NATOLI e le intercettazioni che aveva ordinato di distruggere ma che non sono state 😭
Qualcuno chiederà scusa a Gioacchino Natoli?
Si resta senza parole di fronte all’interrogatorio reso dal giudice antimafia Gioacchino Natoli, da qualche anno in pensione, di fronte alla commissione parlamentare antimafia, presieduta da Chiara Colosimo, di Fratelli d’Italia.
Interrogatorio da lui richiesto, e finalmente ottenuto, dopo che Natoli era stato investito da una valanga di illazioni, insinuazioni e sospetti da parte dell’avvocato Fabio Trizzino, che difende una parte della famiglia Borsellino. E ne scrivemmo qui, qualche tempo fa.
Quello che pensiamo su questa singolare commissione che si pretende indaghi solo sulla strage di Via D’Amelio, ignorando l’intera stagione stragista in cui si collocò, i nostri lettori lo sanno da tempo.
Ma la nostra critica si limitava alla scelta di un metodo, che potremmo definire monoculare, finalizzato a rafforzare ipotesi investigative che oggi, a quasi 32 anni da ciò che accadde, non hanno trovato conferme processuali.
Oggi, però, restiamo allibiti, come dicevamo all’inizio, di fronte alla replica documentata e puntuale di Natoli, il quale – carte alla mano (come potete leggere nell’articolo di Aaron Pettinari e Luca Grossi) – ha già dimostrato da solo che non ci fu da parte della Procura di Palermo di allora alcun insabbiamento, alcun occultamento, meno che mai la distruzione di bobine di intercettazioni che avevano a che vedere con la cosiddetta pista di mafia e appalti. Come invece sostenuto, con enfasi oratoria e giudizi non certo lusinghieri nei confronti di Natoli, da parte dell’avvocato Trizzino.
Sarebbe bello, e sportivamente elegante, se Trizzino, rivolgesse le proprie scuse all’ex magistrato. O no?
Si parla tanto della responsabilità dei giudici. Ma gli avvocati, anche loro, ogni tanto ci sembra che sonnecchiano. E le disparità di trattamento non ci sono mai piaciute.
Vedremo, alla prossima audizione, se la Presidente Colosimo si farà carico anche di questi nostri modestissimi rilievi.
Si fa presto a gridare al depistaggio su mafia e appalti. Ascoltate Gioacchino Natoli
Da cittadini, dobbiamo fare i complimenti a Gioacchino Natoli, ex componente del pool antimafia di Palermo, oggi pensionato, che però non ha perduto la memoria, né la passione per le tragiche e lontane vicende di Palermo che lo videro in veste sia di protagonista, sia di testimone.
Si merita i complimenti dell’Italia migliore per aver diradato – e vedremo come – uno dei polveroni più tossici che nelle ultime settimane stavano ammorbando le ricostruzioni sulla strage di via D’Amelio.
E va anche detto subito che la morale della favola che vi stiamo narrando, quella cioè che sta emergendo in questi giorni sulla vicenda mafia-appalti, e della quale si sta occupando la Commissione parlamentare antimafia, è che in Italia è bene conservare i documenti quasi a futura memoria.
Guai a buttar via le carte. E persino quel furbacchione di Andreotti, con un suo archivio proverbiale, sapeva che questo è il Paese dove, dall’oggi all’indomani, può saltar fuori qualcuno con la tesi più bizzarra. E non gli sarà certo chiesto conto della stravaganza di quello che dice, essendo, invece, l’onere della prova a totale carico della persona accusata.
Sono fatti ormai risaputi, almeno per gli addetti ai lavori. In Commissione parlamentare antimafia, l’avvocato Fabio Trizzino, che difende la famiglia Borsellino, aveva indicato in Gioacchino Natoli quel magistrato che aveva deciso di smagnetizzare le intercettazioni telefoniche disposte dall’autorità giudiziaria, a suo tempo, a carico della famiglia mafiosa dei Buscemi.
Ne scaturiva un’equazione pesante come il piombo: Natoli avrebbe protetto la famiglia Buscemi, recidendo così, sin dall’inizio, possibili sviluppi di quella pista mafia-appalti che invece, secondo l’avvocato Trizzino, la famiglia Borsellino – fatta eccezione per Salvatore, il fratello di Paolo – e il generale Mario Mori, oltre un nutrito drappello di giornalisti e commentatori, fu l’autentica causale della strage di via D’Amelio. E forse, lasciatecelo dire, con qualche picco enfatico di troppo.
Quale fu la causale dell’uccisione di Paolo Borsellino, e di donne e uomini della sua scorta, un giorno lo sapremo. Forse.
Ma non è di questo che stiamo parlando.
Sin da oggi, però, sappiamo che quelle intercettazioni, che l’avvocato Trizzino indicava come tassativamente distrutte, dunque scomparse, si trovano invece al loro posto, nella Procura di Palermo. Ci stanno le bobine, e ci stanno i brogliacci che ne riassumono il contenuto.
Gioacchino Natoli, dopo essere stato chiamato in causa, non solo le ha cercate, ma le ha trovate. Il tutto anche grazie alla collaborazione del procuratore capo di Palermo, Maurizio de Lucia, al quale si era rivolto per iscritto.
Altra morale della favola.
La Commissione parlamentare antimafia forse dovrebbe darsi questa piccola regola: regolare il volume dei microfoni quando, durante gli interrogatori, a qualcuno dovesse scappare la mano.
La materia di cui trattasi è incandescente di per sé. E gridare “al lupo al lupo” non aiuta.
La rubrica di Saverio Lodato Fonte: AntimafiaDuemila, 10/12/2023
L’ex magistrato Natoli: ”L’avvocato Trizzino ha detto falsità”
L’intervento in Commissione antimafia: “Mafia appalti non è la causa esclusiva delle stragi”
“Un’oggettiva distorsione della verità” con ricostruzioni “inesatte, se non oggettivamente false in alcuni passaggi” fatte “senza rispettare la cronologia dei fatti processuali e degli avvenimenti storici”. Così l’ex magistrato Gioacchino Natoli, oggi in pensione ma in passato membro del pool antimafia, ha smontato punto su punto le accuse di “sostanziale infedeltà” a lui rivolte in commissione parlamentare antimafia dall’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino.
Nella sua audizione davanti alla commissione di Palazzo San Macuto Natoli ha portato con sé centinaia di pagine di documenti e una dettagliata relazione proprio per dimostrare come fino ad oggi, tanto il legale quanto certi organi di informazione, abbiano messo in atto una vera e propria “operazione di oggettiva destrutturazione storica” dei fatti riguardo la storia delle intercettazioni dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi, imprenditori mafiosi vicini a Totò Riina poi divenuti soci del gruppo Ferruzzi di Raul Gardini.
Su questo giornale anche il direttore Giorgio Bongiovanni aveva definito le argomentazioni dell’avvocato Trizzino non solo come “sconclusionate” ma anche “depistanti su diversi punti” in merito alla vicenda mafia-appalti ed anche sul senso stravolto dato alle parole di Agnese Borsellino su quelle che furono le dichiarazioni del marito nelle settimane prima di morire, o ancora rispetto agli attacchi contro il magistrato Nino Di Matteo e l’ex Pg di Palermo Roberto Scarpinato.
Ma torniamo all’audizione di Gioacchino Natoli in Commissione antimafia.
Natoli, all’epoca in forza presso la procura di Palermo, nel giugno 1992 chiese e ottenne l’archiviazione di un’inchiesta per riciclaggio, nata su input della Procura di Massa Carrara, che indagava sulle infiltrazioni di Cosa nostra nelle cave di marmo di Massa Carrara.
Trizzino, quando venne sentito nei mesi scorsi, aveva collegato quell’indagine su Buscemi a quelle del Ros su Mafia e appalti (tema sul quale abbiamo scritto in più occasioni).
Oltre ad indicare quelle due indagini come il movente segreto della strage di via d’Amelio, il legale accusò Natoli di aver “inspiegabilmente” disposto, assieme all’archiviazione, la smagnetizzazione delle intercettazioni dei due fratelli mafiosi e la distruzione dei brogliacci. “Una cosa anomala per un’indagine di mafia – aveva detto nella sua fuorviante ricostruzione – Il dottore Natoli avrebbe dovuto giustificare quella distruzione a Borsellino, se Borsellino fosse sopravvissuto (alla strage del 19 luglio 1992, ndr)”.
Ma a quale scopo Natoli avrebbe dovuto ordinare la distruzione dei nastri originali delle intercettazioni?
Secondo “l’assunto accusatorio dell’avvocato Trizzino“, spiega Natoli, sarebbe stata “quella di impedire, da parte mia, al dottor Borsellino di conoscerne il contenuto” provocando, oltretutto, un notevole danno alle investigazioni, cosa che di fatto non è mai avvenuta.
“Queste affermazioni denigratorie – ha detto Natoli – sono tutte clamorosamente destituite di fondamento”. Carte alla mano l’ex magistrato ha dimostrato come l’affermazione dell’avvocato Trizzino su quelle intercettazioni sia “clamorosamente falsa”.
In primo luogo perché “le bobine delle intercettazioni telefoniche eseguite su indicazione della procura di Massa Carrara non furono mai consegnate a Palermo, e perché l’ordine di smagnetizzazione atteneva esclusivamente ai decreti emessi dal gip di Palermo”.
Tra l’altro va anche aggiunto che la Procura di Palermo, recentemente, ha rinvenuto nei propri archivi proprio le intercettazioni dei fratelli Buscemi e le stesse sono state trasmesse alla Procura di Caltanissetta, che indaga proprio sulle stragi del 1992, per compiere tutti gli accertamenti necessari.
Un dato che è emerso anche su segnalazione dello stesso Natoli.
L’ex pubblico ministero, infatti, ha riferito alla commissione di aver richiesto alla Procura di Palermo, nella persona del procuratore della Repubblica Maurizio de Lucia, la consultazione del cosiddetto “modello 37”, cioè quel registro sul quale vengono annotati tutti i decreti di intercettazione e il divenire del decreto di intercettazione.
Così è emerso “che le intercettazioni non erano mai state smagnetizzate”. Natoli, a dimostrazione del lavoro che fu svolto all’epoca, ha anche consegnato alla commissione “le trascrizioni integrali delle 29 intercettazioni” ritenute più rilevanti dagli inquirenti.
Altro che intercettazioni perdute. Unico appunto, come spiegato dalla Presidente Colosimo in apertura dei lavori, è che la Procura di Palermo, in una nota, ha spiegato che “non è stato possibile reperire tre dei 4 brogliacci riferiti a quelle intercettazioni”.
Valore di prova
Un altro aspetto evidenziato dall’ex pm del pool antimafia è l’esito “assolutamente negativo” di quelle intercettazioni, “tanto che la guardia di finanza già in data 2 gennaio 1992 mi comunica che tre utenze telefoniche hanno dato il risultato zero” perché aventi “contenuto esclusivamente familiare, è comunque non inerente al servizio”.
Di conseguenza quelle intercettazioni “non hanno consentito di individuare episodi, circostanze specifiche o altri elementi di fatto tali da chiarire” i rapporti con i fratelli Buscemi (Nino e Salvatore) e la Calcestruzzi”.
A tale proposito Natoli si è soffermato su un aspetto ormai divenuto un mantra nelle ricostruzioni di Trizzino e non solo.
Il legale ha attribuito, nel corso delle sue audizioni, una certa importanza ad alcune dichiarazioni rilasciate dal collaboratore di giustizia Leonardo Messina il primo luglio del ’92 a Paolo Borsellino: “La Calcestruzzi è in mano a Riina”, avrebbe detto Messina.
Questa frase, ha puntualizzato Natoli, non avrebbe nessun elemento in suo sostegno, come anche affermato da una “sentenza del Tribunale di Palermo, sezione 6° del 2 luglio 2002, divenuta esecutiva per Buscemi Antonino il 25 novembre del 2002“.
“Si tratta pertanto di uno scenario metaprocessuale privo di alcuna rispondenza nelle risultanze dibattimentali” ha aggiunto, ribadendo che “nulla di significativo è emerso nei confronti del Buscemi rispetto a quanto valutato nella precedente sentenza del Tribunale di Palermo del Maxi Quater, 31 dicembre 1996 che lo aveva condannato ad anni otto di reclusione per partecipazione semplice a Cosa nostra”.
“Schiacciamento e anticipazione delle conoscenze”
L’ex magistrato palermitano ha spiegato che, sempre Trizzino, avrebbe messo in atto una operazione di “anticipazione delle conoscenze” poiché in base alla sua ricostruzione “tutte le preziose conoscenze sul sistema mafia appalti, avutesi esclusivamente a partire dalla fondamentale collaborazione di Siino del luglio 1997 e dopo le dichiarazioni di Giovanni Brusca del periodo ’98-’99, cioè quando Brusca comincia a diventare effettivamente attendibile, avrebbero dovuto essere conosciute e valorizzate dai pm della Procura di Palermo, Lo Forte e Scarpinato, in anticipo rispetto alla storia, cioè al momento della richiesta di archiviazione da loro depositata il 13 luglio 1992″.
Una ricostruzione che denota una “grave capsiosità” ha detto Natoli. E la prova sta nel fatto che “il famoso uomo con la S, l’uomo che conta, quello che comanda, la persona ad alto livello vicina proprio al nucleo centrale, veniva ancora identificato nel rapporto del Ros in Angelo Siino, mentre, come avremmo appreso, a seguito del processo celebratosi dopo il 1997, e in parte del cosiddetto ‘Processo del Tavolino’, in cui i pm sono stati Maurizio de Lucia e Gaspare Sturzo, si venne ad accertare che si trattava in realtà dell’ingegnere Filippo Salamone, titolare della Impresem diAgrigento, punto di raccordo diverso e ben più elevato tra imprenditori politici e mafiosi“.
Pertanto, ha continuato il magistrato, “senza tema di errore, deve affermarsi che fino a prima della collaborazione di Siino, dopo la sua seconda cattura, quindi l’ordinanza di custodia cautelare del 7 luglio del ’97, il perverso e sofisticato meccanismo criminale cosiddetto mafia-appalti era stato soltanto intuito, sfiorato, accennato o intravisto dagli inquirenti, ma non se ne conoscevano struttura, articolazioni e le molteplici sfumature descritte in dettaglio soltanto nelle sentenze degli anni 2000 e seguenti, tra cui ad esempio quella del 2 luglio 2002“.
E ancora: “Lo stesso ruolo attribuitogli da Siino di organizzatore della spartizione degli appalti è risultato incompatibile, cioè non riscontrato, con i fatti accertati in dibattimento. Quindi al Buscemi Antonino resta il solo ruolo di mediatore nella stessa vicenda del patto del tavolino in relazione alla quale ha agito in nome e per conto di Salvatore Riina. Queste dunque sono state le valutazioni corrette dei giudici nei processi celebrati dal 96 in poi, allorché hanno avuto il panorama completo delle conoscenze fornite da molteplici collaboratori di fede corleonese: Siino, Brusca, Salvatore Cucuzza, Salvatore Cancemi, Francesco Paolo Anselmo, Vincenzo Sinacori, Antonino Giuffrè, Giusto Di Natale ed altri ancora, che sono risultate ben diverse dalle suggestioni, dalle ipotesi e dai sospetti avanzati nel 1991″.
Mafia-appalti solo “concausa” delle stragi
Natoli, nella sua audizione, ha anche evidenziato un altro aspetto che viene scientemente distorto da molti. Ovvero che sia le sentenze sulle stragi del 1992 che le richieste di archiviazione di altri procedimenti convengono su un punto: che si tratta di stragi che “hanno una molteplicità di concause all’interno delle quali si iscrivono anche quelle riconducibili al rapporto mafia-appalti. Ma soltanto come concausa e non come causa esclusiva e meno che mai come causa acceleratrice di una determinazione”.
La favola del ‘fascicolo sottratto’ da Claudio Martelli
Natoli ha anche confutato un’altra parte delle ricostruzioni di Fabio Trizzino: quella relativa a delle ipotetiche ritorsioni ordinate da Raul Gardini nei confronti del pm Augusto Lama, grazie all’intercessione dell’allora guardasigilli Claudio Martelli. L’ex magistrato, per iniziare, ha elencato i principali punti sui quali verteva l’indagine di Massa Carrara: la procura “nella persona del sostituto Augusto Lama, a partire dal 1990, stava svolgendo delle indagini sui distretti marmiferi della zona da cui sarebbe emersa la commissione di reati gravissimi da parte, tra gli altri, del noto Antonino Buscemi, già imputato a Palermo” in “una tranche del maxiprocesso, sin dal 1988, in concorso con i vertici della Calcestruzzi S.p.A. di Ravenna, appartenente al gruppo Ferruzzi-Gardini”. Ricordiamo che la sentenza del Tribunale di Palermo, sezione 6° del 2 luglio 2002, divenuta esecutiva per Buscemi Antonino il 25 novembre del 2002, fece ritenere “insussistente” l’accusa “perché il fatto non era previsto dalla legge come reato” ed “escludendo qualsiasi collegamento”.
Tale procedimento, “sempre secondo le accuse dell’avvocato Trizzino, sarebbe stato sostanzialmente bloccato. Testualmente: ‘Raul Gardini con una telefonata blocca Lima’; oppure, altra frase: ‘Augusto Lama con una telefonata di Raul Gardini viene allontanato dal Ministero, viene messo sotto procedimento disciplinare’. Grazie a che cosa? All’intervento dell’allora Ministro della Giustizia Claudio Martelli”.
Sulla vicenda del “cosiddetto spossessamento del fascicolo in capo al dottore Lama”, Natoli ha definitivamente smentito quanto riportato dall’avvocato Trizzino: si continua a raccontare che “il fascicolo 967-90 fu sottratto al dottor Lama dal ministro Martelli” mentre in realtà il fascicolo “fu volontariamente restituito al procuratore Ceschi per astensione del pm” come anche dimostrato da una sentenza “disciplinare del CSM del 26 novembre del 1993”.
Lama, al tempo, aveva rilasciato “delle dichiarazioni sulle indagini che stava svolgendo ai giornalisti Romano Bavastro e Vittorio Praiez della Nazione, Cinzia Carpita, del Tirreno in data 10 febbraio del ’92″ i quali pubblicano l’articolo l’11 febbraio. Ciò suscitò clamore e “il dottor Lama ritiene opportuno astenersi immediatamente dalle indagini in corso” e “quindi siamo arrivati intorno al 12-13 febbraio del 1992″.
Inoltre Natoli ha anche ricordato un dettaglio di non poco conto: al tempo il magistrato Giovanni Falcone “sedeva come direttore generale degli affari penali” accanto al ministro Martelli: “Il dottor Giovanni Falcone non ha saputo nulla di questo ‘scippo’? Conoscendo Falcone e leggendo tutto ciò che in questi trenta e passa anni è stato scritto su di lui, è una cosa da escludere”.
Secondo Trizzino il giudice Falcone aveva un interesse ‘bruciante’ per il dossier Mafia e Appalti: ma quindi avrebbe mai potuto “prestare un assenso silenzioso a questa opera del ministro Martelli?”
“Pertanto – ha concluso Natoli – nessun intervento del ministro Martelli ebbe a bloccare le indagini che il pm Lama stava conducendo: la ricostruzione fatta dall’avvocato Trizzino è destituita documentalmente di ogni fondamento storico”.
L’archiviazione
L’allora pm Augusto Lama aveva chiesto alla procura di Palermo di “espletare opportune indagini al fine di accertare le principali utenze sia private che professionali utilizzate dai fratelli Buscemi, Antonino e Salvatore” ha detto Natoli. Quest’ultimo fece le indagini ma, ha specificato, “a Palermo l’apposito gruppo di lavoro delle misure di prevenzione si occupava di Antonino Buscemi sin dal 1990 e nel 1991 aveva chiesto delle indagini approfondite al gruppo Carabinieri Palermo Uno che poi vengono sollecitate dall’allora pm Roberto Scarpinato il 13 luglio del ’92 in contemporanea al deposito dell’archiviazione”.
Dopo l’archiviazione le indagini sono state successivamente riaperte dai magistrati Giuseppe Pignatone, Ilda Boccassini, Roberto Saieva e Luigi Patronaggio – i quali “hanno ereditato il fascicolo 1593” – grazie anche al “supporto di tutti i collaboratori di fede corleonese sopravvenuti al primo giugno ’92”.
Tuttavia anche dopo l’arricchimento alle indagini portato dai pentiti i magistrati hanno nuovamente chiesto di archiviare l’inchiesta; richiesta poi avallata da un giudice terzo.
Ma cosa era questo meccanismo delle archiviazioni?
Nulla più che sospendere le indagini “per poi essere riaperte appena ci fosse un elemento di novità“.
“Tale modo di operare era usuale – ha ricordato Natoli – in quanto era stato lo stesso giudice Giovanni Falcone ad insegnarlo agli altri magistrati: ci insegnò che ‘dovevamo imparare ad utilizzare le indagini preliminari come qualche cosa che veniva utilizzata a tempo’, cioè ‘se erano ancora buoni i risultati delle indagini al termine delle scadenze, altrimenti archiviate’”.
Smagnetizzazione come prassi
Così come aveva fatto in un’intervista a Il Fatto Quotidiano Natoli ha anche spiegato il perché le smagnetizzazioni, in quei primi anni Novanta, fossero tutt’altro che inusuali.
Al tempo, ha spiegato Natoli “c’era una interpretazione che non fu mai contestata né contrastata da alcuno. Nell’articolo 269.2 del vigente codice di procedura penale, che ancora oggi afferma che ‘la conservazione delle registrazioni va fatta fino a quando le sentenze non passino in cosa giudicata”.
Inoltre all’epoca, per dichiarati problemi economici, il governo aveva decretato che, per risparmiare, si dovevano smagnetizzare le bobine per poterle riutilizzare. Altro punto era poi “la mancanza di spazi fisici (stanze o corridoi) per la conservazione dei nastri, che erano aumentati di molto dopo la istituzione della Dda di Palermo nel novembre 1991, che aveva incorporato l’attività di ben cinque Procure del distretto”.
Le cose cambieranno alla procura palermitana solo con l’arrivo del nuovo procuratore Gian Carlo Caselli dal momento che da una relazione tecnica emerse che i nastri rigenerati “possano in sede di ulteriore utilizzazione presentare dei buchi, per cui poi un passaggio di un’intercettazione non c’è”. Buchi che avrebbero provocato gravi danni alle indagini antimafia: per ciò Caselli “sospende la riutilizzazione dei nastri smagnetizzati e comunica al Ministero della Giustizia”.
Nelle prossime settimane l’ex magistrato tornerà in Antimafia per rispondere alle domande dei commissari a chiarimento dei molteplici punti toccati.
Quel che resta evidente è, come diceva sempre il direttore Bongiovanni in un suo editoriale precedente “più si va avanti in questa storia più è evidente che ‘menti raffinatissime’ si siano messe in gioco per rendere ancor più torbida la ricerca della verità sulle stragi di Stato e sui mandanti esterni che vi sono dietro di esse. Un’azione che vede alternarsi politici, giornalisti, avvocati difensori di stragisti sanguinari ed avvocati difensori di uomini oscuri, appartenenti ad apparati deviati dello Stato (forze dell’ordine, servizi segreti, Gladio). E ciò che fa più male è che, più o meno consapevolmente, anche parenti di vittime di mafia si prestino a questo stillicidio”.