudiziaria della intera regione siciliana e deve indurre tutti noi a valutare coraggiosamente la realtà, a operare una scelta chiara, professionalmente attendibile sulla quale non siano consentite strumentali «ricognizioni», «dietrologie» di moda, presentate magari come verità inconfutabili ai cittadini che di verità, e di verità soltanto, hanno oggi concretamente bisogno.
In un simile contesto i giudici hanno una strada obbligata, quella di esercitare correttamente la propria attività nell’ambito di un ruolo disegnato in maniera netta dalla Costituzione, rifiutando l’assunzione di ulteriori supplenze e riaffermando il primato delle procedure, privilegiando quei contenuti di professionalità, di competenza, di indipendenza, di equilibrio e di terzietà che non tollerano protagonismi, approssimazioni e scorciatoie finalizzate al raggiungimento del risultato.
Questi criteri – non certamente emergenze contingenti, né impressive notazioni localistiche – impongono che il Consiglio adotti nel caso concreto una scelta ben chiara, responsabile, idonea a garantire una continuità di azione, che non suoni in ogni caso strappo alle norme che sovraintendono al conferimento di particolari incarichi direttivi.

Proprio in tale ottica ho espresso in commissione il mio voto in favore del collega Giovanni Falcone e voglio qui ribadire la validità della mia opzione, che si preoccupa della esigenza di assicurare a un ufficio di grande importanza la direzione di un magistrato che, per la sua preparazione, le sue specifiche esperienze, le sue doti di inquirente, la sua conclamata professionalità, le capacità organizzative evidenziate sul campo, appare oggettivamente meritevole di ogni considerazione, anche per il coraggio dimostrato in frangenti difficilissimi che non vanno assolutamente dimenticati.

Senza toni da crociata e senza nulla togliere alla professionalità e ai meriti degli altri aspiranti, ritengo personalmente che designando Giovanni Falcone il Consiglio superiore della magistratura compie oggi una scelta legittima e comprensibile.

Sergio Letizia (membro togato, eletto per il Sindacato magistrati)
La legge individua due criteri fondamentali per la scelta dei dirigenti degli uffici giudiziari: l’anzianità e il merito. Esprimere un voto a favore del dott. Falcone significherebbe contravvenire alla legge in ordine a uno di quei due criteri; nonostante infatti gli indiscussi meriti del dott. Falcone, ben sei altri candidati, tutti meritevoli, possono vantare una anzianità maggiore, in particolare il dott. Meli, primo nella graduatoria di anzianità, e entrato in servizio addirittura sedici anni prima del dott. Falcone.

Ribadendo che non intendo affatto disconoscere l’impegno e la professionalità di Falcone, non credo comunque ai geni o ai superuomini, e che, al posto di Falcone, io, come del resto ho fatto in diverse occasioni, non avrei nemmeno presentato la domanda in presenza di candidati molto più anziani.

Non si deve del resto dimenticare che tanti altri magistrati in tutta Italia, con la stessa anzianità di Falcone, possono vantare gli stessi meriti nella lotta contro la mafia, una lotta che non si conduce soltanto a Palermo ma che si realizza, ad esempio, in tutti i luoghi in cui si promuovono processi penali contro il traffico degli stupefacenti. Né si deve dimenticare che della professionalità fa parte anche la modestia. E miglior segnale che il Consiglio può dare per la lotta contro la mafia non è assegnare l’ufficio in esame al dott. Falcone, il quale può continuare il suo meritevole impegno di giudice del tribunale di Palermo, ma mostrare che in Italia non è soltanto Falcone a essere capace di lottare contro il fenomeno mafioso.

Stefano Racheli (membro togato, eletto per Magistratura indipendente)
Signor presidente, io affermo qui che non possiamo sottrarci all’obbligo di leggere la legge e le nostre circolari in modo che finalmente emerga quella professionalità specifica che sola è in grado di non avvilire l’istituzione giudiziaria precipitandola in una pseudo professionalità fatta, alla resa dei conti, di sola anzianità.

Deve essere assolutamente chiaro che non intendo assolutamente mandare messaggi spendibili nel senso che qui si voglia celebrare la scomparsa dell’anzianità quale parametro di valutazione. Meno che mai intendo premiare i rischi che alcuno tra i candidati deve subire per effetto del Suo ufficio. Voglio solo mettere a capo dell’ufficio istruzione di Palermo la persona che meglio di tutti può condurre questo ufficio. Questo è il nostro dovere in questo momento.

Mi limiterò a due dati telegrafici: il magistrato proposto dalla commissione è alle soglie della pensione e non ha mai (dico mai) fatto il giudice istruttore. Signor presidente, l’anzianità senza demerito è criterio che non può bastare per l’ufficio istruzione di Palermo. Ognuno deve prendere una responsabilità che è personale e forte – al di là di gruppi e schieramenti – perché troppa storia dei nostro paese è legata a decisioni come questa. Preannunzio perciò voto contrario alla proposta della commissione.

Fernanda Contri (membro laico, eletto per il Psi) 
Non risponderò ad alcuna delle provocazioni troppo facilmente proposte in questa sede. Ciò che è importante è riaffermare con forza la responsabilità della scelta cui è chiamato il Consiglio, che non è un computer nel quale basta inserire dati obiettivi per ottenerne soluzioni automatiche, ma che deve mettere in opera un iter logico, motivato e sofferto.

Il mio netto orientamento è a favore dei dott. Falcone, la cui specializzazione nella lotta contro la mafia è unica, non soltanto in Italia, e tale da far superare ogni perplessità. Se in passato è stato sufficiente prendere in considerazione la specifica professionalità di un candidato per consentirgli di superare una barriera di due o di quattro anni di minore anzianità, ebbene io non ho alcun dubbio nell’affermare che la professionalità del dott. Falcone è talmente eccezionale da consentirgli di superare un divario di anzianità anche maggiore rispetto a quello attuale.

Oltre alla professionalità, un altro fattore che mi induce a dare il mio voto a Giovanni Falcone è la garanzia di continuità nella direzione dell’ufficio che la scelta dei medesimo assicurerebbe: continuità di un lavoro e di un impegno che sono stati seri, corretti ed efficaci. Egli ha dimostrato il massimo di professionalità, di coraggio, di impegno, di vitalità; e di fronte alla dimostrazione di tali doti è auspicabile che almeno una delle amministrazioni dello Stato, quella giudiziaria, dia un concreto segno di voler cominciare a funzionare in Sicilia.

Massimo Brutti (membro laico, eletto per il Pci)
È doveroso ricordare che negli ultimi 10 anni due consiglieri istruttori del tribunale di Palermo sono stati uccisi, il dott. Terranova nel 1979 e il dott. Chinnici nel 1983, e che questa strategia intimidatoria messa in atto dalla mafia non è stata certamente ancora sconfitta. La mafia, che ha a Palermo il suo quartiere generale, continua a mostrare la propria pretesa di impunità e dunque ha bisogno di una giurisdizione timida, lenta e inefficiente.

Il Consiglio deve rispondere a questa sfida usando giudiziosamente la propria discrezionalità con la scelta di un uomo giusto al posto giusto che più volte in passato ha mostrato di saper adeguatamente valutare le particolari condizioni di isolamento in cui sono costretti a operare i magistrati di Palermo. La scelta compiuta nel 1983 a favore dei dott. Caponnetto è stata una decisione meditata.

Ciò premesso, ricordo come la nuova circolare in materia di conferimento di incarichi direttivi, preveda la possibilità di superare un divario di anzianità, anche considerevole, in virtù di una specifica e motivata valutazione che evidenzi il possesso da parte del candidato meno anziano di specifiche doti attitudinali o di merito di spiccato rilievo, anche con riferimento alle esigenze organizzative ed eventualmente a particolari profili ambientali.

Tenuto conto di tale referente normativo e avuto riguardo al particolare contesto ambientale palermitano, ritengo doveroso, oltreché opportuno, sottolineare il carattere eccezionale dell’impegno specifico del dott. Falcone, per cui preannuncio il mio dissenso dalla proposta della commissione a favore del dott. Meli. Questa proposta non tiene conto delle doti, dei meriti particolari e dell’esperienza prolungata nel tempo del dott. Falcone e, al contempo, attribuisce un’importanza esorbitante al requisito dell’anzianità.

Ma anche a voler dedicare una particolare attenzione ai meriti trascorsi dei dott. Meli, emerge come la sua esperienza sia maturata nel settore della magistratura giudicante e come non abbia mai svolto nella sua lunga carriera le funzioni di giudice istruttore. Certo, il dott. Meli ha esercitato funzioni requirenti, ma in tempi molto lontani (intorno al 1949) e per un breve periodo (circa 9 mesi). Né si può tralasciare, se si vuole pervenire a una visione esaustiva, di soffermarsi su alcuni comportamenti tenuti dal dott. Meli nel corso degli ultimi anni e alla luce dei quali l’elemento in apparenza a suo favore, quello dell’anzianità, potrebbe addirittura rivelarsi controproducente.

Infatti il dott. Meli si è caratterizzato negli ultimi anni per una reiterata impulsività che non costituisce certo un dato caratteriale ideale per l’assunzione dell’ufficio direttivo di consigliere istruttore. Cito una discutibile intervista rilasciata dal dott. Meli nel 1984 all’indomani della pubblicazione di un’intervista della vedova del dott. Terranova.

Indipendentemente dalla valutazione di certe formulazioni espressive di dubbio gusto adoperate in quella occasione, il dott. Meli si comportò in maniera poco consona all’autocontrollo richiesto a un magistrato nella sua posizione. Ma non si trattò di un episodio isolato; infatti questa instabilità caratteriale ha avuto modo di manifestarsi in modo ancora più vistoso nel corso della nota vicenda in cui il dott. Meli si è contrapposto al dott. Patanè.

In tale occasione, il Consiglio ebbe modo di venire a conoscenza di affermazioni del dott. Meli troppo leggere e non meditate, che confermano il convincimento della inadeguatezza del dott. Meli ad aspirare a un incarico tanto importante. Voglio infine ricordare l’atteggiamento oscillante del dott. Meli nelle more del conferimento dell’ufficio direttivo di presidente del tribunale di Palermo. Non solo il dott. Meli ha revocato la domanda inizialmente presentata, ma è addirittura arrivato a revocare la revoca della domanda, alimentando il sospetto di una caratteriale instabilità di cui il Consiglio deve in questo momento tener conto. In conclusione, sulla base di questi elementi, preannuncio il mio voto contrario alla proposta della commissione.

Franco Tatozzi (membro togato, eletto per Unità per la Costituzione)
Una scelta a favore del dott. Falcone potrebbe essere interpretata come una sorta di dichiarazione di stato di emergenza degli uffici giudiziari di Palermo decretata da un organo che, senza essere politicamente responsabile, si arrogherebbe il diritto di sospendere l’applicazione delle regole legali.

Esprimo le mie perplessità sul fatto che l’assegnazione del posto di consigliere istruttore al dott. Falcone – al quale peraltro mi legano non solo sentimenti di stima e amicizia ma anche l’appartenenza allo stesso gruppo – costituirebbe un effettivo rafforzamento della risposta giudiziaria all’attacco portato dalla mafia. Come consigliere istruttore, infatti, Falcone sarebbe obbligato a far fronte a esigenze di organizzazione generale di un ufficio senz’altro oneroso, mentre, proprio al fine di non depotenziare la sua capacità di incidenza nella lotta alla mafia, appare preferibile che il dott. Falcone possa continuare a occuparsi di tale fenomeno in una posizione di prima linea. Annuncio quindi il voto favorevole alla proposta della commissione.

Giuseppe Borrè (membro togato, eletto per Magistratura democratica)
Dichiaro che il mio voto sarà favorevole alla proposta della commissione. Non sono molti gli anni che ci separano da quando ancora si diceva che la mafia non esiste, o da quando, pur ammettendosi il fenomeno, si tendeva a ridurlo a un semplice fatto di sottocultura.

Giovanni Falcone, inserendosi con intelligenza nel solco aperto da una nuova intellettualità democratica, ha capito che le cose non stanno così e che ampi e doverosi spazi si aprono a un magistero penale razionalmente esercitato. Ciò egli ha compreso e si è comportato, nei fatti, con lucida coerenza.

I meriti di tale candidato sono dunque alti: tanto da suscitare perplessità e incomprensione in larga parte dell’opinione pubblica verso una scelta che non sia a lui favorevole. Mi è facile contrastare tale diffuso stato d’animo nella parte in cui pretende fondarsi su un concetto da premialità, peraltro sicuramente estraneo alla domanda proposta dal collega Falcone. Molto egli ha fatto, – si sente dire in giro, e non solo dall’uomo della strada, – molto ha realizzato, molto ha rischiato di persona, e dunque molto egli merita. In realtà non può esservi premio per l’adempimento del dovere, neppure quando si tratti di inedito e straordinario adempimento. L’adempimento del dovere sarebbe non onorato, ma inquinato dal premio.

Giancarlo Caselli (membro togato, eletto per Magistratura democratica)
La soluzione del caso in esame, quando sia riferita alla specificità del caso concreto, ha un percorso obbligato: deve puntare su un uomo del pool antimafia, deve puntare sulla struttura che a questo pool fa capo. Il pool di magistrati dell’ufficio istruzione di Palermo ha saputo attrezzarsi (prima di tutto culturalmente) realizzando così una struttura nuova affiatata, che ha diffuso professionalità.

Non bisogna infatti dimenticare che si è trattato di una struttura aperta, nel senso che ha formato professionalmente magistrati che, prima di entrare a far parte del pool, di questi problemi non si erano mai occupati e che viceversa, grazie al pool, hanno conseguito livelli di capacità decisamente di grande rilievo.

Alla fine, operando in questo modo, il pool di giudici istruttori del tribunale di Palermo ha ottenuto risultati di grande rilievo, basati sulla individuazione dei caratteri della nuova mafia. I primi risultati, dopo anni, decenni e decenni di sostanziale impunità. In alcuni interventi si è parlato di premio, in particolare di premio al protagonismo, come di un criterio da non seguire, e la storia del protagonismo e un po’ come la storia di quando le donne portavano il velo.

A quel tempo le donne erano tutte belle, ma quando il velo cadde si cominciarono a constatare delle differenze. Un po’ la stessa cosa è successa per la magistratura. Quando i giudici non davano «fastidio», quando non erano scomodi, erano tutti bravi e belli. Ma quando hanno cominciato ad assumere un ruolo preciso, a dare segni di vitalità, a pretendere di esercitare il controllo di legalità anche verso obiettivi prima impensati, ecco che è cominciata l’accusa di protagonismo. Mentre quei giudici che si tirano indietro (ed è successo sia a Torino in occasione del processo d’Assise ai capi storici delle Brigate rosse, sia a Palermo, in occasione dei processo d’Assise alla mafia da poco concluso) non rischiano proprio nulla e nessuno si leva a protestare o levar critiche nei loro confronti.

In altri interventi si è parlato di premio nel senso di carriera che correrebbe lungo corsie «privilegiate» per quei giudici che abbiano fatto determinate esperienze professionali. Ma è inconcepibile, perfino un po’ scandaloso,. che si parli di privilegio con riferimento ai giudici di Palermo che vivono nelle condizioni a tutti note; che semmai rappresentano una pesante penalizzazione. Nel caso della lotta alla mafia, questi interessi sono gli interessi della democrazia, ciò che rende questa seconda visione (non settoriale) del tutto giustificata. Per questi motivi esprimo avviso contrario alla proposta della commissione.

Vito D’Ambrosio (membro togato, eletto per Unità per la Costituzione)
Sarebbe certamente una sciocchezza considerare Falcone un Superman capace da solo di battere la mafia, ma è altrettanto sicuro che Falcone non ha soltanto la capacità di lavorare al meglio, ma anche di organizzare e di far lavorare al meglio l’ufficio istruzione; egli non è soltanto un bravo giudice istruttore, ma è anche un bravo organizzatore del pool che gode di prestigio a livello nazionale e internazionale.

E il dott. Falcone ha però anche un altro merito: operando in una situazione estremamente difficile non è diventato un nuovo prefetto Mori; ha dimostrato di saper rispettare le regole del processo penale e di avere le capacità di aggregare un gruppo di giudici che non sono certo le sue marionette, ma sono riuniti intorno a uno o due punti di riferimento; Falcone non può quindi considerarsi eccezionale, ma certamente e propriamente può definirsi un punto di riferimento unico, perché unica è la situazione operativa in cui agisce e perché unico è il patrimonio conoscitivo, operativo e tecnico che è riuscito ad accumulare in un contesto come quello palermitano.

Sebastiano Suraci (membro togato, eletto per Unità per la Costituzione)
Le naturali difficoltà che caratterizzano una decisione delicata quale quella che il Consiglio si accinge ad assumere sono accresciute dalla circostanza che il dott. Falcone aderisce alla corrente di Unità per la Costituzione, alla quale anche io aderisco.

Ritengo corretta l’impostazione di quei colleghi che si sono impegnati per una sdrammatizzazione della vicenda e concordo con il giudizio di eccellenza formulato nei confronti del dott. Falcone, al quale devono essere riconosciute una straordinaria capacità professionale e una rara competenza come giudice istruttore in relazione a fenomeni di criminalità organizzata. Tale competenza è indubbiamente necessaria nel magistrato che andrà a ricoprire l’ufficio di consigliere dirigente all’ufficio istruzione di Palermo, e non vi e dubbio che il dott. Meli non può vantare una capacità specifica pari a quella del dott. Falcone.

Tuttavia il merito di quest’ultimo, come emerge dall’articolata motivazione della proposta, non può essere messo in discussione: tale magistrato svolge attività giudiziaria da quarant’anni con una competenza, dignità e prestigio che lo rendono meritevole del posto in discussione. Se a ciò si aggiunge l’enorme divario di anzianità tra il dott. Meli e gli altri candidati e il fatto che da anni egli esercita funzioni equiparate a quelle di legittimità, la scelta non può che essere a suo favore.

Elena Paciotti (membro togato, eletto per Magistratura democratica)
Mi preoccupa che da qualche parte si voglia presentare la scelta che dobbiamo compiere come leggibile in termini di maggiore o minore impegno antimafia del consiglio e della magistratura. Mi preoccupa che questo suggestivo messaggio venga raccolto da chi onestamente si batte per un corretto intervento di tutte le istituzioni pubbliche contro il potere mafioso.

È con tranquilla coscienza che indico il mio voto per il dott. Meli, nella speranza che – quale che sia la scelta del Consiglio – l’eccellente lavoro dell’ufficio istruzione di Palermo possa proseguire con la collaborazione di tutti pur nella gravissima situazione che i tragici avvenimenti di questi giorni hanno ancora una volta sottolineato.

Carlo Smuraglia (membro laico, eletto per il Pci)
Nessuno dovrebbe preoccuparsi del ricorso alla formula dell’«uomo giusto al posto giusto» che, anche se corrisponde a una frase fatta, è espressione di una logica di scelta fondata e corretta.

Quando si afferma che il dott. Meli possiede certamente doti incontestabili, ma doti non sufficientemente tranquillizzanti per un posto di tanta responsabilità, non si compie nessun attentato contro il dott. Meli, ma si compie il dovere proprio del Consiglio di interrogarsi sulle specifiche attitudini di ogni candidato.

Mi preoccupa invece il fatto che si voglia assegnare al dott. Meli la direzione di un ufficio che nella sostanza esplica funzioni di natura inquirente e istruttoria, che egli non ha mai svolto, affidandosi quindi a una sorta di sperimentazione, mentre tutti dovrebbero essere consapevoli che non c’è assolutamente tempo da perdere.

Si debbono scegliere uomini che abbiano anche una particolare conoscenza del fenomeno mafioso, perché istruire un processo in materia di mafia non è la stessa cosa che istruire un processo per furto. Al riguardo è da ricordare che una parte della magistratura ha aiutato tutti a compiere passi in avanti nella conoscenza della mafia anche dal punto di vista culturale. Se il maxiprocesso di Palermo si è potuto celebrare, lo si deve anche a chi ha saputo condurre l’istruttoria nel rispetto delle regole e adottando tecniche di indagine estremamente sofisticate: ciò è stato fatto dall’ufficio istruzione di Palermo e in particolare dal dott. Falcone.

L’opinione pubblica non chiede di assegnare un premio, perché non di questo si tratta, ma di compiere scelte sicure e trasparenti, che tranquillizzino anche la collettività. Nominare il dott. Falcone consigliere istruttore significherebbe attribuire un altro onere a un magistrato già costretto dal suo impegno a grandi sacrifici e a rinunciare alla propria vita privata. Non si tratta dunque di assegnare né premi, né medaglie, né hanno ragione di dolersi coloro che hanno preferito affrontare le tranquille strade delle cause di sfratto.

Vincenzo Geraci (membro togato, eletto per Magistratura indipendente)
È proprio dal ricordo, per me ancora bruciante, della copertura dell’ufficio marsalese, che voglio prendere le mosse per ripassare la tetragona, compatta e irriducibile opposizione espressa proprio in quest’aula soprattutto dal maggioritario gruppo togato del Consiglio il quale, pur col buon gusto di non contestare le indiscusse doti di professionalità, abnegazione e coraggio del collega Borsellino, aspirante al posto, ritenne in quell’occasione che le stesse non potessero fare aggio sul dato della maggiore anzianità dell’altro concorrente.

Ricordo, in particolare, le parole pronunciate dal collega D’Ambrosio e puntualmente riportate nel Notiziario straordinario n. 17 del 10 settembre 1986 di questo Consiglio che si volle appositamente pubblicare, su iniziativa del collega Abbate, per informare i colleghi magistrati della scelta compiuta dal consiglio.

Ebbene, nell’occasione, D’Ambrosio dichiarò che il Consiglio non poteva lasciarsi influenzare dalla notorietà dei magistrati interessati, perché ciò avrebbe significato incentivare il protagonismo dei giudici che, tra i suoi effetti deleteri, avrebbe avuto anche quello del ritorno a un deprecabile carrierismo già alimentato dalle infelici sentenze della Corte costituzionale e del Consiglio di Stato.

Pur con il disagio di dover ripercorrere momenti autobiografici rimasti indelebilmente impressi nel vissuto di quella sparuta pattuglia di «samurai» che si buttò generosamente a corpo morto, con immani sacrifici e rischi personali, nel contrasto giudiziario alla barbarie mafiosa in un momento in cui le strade di Palermo erano letteralmente lastricate di morti e i vertici istituzionali dell’isola venivano impietosamente decapitati uno dopo l’altro, sento di dover adempiere a un obbligo morale di testimonianza personale nel rappresentare che Giovanni Falcone è stato il migliore di tutti noi, e che io ascrivo a mio esaltante e irripetibile privilegio quello di aver lavorato assieme a lui che ha scritto pagine di riscatto civile nel libro della storia, non solo giudiziaria, del nostro paese.

Ricordo, in particolare, l’emozione che ci prese quando, per primi, verbalizzammo le rivelazioni di un boss di primaria grandezza come Tommaso Buscetta che finalmente squarciava la cortina d’omertà che aveva fin lì protetto la mafia, sottoscrivendosi egli stesso mafioso e consentendoci approdi processuali impensabili solo due anni prima, allorquando era stato presentato il famoso rapporto dei «162», e fin lì lambiti soltanto dalle più intelligenti e audaci intuizioni politiche e sociologiche. Così come ricordo la commozione purtroppo tante volte provata nel ritrovarci davanti ai cadaveri sfigurati di tanti amici e collaboratori, fedeli servitori dello Stato, solo più sfortunati di noi nello sfuggire alla barbara vendetta mafiosa.

Consentirete che io esprima il mio personale, indicibile tormento per l’intera vicenda e per l’inestricabile dilemma in cui rimango avviluppato. Se da un lato, infatti, le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali che coltivo con lui mi indurrebbero a preferirlo nella scelta, a ciò mi è però di ostacolo la personalità di Meli, cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere, poi sempre manifestato, costò in tempi drammatici la deportazione nei campi di concentramento nazisti della Polonia e della Germania, dove egli rimase prigioniero per due anni dal settembre 1943 al settembre 1945, sopravvivendo a stento.

Credo, anzi, che nonostante il ravvedimento dell’ultima ora, proprio il riconoscimento di questa altissima tempra morale e dignità d’uomo, in uno alle incontestate doti professionali, abbia mosso il collega Brutti nel formulare, nella seduta antimeridiana dei 15 luglio 1987, l’auspicio che lo stesso collega Meli potesse quanto prima conseguire quell’ufficio direttivo – di cui oggi finalmente gli si presenta l’occasione – ove continuare a profondere il suo indiscusso impegno professionale. In tali condizioni, pertanto, vi chiedo di comprendere con quanta sofferenza e umiltà mi sento portato a esprimere il mio voto di favore verso la proposta della commissione.

Deliberazioni finali

Il Consiglio passa alla votazione per appello nominale della proposta della commissione relativa al conferimento dell’ufficio direttivo di consigliere istruttore, presso il tribunale di Palermo, a sua domanda, al dott. Antonino Meli magistrato di Cassazione nominato alle funzioni direttive superiori, attualmente presidente di sezione della Corte di appello di Caltanissetta.

Votano a favore di Meli i consiglieri: Agnoli, Borrè, Buonajuto, Cariti, Di Persia, Geraci, Lapenta, Letizia, Maddalena, Marconi, Morozzo Della Rocca, Paciotti, Suraci e Tatozzi.

Votano contro (e per Falcone) i consiglieri:Abbate, Brutti, Calogero, Caselli, Contri, D’Ambrosio, Gomez d’Ayala, Racheli, Smuraglia e Ziccone.

Si astengono i consiglieri: Lombardi, Mirabelli, Papa, Pennacchini e Sgroi.

 

i GIORNI di GIUDA di Paolo Borsellino

 

 

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