10.2.2024 – AUDIO e NEWS – La deposizione di GIOACCHINO GENCHI al “processo depistaggio”

AUDIO – La deposizione del consulente GIOACCHINO GENCHI al “processo depistaggio”


Depistaggio via D’Amelio, Genchi: “La Barbera voleva vestire il pupo, ha agito su ordine del Capo della polizia”

 

La deposizione dell’ex poliziotto al processo d’appello a 3 agenti accusati di aver istruito il falso pentito Vincenzo Scarantino. Parlando dell’ex capo della Mobile ha detto: “Con l’agenda rossa non c’entra nulla, era portatore di direttive precise e a Roma non volevano si andasse in direzioni diverse da Cosa nostra, troppo facile processare un morto”

“La strategia di Arnaldo La Barbera era di ‘vestire il pupo’ perché a Roma non volevano che si andasse in una certa direzione che non fosse Cosa nostra e questo me lo disse La Barbera”, che “era portatore di direttive precise. Non faceva nulla, se non sotto il controllo del Capo della polizia Parisi e di Luigi Rossi. La Barbera ha eseguito direttive e non ha mai agito autonomamente, oggi è fin troppo facile processare i morti”. Sono le parole dell’ex poiliziotto e oggi avvocato Gioacchino Genchi, che per ore, stamattina ha deposto a Caltanissetta nel processo d’appello legato al depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio in cui sono imputati tre poliziotti del gruppo “Falcone e Borsellino”, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, che avrebbero istruito il falso pentito Vincenzo Scarantino a dire il falso sulle stragi.

Genchi ha parlato anche dell’agenda rossa di Borsellino, che a suo avviso non poteva essere nella borsa del magistrato e che dunque non sarebbe andata a fuoco ma sarebbe stata sottratta: “Io ritengo che – ha precisato Genchi – con l’agenda rossa Arnaldo La Barbera non c’entri nulla. Lui questa cosa la attribuiva ai carabinieri”.

Genchi ha spiegato che “non si volevano individuare i veri responsabili delle stragi, su Capaci c’era il movente politico. Nel ’92 La Barbera voleva andare via da Palermo e lasciare la squadra mobile.
Ricordo che mi disse una frase particolare: ‘Prima di andarmene devo fare un giro in elicottero su Palermo e arrivato sopra la questura fare la pipì’. Me lo disse alla fine del ’91 e prima dell’omicidio Lima”.
Inoltre, secondo Genchi, l’ex dirigente della Mobile di Palermo, ormai morto, “diceva: ‘Dobbiamo confezionare il pacco, per chiudere le indagini e avere una promozione e andare via da Palermo’”.
Genchi ha anche puntualizzato che “La Barbera aveva preso una deriva e non stava lavorando per fini istituzionali che ci eravamo prefissi, all’inizio lo ritenevo in buona fede.
Ma lui sapeva già dal 1989 che i limiti della mia disponibilità si fermano nel momento in cui si tratta di entrare dentro il codice penale come soggetti attivi di reato.
Io ho giurato fedeltà alle leggi. Io non ho fatto la scelta di fare il criminale. Ho fatto una scelta diversa e come tale non accettavo di trasgredire i miei doveri istituzionali”.
Inoltre, l’ex poliziotto ha raccontato che “dal gennaio del 1993, cioè dopo l’arresto di Bruno Contrada, iniziò la marcia indietro di Arnaldo La Barbera. Iniziarono le certezze e il tentativo di chiudere (le indagini su via D’Amelio,ndr) e fare e presto, e semplificare le cose.
Io a quel punto mi resi conto di essere inutile.
La Barbera era stato istruito bene”. Genchi ha poi aggiunto che “La Barbera mi disse più volte che i servizi segreti volevano entrare nelle indagini delle stragi mafiose del 1992. Ci fu un tentativo di Contrada di entrare nelle indagini e andarono pure da Pignatone. Se La Barbera avesse saputo che Contrada aveva rapporti con la Procura di Caltanissetta non mi avrebbe fatto indagare su Contrada”.

Il teste si è poi soffermato sull’agenda rossa di Borsellino: “L’unica interlocuzione sull’agenda rossa è stata con il pm di Caltanissetta di allora Fausto Cardella – ha detto Genchi – che mi prese una borsa dall’armadio e mi fece vedere all’interno una batteria affumicata e un costume in nylon con i lacci. E mi chiese un’opinione. Io dissi che a mio avviso quella batteria non era nella borsa ed era stata solo lambita.
Se l’agenda fosse stata dentro la borsa il costume avrebbe dovuto incendiarsi prima della carta. Quindi, secondo me, l’agenda non era dentro la borsa se si è bruciata.
Il costume era sicuramente dentro la borsa ma l’agenda no”.
Genchi ha poi riferito di un episodio: “La Barbera era fortemente rattristato, anzi era più che altro incazzato, per il fatto che venisse adombrata la possibilità che lui avesse sottratto l’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino.
E a lui avevano riferito che la signora Agnese (la moglie di Borsellino, ndr) avesse delle riserve sul suo conto per il fatto che lo ritenesse o, meglio, fosse stata convinta – e lui riteneva che lei fosse pilotata dai carabinieri – a convincersi che l’agenda rossa l’aveva sottratta lui.
E ricordo un particolare significativo: una sera andammo a cena a Palermo e c’erano il pm Fausto Cardella, La Barbera e Ilda Boccassini, andammo da Peppino, in pizzeria.
Eravamo seduti al tavolo quando entrò la signora Agnese, la figlia Lucia e altre persone. Siamo andati a salutarla, si sono baciate con la Boccassini, la signora Agnese però si rifiutò di salutare La Barbera. Di questa cosa se ne fece un cruccio, era mortificato”.
Genchi ha anche esternato le sue perplessità su Salvatore Candura, l’ex pentito che – mentendo, come si è scoperto dopo – si autoaccusò del furto della 126 utilizzata come autobomba in via D’Amelio: “Io percepii subito che si trattava di un soggetto che presentava dei grossi problemi di ordine psichico.
La seconda percezione fu che in tutte le risposte di Salvatore Candura dimostrava di essere istruito.
Uscendo pensai che bisognava verificare molto i contenuti delle dichiarazioni”.
E ha aggiunto: “Erano evidenti le assurdità riferite” da Candura, poi condannato per calunnia. Il processo è stato rinviato al 20 febbraio.

Fonte: Adnkronos


Processo depistaggio, parla Genchi: “Il capo della Mobile La Barbera agiva su direttive romane”

 

Gli anni del dopo stragi, le manipolazioni alle armi sequestrate all’allora pentito Totuccio Contorno, il clima nella squadra mobile diretta da Arnaldo La Barbera

“La strategia di La Barbera era vestire il ‘pupo’, a Roma non vogliono che si volevano si andasse oltre”: lo ha detto l’ex poliziotto Gioacchino Genchi al processo depistaggio su via D’Amelio davanti alla Corte d’Appello di Caltanissetta a carico di tre ex agenti della Squadra mobile di Palermo. “La mia unica fonte e’ La Barbera – ha detto Genchi – e quando ci viene comunicato che stavano arrestando Contrada, mi spiega che a Roma stavano somatizzando, non piacevolmente. Contrada era in un gruppo completamente opposto a quello di Parisi. A Roma erano preoccupati su diversi aspetti perche’ Contrada era un uomo delle istituzioni e avevano timori che parlasse di altre situazioni. Era stato espulso dal sistema. La Barbera mi dice che tutto quello su cui stavamo indagando si doveva bloccare: dai Servizi segreti, agli Stati uniti d’America, all’elezione del presidente della Repubblica quali movimenti delle stragi” Quanto alle armi sequestrate a seguito dell’arresto di Totuccio Contorno Genchi racconta di essere venuto a conoscenza del fatto che vi erano state delle “operazioni di manipolazione per far sì che venissero modificate. Arnaldo La Barbera mi parlò di armi portate ad Ostia, riempite di sabbia affinché poi non vi fosse corrispondenza con gli esiti balistici delle ogive che erano state rinvenute sui cadaveri degli omicidi avvenuti prima della cattura di Contorno”.  
Il processo che si celebra a Caltanissetta dinanzi alla Corte d’appello, presieduta da Giovambattista Tona, vede imputati tre poliziotti appartenenti all’ex gruppo di indagine Falcone-Borsellino guidato da Arnaldo La Barbera. Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sono accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito la mafia per aver imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino al fine, secondo l’accusa, di costruire una falsa verità sulla strage. “Con La Barbera a capo della Squadra di Palermo – ha continuato Genchi – l’attività di intelligence venne trasferita a me. Non potendo intercettare tutte le cabine telefoniche ne abbiamo disattivate diverse per circoscrivere quelle dalle quali i mafiosi potevano chiamare. E ce n’era una che era una miniera d’oro di informazioni”. Il servizio dell’inviato Roberto Ruvolo RAI NEWS


Le armi sequestrate dopo l’arresto di Contorno a Palermo, Genchi: «Furono manipolate»

 

La rivelazione a Caltanissetta al processo sul depistaggio delle indagini della strage di via D’Amelio: «Furono riempite di sabbia affinché non vi fosse corrispondenza con gli esiti balistici delle ogive che erano state rinvenute sui cadaveri degli omicidi»

 

«In quanto alle armi sequestrate a seguito dell’arresto di Totuccio Contorno venni a conoscenza del fatto che vi erano state delle operazioni di manipolazione per far sì che venissero modificate.
Arnaldo La Barbera mi parlò di armi portate ad Ostia, riempite di sabbia affinché poi non vi fosse corrispondenza con gli esiti balistici delle ogive che erano state rinvenute sui cadaveri degli omicidi avvenuti prima della cattura di Contorno».
A raccontare delle fasi immediatamente successive l’arresto di Totuccio Contorno, rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso, è l’avvocato ed ex poliziotto Gioacchino Genchi, sentito oggi come teste nell’udienza del processo sul depistaggio delle indagini della strage di via D’Amelio.
Il processo che si celebra a Caltanissetta dinanzi alla Corte d’appello, presieduta da Giovambattista Tona, vede imputati tre poliziotti appartenenti all’ex gruppo di indagine Falcone-Borsellino guidato da Arnaldo La Barbera. Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sono accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito la mafia per aver imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino al fine, secondo l’accusa, di costruire una falsa verità sulla strage. «Con La Barbera a capo della squadra di Palermo – ha continuato Genchi – l’attività di intelligence venne trasferita a me. Non potendo intercettare tutte le cabine telefoniche ne abbiamo disattivate diverse per circoscrivere quelle dalle quali i mafiosi potevano chiamare. E ce n’era una che era una miniera d’oro di informazioni».

Strage di via D’Amelio, per La Barbera si dovevano chiudere indagini

«La strategia di Arnaldo La Barbera era vestire il pupo. Chiudere, fregarsene di tutto e di tutti e chiudere le indagini. Perché a Roma volevano che si facesse così», ha detto Gioacchino Genchi sulle indagini per via D’Amelio.
«La mia fonte – ha detto Genchi, rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso, applicato alla procura generale – era La Barbera stesso. Mi spiegò che a Roma stavano prendendo atto, non piacevolmente, del coinvolgimento di Contrada, nelle indagini.
Erano preoccupati perché Contrada era stato sempre un uomo delle istituzioni e c’era la paura di quello che poteva tirare fuori. Contrada era stato mollato, era stato espulso dal sistema, che a quel punto si doveva ricompattare. L’imminente arresto di Contrada diede il via a una marcia indietro. E’ da quel momento che iniziano le certezze di La Barbera di avere la promozione, inizia il tentativo di chiudere e di semplificare le cose, di vestire il pupo come disse lui stesso».
«Arnaldo La Barbera aveva preso una deriva e non stava lavorando per i miei fini che erano i fini istituzionali.
Io non accettavo minimamente di trasgredire a quelli che erano i miei doveri istituzionali».
«La Barbera – ha continuato Genchi – era stato istruito dal procuratore di Caltanissetta sui contenuti della sentenza del maxi processo che portava in modo automatico ad attribuire a Cosa nostra qualsiasi evento fosse avvenuto a Palermo. Tutto ciò che c’è nelle dichiarazioni di Mutolo, che portava a un ruolo equivoco di Contrada e altri appartenenti allo Stato, doveva essere sottaciuto perché si doveva chiudere così per poi avere la promozione e andare via da Palermo.
Perché si doveva confezionare il pacco. Ricordo una frase di La Babera “L’ultima cosa che farò”, quando andrò via, sarà fare un giro in elicottero per fare la pipì sulla questura di Palermò. Siamo tra la fine del ‘91 e l’inizio del ‘92 – precisa Genchi – La Barbera cercava di andare via da Palermo e non lo svincolavano perché non trovavano un successore». «La Barbera – ha aggiunto poi Genchi – era portatore di direttive precise, su questo voglio essere chiaro,non ha mai fatto nulla se non sotto la direzione diretta del capo della polizia. La Barbera ha eseguito direttive sempre e non ha mai agito autonomamente. Oggi è troppo facile processare i morti e questa è l’unica certezza che ho».

«Per me l’agenda rossa di Borsellino non era nella borsa»

«Per quanto riguarda l’agenda rossa l’unica interlocuzione è stata con il dottore Fausto Cardella che mi prese una borsa dall’armadio e mi fece vedere all’interno una batteria affumicata e un costume in nylon con i lacci.
E mi chiese un’opinione e io dissi che, secondo me, quella batteria non era nella borsa ed era stata solo lambita. Se l’agenda fosse stata dentro la borsa il costume avrebbe dovuto incendiarsi prima della carta.
Quindi, secondo me, l’agenda non era dentro la borsa se si è bruciata. Il costume era sicuramente dentro la borsa ma l’agenda no», ha ha detto l’avvocato Gioacchino Genchi, rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Trizzino, sull’agenda rossa di Paolo Borsellino. Quest’ultima, che secondo i familiari del giudice era dentro la borsa al momento della strage, non è mai stata ritrovata. GIORNALE DI SICILIA

 


Depistaggio Borsellino, Genchi: “La Barbera indottrinato da Roma, ma ritengo non c’entri con la scomparsa dell’agenda rossa”

 

“La Barbera era stato indottrinato, ha eseguito sempre le direttive che arrivano da Roma. Oggi è troppo facile processare i morti. All’epoca bisognava attribuire a soggetti lo status di mafioso, la strategia di La Barbera era quella, vestire il pupo, chiudere, fregandosene di tutto e tutti”. A riferirlo è l’ex poliziotto Gioacchino Genchi, oggi avvocato penalista, un tempo in ottimi rapporti proprio con Arnaldo La Barbera. Dichiarazioni rese in aula a Caltanissetta nel processo di appello sul depistaggio delle prime indagini sulla trage di via d’Amelio. Imputati sono i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Gli ex componenti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino, all’epoca guidati proprio da La Barbera, sono accusati di calunnia aggravata per aver favorito Cosa nostra, perché avrebbero istruito Vincenzo Scarantino a rendere dichiarazioni che sarebbero servite a sviare le indagini sulla strage in cui fu ucciso Paolo Borsellino. In primo grado, caduta l’aggravante mafiosa, Bo e Mattei sono stati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto perché il fatto non costituisce reato.

“Vestire il pupo” – Genchi ha racconato di essere stato uno stretto collaboratore di La Barbera, proponendo spunti investigativi sulle stragi e manifestando le sue perplessità sulla pista poi seguita dall’ex capo della Mobile. “Non si volevano individuare i veri colpevoli e autori delle strage di Capaci e via d’Amelio, il possibile movente politico, che era stato colto anche da alcuni esponenti di Cosa nostra e non solo, quando faccio presente le mie perplessità e la mia ricostruzione sugli eventi, La Barbera non mi dice: abbiamo sbagliato tutto. No, lui mi dice: dobbiamo chiudere. Era stato istruito dal procuratore di Caltanissetta, sulla base della sentenza della Cassazione del Maxi processo, di attribuire a Cosa nostra tutte le responsabilità – ha spiegato Genchi -. Tutto quello che racconta Gaspare Mutolo, il suicidio del magistrato Domenico Signorino, il ruolo di Bruno Contrada e di altri apparati dei servizi, deve essere sottaciuto, perché si deve chiudere presto”. Poi quando viene arrestato Contrada, all’interno della polizia cambia qualcosa. “Da Roma partì l’input di commissariare la polizia di Palermo, le indagini le avrebbero fatte i carabinieri, e già sapevamo che arrestavano Riina. Mi raccontò che avevano paura di Contrada, perché avrebbe potuto parlare di una serie di vicende, come quella di Contorno (Salvatore, ndr). C’era una forma di complicità o un tentativo di aiutarlo”, ha aggiunto Genchi.

Il controverso rapporto – Il sostituto procuratore Maurizio Bonaccorso, applicato nel processo di appello, ha sollevato alcune “contraddizioni” nel rapporto dell’ex poliziotto con La Barbera, chiedendogli se il suo capo lo “informava costantemente sullo sviluppo delle indagini”. “Si, finché la nostra collaborazione è stata effettiva, a maggio ’93. Ricordo che ci fu un tentativo dei servizi, con Contrada, di inserirsi nelle indagini, chiedendo una delega, non sapevo che Tinebra era in rapporti con Contrada, anche perché noi all’epoca indagavamo su di lui, e credo che neppure La Barbera lo sapesse”, ha risposto Genchi. “Le parlò di Scarantino? Di Pipino (Vincenzo, ndr), che era un confidente di La Barbera e venne messo nella stessa cella del presunto pentito, per sondare la conoscenza dei fatti sulle stragi?”, ha chiesto ancora il pm. “No, di Pipino non mi disse nulla e neppure di Scarantino”, la risposta dell’ex poliziotto. “Le informazioni che raccolgo su Scarantino sono successive. Era un piscialetto, nessuno dei magistrati di Palermo lo conosceva, era un personaggio costruito dai nisseni. Questi elementi, tra il 4-5 maggio 1993, mi portano alla rottura del rapporto con La Barbera, che mi ha taciuto tante cose, e capisco che lui stava prendendo una deriva. Mi affidava tutto, si fidava sull’indirizzo delle indagini su Mutolo, Contrada, moventi sulle stragi, entità esterne americane, massimi sistemi, e poi non mi aggiorna e non ritiene di farmi parlare con questo Scarantino?”, dice Genchi.

L’agenda rossa – “Ritengo che La Barbera non c’entri nulla con l’agenda rossa. Lui quella cosa l’attribuiva ai carabinieri – dice Genchi -. Era fortemente rattristato, anzi era più che altro incazzato, per il fatto che venisse adombrata la possibilità che lui avesse estratto l’agenda rossa di Borsellino. Gli avevano riferito che la vedova aveva delle riserve sul suo conto per il fatto che lo ritenesse o, meglio, fosse stata convinta -e lui riteneva che lei fosse pilotata dai carabinieri– a convincersi che l’agenda rossa l’aveva sottratta lui”. Poi ha ricordato un particolare che ha definito significativo: “Una sera andammo a cena a Palermo e c’erano il pm Fausto Cardella, Arnaldo La Barbera e Ilda Boccassini, andammo da Peppino, in pizzeria. Eravamo seduti al tavolo quando entrò la signora Agnese, la figlia Lucia e altre persone. Siamo andati a salutarla, si sono baciate con la Boccassini, la signora Agnese però si rifiutò di salutare La Barbera. Di questa cosa se ne fece un cruccio, era mortificato”. Ha anche aggiunto che La Barbera “non ha mai usato parole eleganti nei confronti della signora Lucia Borsellino”.

I finti pentiti – L’ex poliziotto racconta che La Barbera aveva tentato di lasciare già nel gennaio 1991 la Squadra mobile di Palermo, perché “era una polveriera”, ma non riuscì a trovare un sostituto. “Mi disse che l’ultima cosa che avrebbe fatto prima di andare via era un giro in elicottero e fare una pisciata sulla questura di Palermo”, aggiunge Genchi. Parte delle domande, vertono sugli interrogatori a Salvatore Candura e Luciano Valenti, in cui era presente anche Genchi. “Accompagno Petralia prima a Roma e poi Milano, curo la verbalizzazione e lui stesso mi chiese di assistere, non ero imbucato. Percepisco subito dalle domande che si trattava di due soggetti che presentavano grossi problemi psichici, non ci stavano con la testa, e dalle risposte che davano percepivo che erano stati istruiti”, spiega Genchi.“La Barbera mi disse che questi erano stati fermati per vicende di reati sessuali. Rimasi perplesso, perché dalla ricostruzione di La Barbera, i due arrestati erano collegati alla strage in virtù del furto della macchina, che era riconducibile ad un parente dei due”, aggiunge l’ex poliziotto. La 126 usata nella strage di via d’Amelio infatti, era di Pietrina Valenti, sorella di Luciano. Genchi racconta di aver condiviso i suoi dubbi anche con il magistrato Carmelo Petralia durante il viaggio di rientro in Sicilia.
“La Barbera come reagì quando la vide agli interrogatori?”, domanda Bonaccorso. “Era sorpreso di vedermi li, e ho capito che non gradiva che partecipassi alla verbalizzazione. Chiese se era necessaria, e Petralia disse di si. Perché La Barbera era molto istintivo, penso che non abbia gradito perché magari ha capito che potevo rompere le uova nel paniere, visto che puntualizzavo su tutto e avevo un dialogo diretto e franco con il pm. Quindi interrompevo la sua libertà di manovra, di controllore ogni cosa, il ruolo di centralità della decisione”, aggiunge Genchi. di Saul Caia| 10 Febbraio 2024 FQ


Il depistaggio su Borsellino, Genchi: “La Barbera seguì precise direttive”

 “Arnaldo La Barbera aveva preso una deriva e non stava lavorando per i miei fini che erano i fini istituzionali. Io non accettavo minimamente di trasgredire a quelli che erano i miei doveri istituzionali”. Lo ha detto l’avvocato ed ex poliziotto Gioacchino Genchi, deponendo come teste al processo sul depistaggio delle indagini sulla Strage di via D’Amelio che si celebra in Corte d’Appello a Caltanissetta. Il riferimento è al poliziotto Arnaldo La Barbera, a capo del gruppo Falcone-Borsellino che indagava sulle stragi di Capaci e via D’Amelio.

La Barbera e le stragi

E proprio di questo gruppo facevano parte i tre poliziotti imputati nel processo, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di aver imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino per costruire una falsa verità sulle stragi. “La Barbera – ha continuato Genchi – era stato istruito dal procuratore di Caltanissetta sui contenuti della sentenza del maxi processo che portava in modo automatico ad attribuire a Cosa nostra qualsiasi evento fosse avvenuto a Palermo. Tutto ciò che c’è nelle dichiarazioni di Gaspare Mutolo, che portava a un ruolo equivoco di Bruno Contrada e altri appartenenti allo Stato, doveva essere sottaciuto perché si doveva chiudere così per poi avere la promozione e andare via da Palermo. Perché si doveva confezionare il pacco. Ricordo una frase di La Barbera ‘L’ultima cosa che farò, quando andrò via, sarà fare un giro in elicottero per fare la pipì sulla questura di Palermo’. Siamo tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92 – precisa Genchi – La Barbera cercava di andare via da Palermo e non lo svincolavano perché non trovavano un successore”.

“La Barbera voleva ‘vestire il pupo’”

“La Barbera – ha aggiunto poi Genchi – era portatore di direttive precise, su questo voglio essere chiaro, non ha mai fatto nulla se non sotto la direzione diretta del capo della polizia. Ha eseguito direttive sempre e non ha mai agito autonomamente. Oggi è troppo facile processare i morti e questa è l’unica certezza che ho”. Secondo Genchi “la strategia di La Barbera era quella di ‘vestire il pupo’. Chiudere, fregarsene di tutto e di tutti e chiudere le indagini. Perché a Roma volevano che si facesse così”.

Bruno Contrada e le ‘paure’ di Roma

Genchi, che parla anche di “armi manipolate” per vanificare alcuni esami balistici, poi continua: “La mia fonte era La Barbera stesso. Mi spiegò che a Roma stavano prendendo atto, non piacevolmente, del coinvolgimento di Contrada, nelle indagini. Erano preoccupati perché Contrada era stato sempre un uomo delle istituzioni e c’era la paura di quello che poteva tirare fuori. Contrada era stato mollato, era stato espulso dal sistema, che a quel punto si doveva ricompattare. L’imminente arresto di Contrada diede il via a una marcia indietro. Da quel momento iniziano le certezze di La Barbera di avere la promozione, inizia il tentativo di chiudere e di semplificare le cose, di ‘vestire il pupo’ come disse lui stesso”. LIVE SICILIA


Genchi rivela: “La Barbera e quelle armi manipolate del pentito”

(dall’inviata Elvira Terranova) – La rivelazione arriva a inizio udienza quando, per la prima volta, Gioacchino Genchi, ex vicequestore aggiunto della Questura di Palermo, per un periodo stretto collaboratore di Arnaldo La Barbera, e oggi avvocato penalista, ricorda un retroscena inedito, mai raccontato fino ad oggi. Un episodio che sarebbe avvenuto nel 1989, dopo l’arresto del pentito di mafia Totuccio Contorno, che era tornato a sparare e fu accusato, da una lettera anonima inviata all’epoca all’Alto Commissariato antimafia, di essere un ‘killer di Stato’. “Mi ricordo che La Barbera mi parlò di armi portate a Ostia, riempite di sabbia – racconta oggi Genchi – fecero sparare le pistole con la sabbia per alterare le macro e micro striature della canna dell’arma affinché poi non vi fosse possibile corrispondenza con gli esiti balistici delle ogive che erano state rinvenute sui cadavere dei diversi omicidi che erano stati consumati prima della cattura di Contorno”. Insomma, una vera propria operazione di manipolazione per far sì che le armi trovate a Contorno venissero modificate. Dichiarazioni mai fatte prima di ora. “Le armi sarebbero state portate a Roma per fare le perizie balistiche”, dice Genchi rispondendo poi, dopo il controesame, al giudice a latere che si mostra interessato all’episodio inedito, e gli chiede perché proprio a Ostia. “Per scongiurare ogni ipotesi, mi disse La Barbera”, spiega ancora l’ex poliziotto. Un modo per coprire un ‘killer di Stato’? Un giallo che si infittisce.

Poi, Gioacchino Genchi nel corso della deposizione fiume, parla anche della sua collaborazione con La Barbera e del cambio di atteggiamento dell’allora dirigente della Squadra mobile. A cambiare tutto, all’improvviso, era stato l’arresto, nel Natale del 1992, dell’ex 007 Bruno Contrada. Da quel momento in poi sarebbe cambiato radicalmente l’atteggiamento di La Barbera, impegnato nelle indagini sulle stragi mafiose del 1992. “La sua strategia era quella di ‘vestire il pupo’ e di chiudere le indagini al più presto, perché a Roma volevano che facesse così. La Barbera ha eseguito direttive e non ha mai agito da solo. Ora è facile processare i morti…”. “Mi diceva ‘Noi dobbiamo vestire il pupo così come è – dice Genchi – dobbiamo chiudere al più presto e andarcene”.

E’ un fiume in piena, l’avvocato Gioacchino Genchi, ex vicequestore aggiunto della Questura di Palermo, nella lunga deposizione al processo d’appello sul depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio che vede alla sbarra tre poliziotti: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia in concorso aggravata dall’avere agevolato Cosa nostra. Secondo l’accusa i poliziotti, guidati da La Barbera, avrebbero imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino, che poi ha fatto condannare all’ergastolo degli innocenti. In primo grado per Bo e Mattei è subentrata la prescrizione mentre Ribaudo è stato assolto dall’accusa. Genchi, in oltre sei ore di deposizione, ha risposto a tutte le domande di accusa e difesa, ripercorrendo il periodo che va dal 1988 al 1993, quando collaborò con l’allora dirigente Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002.

‘Era portatore di direttive ben precise da Roma’

Gioacchino Genchi, rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso, applicato alla Procura generale, e al sostituto Pg Antonino Patti, ribadisce più volte che Arnaldo La Barbera “era portatore di direttive precise. Non faceva nulla, se non sotto il controllo del Capo della Polizia Parisi e del Prefetto Luigi Rossi. La Barbera ha eseguito direttive e non ha mai agito autonomamente”. Ma più volte sottolinea che la traiettoria di La Barbera, a un certo punto, avrebbe preso una piega diversa. “Arnaldo La Barbera aveva preso una deriva e non stava lavorando per i miei fini che erano i fini istituzionali. Io non accettavo minimamente di trasgredire a quelli che erano i miei doveri istituzionali”, sottolinea l’avvocato ed ex poliziotto Gioacchino. “La Barbera era stato istruito dall’allora Procuratore di Caltanissetta Tinebra sui contenuti della sentenza del maxi processo che portava in modo automatico ad attribuire a Cosa nostra qualsiasi evento fosse avvenuto a Palermo, quindi La Barbera eseguiva direttive, sempre. Tutto ciò che c’è nelle dichiarazioni di Mutolo, che portava a un ruolo equivoco di Contrada e altri appartenenti allo Stato, doveva essere sottaciuto perché si doveva chiudere così per poi avere la promozione e andare via da Palermo. Perché si doveva confezionare il pacco. Ricordo una frase di La Barbera ‘L’ultima cosa che farò, quando andrò via, sarà fare un giro in elicottero per fare la pipì sulla questura di Palermo’. Siamo tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92 – precisa Genchi – La Barbera cercava di andare via da Palermo e non lo svincolavano perché non trovavano un successore”.

Nel corso dell’udienza fiume occhi puntati anche sull’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, scomparsa dopo la strage di via D’Amelio. “L’unica interlocuzione è stata con il pm di Caltanissetta Fausto Cardella che mi prese una borsa dall’armadio e mi fece vedere all’interno una batteria affumicata e un costume in nylon con i lacci. E mi chiese un’opinione e io dissi che, secondo me, quella batteria non era nella borsa ed era stata solo lambita”. Genchi è convinto che l’agenda non si trovasse nella borsa del magistrato. “Se l’agenda fosse stata dentro la borsa il costume avrebbe dovuto incendiarsi prima della carta. Quindi, secondo me, l’agenda non era dentro la borsa se si è bruciata. Il costume era sicuramente dentro la borsa ma l’agenda no”.

Poi, continuando a parlare dell’agenda rossa ricorda quella volta che Arnaldo La Barbera “era fortemente rattristato, anzi era più che altro incazzato, per il fatto che venisse adombrata la possibilità che lui avesse sottratto l’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino. E a lui avevano riferito che la signora Agnese avesse delle riserve sul suo conto per il fatto che lo ritenesse o, meglio, fosse stata convinta -e lui riteneva che lei fosse pilotata dai carabinieri- a convincersi che l’agenda rossa l’aveva sottratta lui”. Genchi ricorda “un particolare significativo”. “Una sera andammo a cena a Palermo in una pizzeria e c’erano il pm Fausto Cardella, Arnaldo La Barbera e Ilda Boccassini, andammo da ‘Peppino’. Eravamo seduti al tavolo quando entrò la signora Agnese, la figlia Lucia e altre persone. Siamo andati a salutarla, si sono baciate con la Boccassini, la signora Agnese però si rifiutò di salutare La Barbera. Di questa cosa se ne fece un cruccio, era mortificato”.

‘Erano preoccupati dopo l’arresto di Contrada per quello che poteva raccontare’

Poi, tornando a parlare dell’arresto dell’ex 007 Bruno Contrada, per concorso esterno in associazione mafiosa, il 24 dicembre del 1992, Genchi ribadisce che La Barbera e i suoi superiori “erano preoccupati” perché l’ex funzionario dei servizi segreti “era stato sempre un uomo delle istituzioni e c’era la paura di quello che poteva tirare fuori. Contrada era stato mollato, era stato espulso dal sistema, che a quel punto si doveva ricompattare”. “Contrada, volendo, dopo l’arresto, avrebbe potuto palesare argomenti che potevano non essere graditi. C’era una forma di complicità o un tentativo di aiutarlo. C’era paura di Contrada e questo me lo disse La Barbera perché avrebbe potuto parlare anche di una serie di vicende come quella di Contorno”. Qui scatta la “marcia indietro” di La Barbera. “E’ da quel momento che iniziano le certezze di La Barbera di avere la promozione, inizia il tentativo di chiudere e di semplificare le cose, di ‘vestire il pupo’ come disse lui stesso”. Gioacchino parla anche dell’arresto del Capo dei capi Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio del 1993. “Seppi in anticipo che nel gennaio sarebbe stato arrestato e che lo avrebbero arrestato i carabinieri. Perché la Polizia doveva essere ‘commissariata’, la Polizia dopo l’arresto di Bruno Contrada, nel gennaio del 1993, doveva chiudere, insomma”. E sulle stragi si dice convinto che “non si volevano individuare i veri responsabili delle stragi, su Capaci c’era il movente politico”. E racconta un aneddoto: “Nel ’92 La Barbera voleva andare via da Palermo e lasciare la Squadra mobile. Ricordo che mi disse una frase particolare: ‘Prima di andarmene devo fare un giro in elicottero su Palermo e arrivato sopra la questura fare la pipì’. Me lo disse alla fine del ’91 e prima dell’omicidio Lima”. Gioacchino Genchi ricorda anche la vicenda del falso pentito Salvatore Candura, che fu creduto dai pm di Caltanissetta. “Io percepii subito che si trattava di un soggetto che presentava dei grossi problemi di ordine psichico. La seconda percezione fu che in tutte le risposte di Salvatore Candura dimostrava di essere istruito. Uscendo pensai che bisognava verificare molto i contenuti delle dichiarazioni”. Salvatore Candura è l’ex pentito che si autoaccusò del furto della 126 utilizzata come autobomba per la strage di via d’Amelio. Dichiarazioni che poi si rivelarono false. Solo successivamente Candura raccontò che l’allora dirigente della Squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera e l’allora funzionario di Polizia, Vincenzo Ricciardi, gli avrebbero prospettato che avrebbe rischiato l’ergastolo se avesse ritrattato. I tre imputati, i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sono accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito la mafia perché secondo la Procura generale avrebbero imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino sulla strage di via D’Amelio. L’ex funzionario di Polizia Genchi oggi ha detto che nel 1992 ha assistito a Mantova all’interrogatorio tra il pm Carmelo Petralia e il falso pentito Candura. Ma per Genchi “erano evidenti le assurdità riferite” da Candura. Lo stesso ex pentito fu poi condannato per calunnia.  Tornando alla collaborazione con Arnaldo La Barbera, Genchi ribadisce che con il suo arrivo “l’attività di intelligence venne trasferita a me”. Nell’estate del 1988 “riuscimmo a intercettare una cabina telefonica a San Nicola L’Arena da cui telefonavano spesso Giuseppe Grado e il collaboratore di giustizia Totuccio Contorno. Chiamavano anche a Gianni De Gennaro. Quella cabina telefonica era una miniera d’oro. Contorno informava di tutto quello che faceva. Parlava di ‘lumache’ e di ‘rugiada’, ma è chiaro che parlava di persone che uscivano ‘le corna’ come i babbaluci (le lumache ndr). Io non me la sentivo i restare a Palermo. Avevo studiato diritto penale e avevo letto che non impedire un evento equivale a cagionarlo. E me ne andai a Roma con la mia famiglia”. E qui fa la rivelazione sulle armi con la sabbia: “Seppi da La Barbera che vi erano state delle operazioni di manipolazione per far sì che venissero modificate. Arnaldo La Barbera mi parlò di armi portate ad Ostia, riempite di sabbia affinché poi non vi fosse corrispondenza con gli esiti balistici delle ogive che erano state rinvenute sui cadaveri degli omicidi avvenuti prima della cattura di Contorno”. Il rapporto fra La Barbera e Genchi divenne sempre più stretto fino a quando scoppiò il ‘caso’ de pentito Totuccio Contorno tornato in armi in Sicilia facendo base proprio a San Nicola l’Arena. Genchi fa anche un’altra rivelazione: “Ricordo che un giorno ebbi uno scontro furibondo con la pm Ilda Boccassini sul controllo delle carte di credito di Giovanni Falcone. Mi accusava di volere indagare sulla vita privata di Falcone, dopo che lei stessa mi aveva fatto indagare su tutta la vita di Falcone, ma per me era l’unico moro per capire se il giudice era stato negli Stati Uniti”. La deposizione è proseguita fino al tardo pomeriggio. Il processo riprenderà il prossimo 20 febbraio quando il Presidente della Corte Giovambattista Tona scioglierà delle riserve.

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Borsellino:teste,’La Barbera ha eseguito direttive capo polizia’

 “Arnaldo La Barbera aveva preso una deriva e non stava lavorando per i miei fini che erano i fini istituzionali. Io non accettavo minimamente di trasgredire a quelli che erano i miei doveri istituzionali”. Lo ha detto l’avvocato ed ex poliziotto Gioacchino Genchi, deponendo come teste al processo sul depistaggio delle indagini sulla Strage di via D’Amelio che si celebra in Corte d’Appello a Caltanissetta. Il riferimento è al poliziotto Arnaldo La Barbera, a capo del gruppo Falcone-Borsellino che indagava sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. E proprio di questo gruppo facevano parte i tre poliziotti imputati nel processo, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di aver imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino per costruire una falsa verità sulle stragi.    “La Barbera – ha continuato Genchi – era stato istruito dal procuratore di Caltanissetta sui contenuti della sentenza del maxi processo che portava in modo automatico ad attribuire a Cosa nostra qualsiasi evento fosse avvenuto a Palermo. Tutto ciò che c’è nelle dichiarazioni di Mutolo, che portava a un ruolo equivoco di Contrada e altri appartenenti allo Stato, doveva essere sottaciuto perché si doveva chiudere così per poi avere la promozione e andare via da Palermo. Perché si doveva confezionare il pacco. Ricordo una frase di La Babera ‘L’ultima cosa che farò, quando andrò via, sarà fare un giro in elicottero per fare la pipì sulla questura di Palermo’. Siamo tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92 – precisa Genchi – La Barbera cercava di andare via da Palermo e non lo svincolavano perché non trovavano un successore”. “La Barbera – ha aggiunto poi Genchi – era portatore di direttive precise, su questo voglio essere chiaro, non ha mai fatto nulla se non sotto la direzione diretta del capo della polizia. La Barbera ha eseguito direttive sempre e non ha mai agito autonomamente. Oggi è troppo facile processare i morti e questa è l’unica certezza che ho”. ANSA

 

VIA D’AMELIO – DEPISTAGGIO DELLE INDAGINI – processo d’appello in corso

 

 

Gioacchino Genchi