Lunedì 20 luglio 1992: La situazione alla procura di Palermo é molto tesa: alcuni magistrati si riuniscono per decidere se presentare le dimissioni o chiedere quelle del procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco il quale a sua volta annuncia l’intenzione di dimettersi a patto di ricevere una lettera di solidarietà da parte dei colleghi. Non arriveranno né la missiva di solidarietà né le dimissioni. Questi i commenti di alcuni magistrati palermitani:
- Guido Lo Forte: “Le dimissioni sarebbero solo un grosso regalo a Riina. Non possiamo scrivere quest’ epitaffio sulla tomba di Paolo Borsellino”.
- Vittorio Teresi: “La lotta alla mafia non e’ piu’ compito dei magistrati. Chi la fa muore e muore per nulla. Io non voglio morire per nulla”.
- Alfredo Morvillo, fratello della moglie di Giovanni Falcone, Francesca: “Lo so, e’ triste ammetterlo ma, sino ad oggi, credo proprio che la consapevolezza che la mafia abbia vinto e’ incontestabile. Non vedo assolutamente alcuna speranza perche’, mancando Borsellino, allo stato non c’e’ piu’ alcuna persona in grado di coagulare in se’ il consenso oltre che riunirci per continuare le indagini”.
- Ernesto Stajano: “Ci vuole un intervento delle forze di polizia e con strumenti diversi da quelli utilizzati fin qui”. Giammanco si dimettera’ ? – chiede il cronista del Corriere della Sera. “Non ne voglio parlare – risponde Stajano – Ma e’ certo che esistono delle difficolta’ anche sul piano personale per il procuratore capo che si trova a gestire una situazione d’ eccezionale gravita’ con una carenza obiettiva di strutture e di strumenti normativi. Non si puo’ rischiare la vita in queste condizioni. Vorrei correggere quello che ho detto: questa non e’ una guerra, questo e’ un massacro”. Sono le quattro del pomeriggio. La camera ardente e’ pronta.
- Pio Marconi, consigliere “laico” (Psi) del CSM, taglia corto sulle accuse contro Giammanco: “Un magistrato coraggioso, che regge l’ ufficio con grande capacita’ ed e’ ingiustamente attaccato. Se siamo in guerra con la mafia, non possiamo delegittimare chi la combatte”.
Gia’, la guerra. Il sostituto Ignazio De Francisci fa il bilancio sul campo. Ed e’ un bilancio triste assai: “Con la morte di Borsellino se ne e’ andato il 60 per cento del potenziale della Procura palermitana”. “E il quaranta per cento che rimane?”, chiede il cronista. “Arranca” risponde De Francisci. “Tanto vale andarsene, allora?”. “Qualcuno sostiene che noi dobbiamo continuare. Ma noi chi siamo?” [104]
Vincenzo Parisi, capo della Polizia, esprime “fiducia ed ammirazione per l’intenso e costruttivo lavoro che l’Alto magistrato (Pietro Giammanco, ndr) ha sempre svolto, guidando mirabilmente la polizia giudiziaria distrettuale”.
Giovanni Galloni, vicepredidente del CSM, dichiara: “Sono vicino a Giammanco così come a tutta la procura di Palermo. In questo momento si darebbe ragione alla mafia se di fronte ad un simile attacco proditorio si assistesse allo sfascio delle strutture dello Stato e della magistratura”.
Maria Falcone rilascia un’intervista durissima nei confronti del procuratore di Palermo: “Per quanto è dato sapere nulla è avvenuto sul piano delle indagini dopo l’uccisione di mio fratello. Chi non ha saputo tutelare la vita di Giovanni, di Francesca, degli agenti della scorta morti a Capaci, non è stato in grado di assicurare adeguata protezione neppure a Paolo Borsellino che non poteva non esser considerato il nuovo naturale bersaglio della mafia. In questo paese è ora che qualcuno cominci a pagare per non aver saputo assolvere ai propri compiti. Ho appreso dalla TV che il procuratore Giammanco avrebbe manifestato l’intenzione di rassegnare le dimissioni…ritengo che il proposito debba esser coltivato sino in fondo, altri magistrati debbono prendere il suo posto. Alla Procura di Palermo occorrono giudici sui quali tutti si debba esser certi e tranquilli, giudici non chiamati in causa da quei chiari appunti già pubblicati dai giornali e che Borsellino aveva detto, quasi a futura memoria, di ben conoscere.
Giuseppe di Lello è altrettanto chiaro: “Lo Stato, pezzi dello Stato, hanno stretto da decenni un patto scellerato con la mafia. Non appena si è tentato di cambiare registro, non appena è arrivata la sentenza della Cassazione che ha confermato l’impalcatura del maxi-processo, non appena i boss, già scarcerati, sono tornati in cella, Cosa Nostra ha avuto una reazione selvaggia. Non poteva accettare che questo patto decennale di non belligeranza venisse disdetto da uno dei due contraenti. Ed ecco i morti, ecco Falcone, ecco Borsellino.”
Il vecchio del gruppo di agenti che scortava il giudice Borsellino, per il quale le misure di sicurezza erano state rafforzate dopo le dichiarazioni del pentito Vincenzo Calcara, era Agostino Catalano, 43 anni, sposato e padre di tre figli. Raccolto agonizzante in via D’Amelio, per Catalano non c’ e’ stato nulla da fare. L’ agente lascia due figli orfani. Aveva infatti perso la moglie nei mesi scorsi. Gli altri agenti uccisi dalla bomba sono Claudio Traina, 27 anni, palermitano come Vincenzo Li Muli, 22 anni. Ferito, infine, e ricoverato sempre nell’ ospedale di Villa Sofia, Antonio Vullo, 32 anni. L’esplosione ha provocato anche il ferimento di 23 persone, tutte residenti nei palazzi che si affacciano su via D’ Amelio. A eccezione di Giacoma Garbo, 52 anni, ricoverata all’ ospedale “Cervello”, tutti gli altri si trovano a Villa Sofia, con prognosi dai 5 agli 8 giorni. Tra i ricoverati, Ivan Trevis, 18 anni, testimone oculare dell’attentato: “Avevo posteggiato la mia auto – racconta – quando ho visto la fiammata della bomba. Mi sono gettato a terra e cosi’ mi sono salvato”. [106]
Secondo il procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli c’e’ un collegamento, sia pure indiretto, fra la strage di Palermo e l’inchiesta milanese Mani Pulite sulle tangenti. “Se potessimo concederci il lusso di uno spunto di ottimismo si potrebbe dire che queste stragi sono gli estremi guizzi che la Piovra esibisce, forse proprio perche’ si sente tallonata. L’ azione intrapresa dalla magistratura a Milano, e seguita anche in molte altre sedi giudiziarie, e’ un´azione che attraverso la purificazione e la pulizia nella pubblica amministrazione puo’ minacciare molto da vicino il mondo dell’ affarismo mafioso”. Borrelli respinge con decisione l’ipotesi contraria, e cioe’ che la mafia sarebbe avvantaggiata dalla delegittimazione delle istituzioni seguita dalle manette ai politici. [108]
Nel pomeriggio si svolge una tesa riunione fra gli agenti delle scorte e Parisi. Vengono posti sul tavolo infiniti problemi, a partire dal perché dopo Capaci erano arrivate solo 4 auto blindate a fronte della richiesta di 20, alla ragione per cui la sollecitazione dell’auto bonifica per Borsellino era andata disattesa, al motivo per cui non c’era la zona rimozione in Via D’Amelio nonostante le scorte ne avessero segnalato la necessità. Al termine della riunione Roberto Leone, inviato del quotidiano La Repubblica, intervista brevemente in questura il capo della Polizia Vincenzo Parisi:
- Vincenzo Parisi (P): “C’è molta tristezza, ma anche molta determinazione. Non ho trovato negli uomini cadute di coraggio, di impegno e nemmeno di irresponsabilità”.
- Roberto Leone (L): “Ma la protesta di domenica notte?”
- P: “L’ mozione di domenica va capita. Si è stati spinti dall’onda emotiva. Purtroppo restano in piedi i problemi, molto sangue è stato versato. In meno di due mesi otto agenti, tre magistrati, tutti valorosi…”.
- L: “Ma davanti a questo drammatico bilancio non ha pensato nemmeno per un attimo di dimettersi?”
- P: “Sarebbe troppo facile forse, o troppo comodo. Certo si può sempre essere avvicendati, ma non tocca a me valutare il mio operato”.
- L: “I mezzi, gli strumenti…”
- P: “Abbiamo avviato in queste settimane una ricerca verso altri corpi di polizia e di Intelligence per sapere se esistono apparecchiature in grado di individuare o di rendere inoffensivi questi congegni. La risposta è stata negativa. Attentati come quelli di domenica e di Capaci sono imprevedibili”.
- L: “Una dichiarazione di impotenza?”
- P: “No. Il problema deve essere quello di una lotta ferma. La mafia è silente quando non vengono colpiti i suoi interessi”.
- L: “Nell’immediato?”
- P: “Ora c’è il decreto Scotti-Martelli che speriamo sia subito convertito. Certo il momento non è facile. Come ha detto il presidente Scalfaro o si esce dalla strettoia o si rischiano guai ancora peggiori”. [109]
Martedì 21 luglio 1992 Alla cattedrale di Palermo si svolgono i funerali degli agenti di scorta. La famiglia Borsellino ha deciso di attendere l’arrivo di Fiammetta e di celebrare i funerali in forma privata. La chiesa viene presidiata da 4000 agenti fatti venire da fuori Palermo. Lo scopo è quello di evitare il ripetersi dei disordini che si sono verificati la sera di due giorni addietro di fronte alla prefettura. La tensione é alle stelle. I vertici dello Stato sono letteralmente travolti dalle persone presenti all’interno della cattedrale
Dalla cronaca del Corriere della Sera: Non e’ bastato l’assedio di quattromila uomini, armati e disposti a cerchi concentrici in un raggio di un chilometro intorno alla cattedrale. Non e’ bastato filtrare con ossessione da lager gli ingressi in quella chiesa, lasciandola precauzionalmente semivuota. Non e’ bastato neppure un “ritardo strategico di quasi venti minuti”, come commenta un maresciallo, delle autorita’ arrivate da Roma. Alla fine della Messa in memoria dei cinque agenti annichiliti dalla bomba di via D’ Amelio, un minuto dopo l’affranta benedizione delle bare da parte del cardinale Pappalardo, esplode la rabbia degli uomini delle scorte. E, quasi che recitasse la sentenza di un processo appena concluso, uno di loro fissa lo sguardo sul capo dello Stato, sul presidente del Consiglio e sul prefetto Parisi, che gli stanno davanti, leva le braccia in alto e urla: “Li avete uccisi voi”. Partono i calci, gli schiaffi, gli sputi. Contro Parisi, Amato e lo stesso Scalfaro, almeno all’inizio bersaglio forse involontario, lui. Tra l’abside e l’alta navata echeggiano cori da brivido. “Assassini”. “Fuori la mafia da qui”. “Venduti”. Dall’altare maggiore qualcuno fa volare uno sgabello. Dai banchi vengono scagliate un paio di bottiglie d’acqua minerale. Poi tutto si chiude con la fuga precipitosa dei tre “condannati”, attraverso un’uscita laterale. E il giorno della rivolta, a Palermo. Dell’insurrezione contro un governo “che e’ stato sempre complice delle cosche”, contro un capo della polizia “che deve lasciare il proprio posto” (ma che in serata ha dichiarato: “Non mi dimetto, sarebbe un atto di vilta’ “) contro uno Stato “che lascia ammazzare i suoi uomini migliori” e che insomma e’ “colpevole”. Parole scritte sull’unico manifesto che un ragazzo e’ riuscito a portare dentro al Duomo e che un funzionario della questura gli strappa subito di mano. Le immagini del presidente della Repubblica che incespica sulla porta mentre si pulisce i pantaloni sporcati dai calci, del segretario generale del Quirinale, Gaetano Gifuni, che si porta il fazzoletto alla bocca dove e’ stato colpito da un pugno, dell’inquilino di Palazzo Chigi che si copre le orecchie per non sentire, del prefetto Parisi con la guancia arrossata per le sberle, queste immagini (sfumate con una prudente dissolvenza dagli obiettivi della tv) sono la rappresentazione della svolta aperta dalla guerra della mafia. La Sicilia e’ stremata, esasperata, rabbiosa. Lo Stato, da qui, rischia ormai di apparire, assieme a Cosa Nostra, come un nuovo nemico: ottocento poliziotti delle scorte e ottomila cittadini che camminano dietro a loro si mettono a sfidare altri poliziotti e carabinieri, oltre ai politici e alle cosiddette “alte cariche”. Funerali a base di incenso e di insulti, di pianti e di ultimatum, mentre si dimettono tutti. Certi giudici della procura e il sindaco l’hanno gia’ fatto; il prefetto della citta’ e il suo collega col rango di capo al Viminale potrebbero farlo nelle prossime ore, magari assieme al procuratore Pietro Giammanco. Per Palermo queste notizie segnano continui soprassalti, nell’attesa del primo funerale di questa settimana. Che comincia alle 15.30, quando sull’altare della cattedrale arabo-normanna si presenta, pallidissimo, il cardinale Salvatore Pappalardo. Lo accoglie un incredibile silenzio, dopo che per piu’ di un ora, prima, qui dentro il gruppo degli agenti delle scorte si era fronteggiato duramente coi colleghi fatti accorrere in massa da diverse citta’ d’Italia. Tanto che sono appunto in quattromila, fra carabinieri, poliziotti e finanzieri, a presidiare chiesa e centro storico, “col compito di tenerci fuori, di cacciarci via”, come gridano gli amici delle vittime abbandonando l’angolo in cui sono relegati. La protesta, con spintoni e minacce, dura meno di mezz’ora, sul sagrato. Poi, all’arrivo dei carri funebri scatta il dietrofront, tornano dentro in massa e a gomitate, e si sistemano ai lati dell’altare. La Messa ha inizio e il vuoto nella fila delle autorita’ viene visto come un oltraggio, dai poliziotti palermitani pronti alla rivolta. “Scalfaro, Amato e Parisi hanno paura, usano la tattica del ritardo per evitare contestazioni”, e’ il messaggio che corre di bocca in bocca. In realta’ la missione dei rappresentanti dello Stato ha subito un paio di pesanti intoppi, che impediscono l’arrivo in orario. Il primo capita nelle strade attorno all’ aeroporto: un sit-in di manifestanti, che blocca il corteo per lunghi minuti. Il secondo e’ colpa del prefetto di Palermo il quale, pensando di migliorare le cose, dirotta le macchine a villa Whitaker: vuole studiare li’, con Scalfaro e Amato, un percorso alternativo per superare alcuni blocchi segnalati dalla questura e la delegazione perde cosi’ altro tempo finche’ proprio Amato decide di ripartire comunque, lungo la strada piu’ semplice e diretta, proseguendo a piedi se sara’ necessario. Cosi’, quando il gruppo prende finalmente posto sui banchi, l’omelia dell’arcivescovo e’ alle ultime battute. Battute amare, una requisitoria religiosa, con un invito che rievoca la parabola evangelica di Lazzaro: “Dico a te, Palermo: alzati! Non adagiarti nel fatalismo! Non rassegnarti alla sconfitta!”. Un lungo applauso. Scalfaro, invitato dall’ ex giudice Ayala, si avvicina ai parenti delle vittime e mormora loro poche parole di solidarieta’. Agli agenti delle scorte che gli chiedono un colloquio attraverso Ayala, manda a dire: “Non oggi, non qui. Li invitero’ al Quirinale”. Sull’affollatissimo altare adesso compare Rosaria Costa, vedova dell’agente Schifani ammazzato con Giovanni Falcone, quella che aveva detto ai mafiosi di inginocchiarsi se volevano essere perdonati. Si aggrappa alla manica del cardinale. Gli mormora: “E dillo, che quelli devono andare all’inferno! Dillo!”. “Ma tu li hai gia’ perdonati, li hai invitati a pentirsi”. “No, non si pentono, quelli… non si pentono”. Il dialogo e’ amplificato dai microfoni, e scattano altri applausi. Poi tutto si chiude con la benedizione, la musica d’organo, i pianti, le grida, la rissa.
Il sostituto Vittorio Teresi ha qualcosa da dire riguardo alle inefficienze dell’apparato di sicurezza: “Chi dice che l’attentato a Borsellino era imprevedibile dice il falso. Non ci voleva molto a capire che Via D’Amelio era ad alto rischio, al n° 68 era stato scoperto un covo dei Madonia. Bastava questo per proteggere la zona dove viveva la madre del giudice. Non l’hanno fatto, l’hanno lasciato morire così: ecco perché chiediamo le dimissioni del ministro degli interni, del capo della polizia, del prefetto, del questore di Palermo. Erano loro a dover garantire la sorveglianza e la sicurezza di Borsellino. Hanno fallito ed adesso vanno cacciati via.” [121]
Fiammetta Borsellino apprende la notizia della morte del padre in serata al ritorno da un´escursione a Bali in Indonesia dove si e´ recata in viaggio insieme ad amici di famiglia: il ginecologo Alfio Lo Presti, la moglie Donatella Falzone, i figli Giorgia e Salvatore, compagni inseparabili di Fiammetta. Dall’albergo Kuta Beach Fiammetta chiama l’Italia: “Questo e’ un posto meraviglioso, io mi sto divertendo moltissimo. Mamma e papa’ come stanno?”. Dall’altro capo del telefono una voce rotta dal pianto ha risposto: “Fiammetta, devi tornare subito. E’ accaduto un fatto terribile…”. Non c’e’ stato bisogno di dire altro. La figlia di Borsellino ha capito. Fiammetta si e’ messa in contatto con l’ambasciatore italiano a Giakarta. Il tempo di fare in fretta le valigie, poi via di corsa verso l’aeroporto di Denpasar per prendere il primo aereo.
Mercoledì 22 luglio 1992 In un servizio del GR3 RAI a cura di Arcangelo Ferri vengono riportate le testimonianze di un agente del nucleo scorte di Palermo e di Vincenzo Parisi in merito all´incontro avuto dal magistrato con il capo della polizia venerdí 17 luglio a Roma. Tema dell´incontro fu il rafforzamento della scorta di Borsellino:
Un agente del nucleo scorte di Palermo (A): “Venerdí (17 luglio, ndr) Borsellino e´andato a Roma ed ha parlato con il capo della pollizia, con Parisi, e gli ha detto che degli agenti di Palermo, comprendendo che lui era in pericolo immediato di vita, avevano dato la loro professionalitá e disponibilitá 24 ore su 24 con compiti di super-scorta e desideravano soltanto essere armati ed avere il via per l´operazione. Parisi non ha detto nulla di questo e sta ignorando questa richiesta di Borsellino che aveva chiesto “Fatemi lavorare con questi ragazzi”… Capivano (i ragazzi, ndr) che era (Borsellino, ndr) in grosso pericolo ed i ragazzi che lavoravano soltanto alla scorta ordinaria non erano capaci a proteggerlo, perché si protegge una persona con tanti altri mezzi, non soltanto accompagnandolo. Bisogna avere una copertura totale sull´obiettivo militare, non soltanto lavorando con la scorta con la macchina.
- Arcangelo Ferri (F): “E quanti erano che hanno chiesto questo?”
- A: “Dieci agenti”.
- F: “Ci sono anche i morti fra questi?”
- A: “No, non ci sono i morti. Sono tutti ragazzi vivi che possono testimoniare perché adesso qualcuno deve pagare ed é giunto il momento di pagare. Perché non si puó uccidere altra gente, perché noi a Palermo abbiamo un questore ed un prefetto che non sanno fare il loro lavoro”.
- F: “Che risposta é stata data a questi ragazzi?”
- A: “Vedremo”.
Intervista di Arcangelo Ferri al capo della polizia Vincenzo Parisi Arcangelo Ferri
- (F): “Prefetto Parisi, é vero quanto afferma questo agente?”
- Vincenzo Parisi (P): “Ma. Guardi, io devo dire che la circostanza secondo me é inesatta. Deve esserci stato un malinteso. Io ho visto venerdí il giudice Borsellino ma non mi ha assolutamente accennato a questo particolare, proprio niente. Anzi non ha nemmeno parlato particolarmente della sua sicurezza, non ha affrontato questo tema. Era consapevole del pericolo che affrontava molto serenamente, rendendosi anche conto della relativa affidabilitá di qualunque dispositivo di sicurezza. Nessun dispositivo di sicurezza assicura in totale, garantisce in totale la certezza di poter sfuggire ad attentati. L´unica cosa di cui era preoccupato era di rincorrere le ore ed i minuti per le sue indagini importantissime”.
- F: “Scriveva il giudice Falcone che si muore perché si cade nella routine, si violano le norme che dovrebbero essere invece sempre strettamente osservate”.
- P: “Il giudice Borsellino ha fatto il meglio che si potesse fare. Certamente é uno degli uomini che restano dentro quando uno ha avuto il piacere di conoscerli, di sui ci si innamora. E quindi parlare di questo é assolutamente… la scorta lavorava con molto impegno. Naturalmente fatti di quel genere non sono facilmente prevedibili a meno che non giunga la cosiddetta soffiata dall´ambiente che ti faccia prevenire l´attentato con i mezzi giusti al momento giusto”.[133]
Otto sostituti della direzione distrettuale antimafia di Palermo rassegnano le loro dimissioni con una lettera consegnata la sera prima al procuratore Giammanco e resa nota in mattinata. Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi, Ignazio De Francisci, Teresa Principato, Nino Napoli, Nino Ingroia, Giovanni Ilarda ed Alfredo Morvillo scrivono: “Siamo disposti a rischiare, a morire, ma solo a condizione di sentirci partecipi di uno sforzo collettivo destinato, sia pure gradualmente, a raggiungere risultati concreti. E’ necessario che la procura di Palermo recuperi quell’unità di intenti, quello spirito di collaborazione che oggi appaiono gravemente compromessi. E lo dimostrano l’esistenza di divergenze, se non di spaccature, divenute ormai financo di dominio pubblico dopo la strage di Capaci, acuite dopo l’attentato di Via D’Amelio. Divergenze e spaccature che solo una guida autorevole ed indiscussa potrebbe sanare”. La lettera chiama poi in causa “i vertici politico-istituzionali sempre pronti a coprire responsabilità ed inefficienze, ad illudere la pubblica opinione con leggi-manifesto e solenni dichiarazioni d’intenti sistematicamente disattese.” [134]
Al termine dell´incontro tra il ministro degli interni Mancino ed il prefetto Parisi viene emesso un comunicato in cui si spiega che il responsabile del Viminale, d’intesa col presidente del Consiglio, “ha espresso al capo della Polizia, prefetto Parisi, la piena fiducia del governo e lo ha invitato a continuare nell’esercizio delle sue alte funzioni”. E si da’ anche una notizia: “Negli ultimi giorni e martedi’ sera al rientro da Palermo, il prefetto Parisi aveva messo a disposizione del ministro dell’Interno e del governo il suo incarico”. Si specifica dunque che il capo della polizia Parisi non aveva mai dato le sue dimissioni ma solo “messo a disposizione” il suo incarico.[137]
Giovedí 23 luglio 1992 Fiammetta Borsellino atterra nella notte all´aereoporto di Francoforte di ritorno da Giakarta in Indonesia. Poi si imbarca su un aereo messo a disposizione dalla presidenza del consiglio e rientra a Palermo alle cinque di mattina.
l Secolo XIX dá notizia dell´informativa del Ros dei carabinieri di Milano del 16 luglio 1992 in cui si affermava che Paolo Borsellino ed Antonio di Pietro potevano essere gli obiettivi di un attentato. Curiosamente la notizia su queste minacce filtra sulla stampa in un modo alquanto strano: viene infatti pubblicata sul Secolo XIX insieme ad altre due notizie false: un presunto incontro di Falcone e Di Pietro prima della strage di Capaci (incontro subito smentito dallo stesso Di Pietro e dal Procuratore Borrelli) ed alcune indiscrezioni sulla possibile collaborazione del boss Tanino Fidanzati. Anche questa notizia si rileverà un falso, mentre il rapporto dei ROS verrà confermato.
L´Osservatore Romano pubblica un´intervista di Massimo Carrara a Manfredi, figlio di Paolo Borsellino, che verrá rilanciata dal Corriere della Sera il giorno successivo. Nell´articolo de L´Osservatore l´autore dell´intervista afferma che il magistrato era vicino all´individuazione degli assassini di Giovanni Falcone: “Ad alcuni amici aveva confidato (Paolo Borsellino, ndr), pochi giorni prima di cadere nell’agguato di via d’Amelio: “Se Dio mi aiuta, forse non sono lontano dagli assassini di Giovanni”. Manfredi Borsellino parla di “morte annunciata”. Dice infatti al giornalista de L´Osservatore: “Del resto, la morte di mio padre e’ stata forse quella piu’ annunciata. Era nel mirino, molto esposto. Troppe interviste, troppe chiacchiere sulla sua ipotetica successione a Falcone come candidato alla Superprocura… Negli ultimi tempi sembra che mio padre fosse costretto a esporsi ancor piu’ di quanto non facesse prima. Troppa pubblicita’ per lui che, piuttosto schivo, avrebbe voluto far parlare solo i fatti”. Manfredi si sofferma poi sulla profonda fede cristiana che il padre ha trasmesso alla famiglia: “Forse lei si stupira’ nel vederci cosi’ apparentemente calmi ma noi siamo cristiani e sappiamo bene che la morte e’ soltanto un passaggio della nostra esistenza. E questa convinzione che ci ha dato e ci da’ la forza di affrontare il vuoto della disperazione. Mio padre e’ caduto per i valori in cui credeva fermamente, e che ci ha trasmesso. Se sei coerente con la tua fede, la morte per gli ideali che professi non puo’ che essere un ritorno alla vita… L’ unica cosa sicura e’ che mio padre e’ in Paradiso. Io non spero, sono certo della giustizia divina… Quanto alla giustizia terrena, non ci saranno persone uguali a Paolo Borsellino. Pero’ mi auguro che ve ne siano di simili”. E a proposito di funerali, dice Manfredi: “Il giorno di Falcone papa’ rimase profondamente scosso dal chiasso, dalle urla, dall’atmosfera nella quale si celebrava un rito per dei defunti. Mio padre dovra’ essere sepolto con la dignita’ e la serenita’ che lui ha sempre avuto e che ci ha insegnato”. Chi era Paolo Borsellino per il suo Manfredi? “Oltre a una grande umanita’ , aveva la capacita’ di immedesimarsi nell’ interlocutore, anche di un mafioso, riusciva a capire, a interpretare, a comunicare. Aveva il polso della Sicilia, conosceva per esperienza diretta le situazioni locali… Mio padre e’ stato per noi una persona meravigliosa, un uomo sano, splendido e squisito, in famiglia e ovunque”. [145]
Il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco si mette in malattia e non si presenta in ufficio. Il magistrato sarebbe affetto da coliche ed attacchi di ulcera.[146]
Il Csm avvia un’ indagine conoscitiva affidata al “gruppo di lavoro per i provvedimenti di competenza del Csm sulle regioni ad alto tasso di criminalita’ organizzata”, cioe’ il vecchio comitato antimafia, per cercare di fare chiarezza sulla situazione degli uffici giudiziari palermitani. Entro il 4 agosto, l’organismo dovra’ riferire le sue conclusioni alla prima commissione che valutera’ se aprire o meno un’inchiesta vera e propria. Ad uno ad uno, dal Procuratore generale della Corte d’appello Bruno Siclari, al Procuratore capo Pietro Giammanco fino ai sostituti, tutti saranno ascoltati a Palazzo dei Merescialli tra martedì e giovedì della prossima settimana. C’e’ un esposto che formalmente motiva l’apertura dell’indagine, una paginetta di resoconto, inviato al comitato di presidenza del Csm, il 3 luglio scorso, dal consigliere “verde” Antonio Condorelli. In allegato, le fotocopie di due articoli di giornale con stralci dei diari del magistrato assassinato a Capaci. Falcone spiegava perche’ aveva abbandonato Palermo: per i contrasti con il Procuratore Giammanco di cui era il vice.[147]
Al senato inizia in mattinata la discussione sul decreto antimafia sul quale il governo ha deciso di chiedere la fiducia. In aula interviene il ministro di grazia e giustizia Claudio Martelli: “Cattureremo i latitanti, processeremo mandanti ed esecutori, smaschereremo i complici, puniremo i collusi e i corrotti, proteggeremo i testimoni, premieremo i pentiti e manterremo gli irriducibili in carceri dure e afflittive senza sconti, senza attenuazioni di pena. Sequestreremo le ricchezze dei mafiosi, scopriremo i loro conti cifrati e i santuari del riciclaggio, spegneremo le aspettative di potere, di ricchezza, di impunita violenza”… lo Stato “non lascera’ altra speranza che la diserzione, la fuga, la resa dell’esercito mafioso per tutto il tempo necessario finche’ non si inginocchiera´, non confessera’ i suoi delitti e non chiedera’ perdono alle sue vittime… chiediamo a Palermo e alla Sicilia di stringersi intorno ai suoi eroi e ai suoi martiri, ai poveri agenti massacrati, ai giudici Falcone e Borsellino, al loro esempio, alla prova del loro coraggio. Chiediamo di scuotere inerzia e incuria dei pubblici poteri, di scuotere lo Stato, ma soprattutto di ribellarsi al cancro che e’ dentro la loro societa’, di non farsi intimidire e prostituire dalla paura e anche nella paura di chiamare lo Stato, di farsi aiutare e proteggere, di dire, di gridare il nome e il cognome di chi ricatta, di chi minaccia, di chi uccide, di chi corrompe, di chi traffica… La vita pubblica non e’ fatta di scatti di carriera, di sinecure, di privilegi, di immobili garanzie, la vita e la responsabilita’ pubblica esigono qualcosa di piu’ della responsabilita’ individuale cui e’ tenuto il cittadino. Il funzionario pubblico, il servitore dello Stato e’ responsabile verso la gente e della gente, responsabile delle liberta’ e della sicurezza di tutti”. Successivamente interviene in aula iil ministro degli interni Nicola Mancino che sembra voler rispondere a Martelli: “Non generalizziamo pero’ le accuse coinvolgendo tutti, ministri da poco in carica e gia’ patentati di incapacita’, governo nella sua collegialita’, capo della polizia e via via tutti i vertici dell’ordine pubblico: cosi’ comportandoci, faremo solo il gioco della mafia, oggi piu’ che mai attenta a dividere, ad approfondire il solco fra i poteri statali”. Sempre in giornata il governo boccia, per le violente reazioni critiche da esso suscitate, un emendamento al decreto antimafia che era stato proposto dal senatore Psi Franco Castiglione e approvato in mattinata dalla commissione Giustizia del Senato: esso mirava a punire severamente (con pene fino a tre anni di reclusione) la violazione del segreto istruttorio mediante la pubblicazione di notizie relative a procedimenti e inchieste.[148]
Venerdì 24 luglio 1992 Si svolgono in forma privata i funerali di Paolo Borsellino presso la chiesa di Santa Maria di Marillac a Palermo. Gli unici rappresentanti delle Istituzioni ai quali la famiglia estende l´invito a partecipare alla funzione sono il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il ministro della giustizia Claudio Martelli, il capo della polizia Vincenzo Parisi ed il segretario del Msi Gianfranco Fini. Il funerale si chiude con la preghiera laica di Antonino Caponnetto:
Queste sono le parole di un vecchio ex magistrato che e’ venuto nello spazio di due mesi due volte a Palermo con il cuore a pezzi a portare l’ultimo saluto ai suoi figli, fratelli e amici con i quali ho diviso anni di lavoro di sacrificio di gioia, anche di amarezza. Soltanto poche parole per un ricordo, per un doveroso atto di contrizione che poi vi diro’ e per una preghiera laica ma fervente. Il ricordo e’ per l’amico Paolo, per la sua generosita’, per la sua umanita’, per il coraggio con cui ha affrontato la vita e con cui e’ andato incontro alla morte annunciata, per la sua radicata fede cattolica, per il suo amore immenso portato alla famiglia e agli amici tutti. Era un dono naturale che Paolo aveva, di spargere attorno a se’ amore. Mi ricordo ancora il suo appassionato e incessante lavoro, divenuto frenetico negli ultimi tempi, quasi che egli sentisse incombere la fine. Ognuno di noi e non solo lo Stato gli e’ debitore; ad ognuno di noi egli ha donato qualcosa di prezioso e di raro che tutti conserveremo in fondo al cuore, e a me in particolare mancheranno terribilmente quelle sue telefonate che invariabilmente concludeva con le parole: “Ti voglio bene Antonio” ed io replicavo “Anche io ti voglio bene Paolo”. C’e’ un altro peso che ancora mi opprime ed e’ il rimorso per quell’attimo di sconforto e di debolezza da cui sono stato colto dopo avere posato l’ultimo bacio sul viso ormai gelido, ma ancora sereno, di Paolo. Nessuno di noi, e io meno di chiunque altro, puo’ dire che ormai tutto e’ finito. Pensavo in quel momento di desistere dalla lotta contro la delinquenza mafiosa, mi sembrava che con la morte dell’amico fraterno tutto fosse finito. Ma in un momento simile, in un momento come questo coltivare un pensiero del genere, e me ne sono subito convinto, equivale a tradire la memoria di Paolo come pure quella di Giovanni e di Francesca. In questi pochi giorni di dolore trascorsi a Palermo che io vi confesso non vorrei lasciare piu’, ho sentito in gran parte della popolazione la voglia di liberarsi da questa barbara e sanguinosa oppressione che ne cancella i diritti piu’ elementari e ne vanifica la speranza di rinascita. E da qui nasce la mia preghiera dicevo laica ma fervente e la rivolgo a te, presidente, che da tanto tempo mi onori della tua amicizia, che e’ stata sempre ricambiata con ammirazione infinita. La gente di Palermo e dell’intera Sicilia, ti ama presidente, ti rispetta, e soprattutto ha fiducia nella tua saggezza e nella tua fermezza. Paolo e’ morto servendo lo Stato in cui credeva cosi’ come prima di lui Giovanni e Francesca. Ma ora questo stesso Stato che essi hanno servito fino al sacrificio, deve dimostrare di essere veramente presente in tutte le sue articolazioni, sia con la sua forza sia con i suoi servizi. E’ giunto il tempo, mi sembra, delle grandi decisioni e delle scelte di fondo, non e’ piu’ l’ora delle collusioni degli attendismi dei compromessi e delle furberie, e dovranno essere, presidente, dovranno essere uomini credibili, onesti, dai politici ai magistrati, a gestire con le tue illuminate direttive questa fase necessaria di rinascita morale: e’ questo a mio avviso il primo e fondamentale problema preliminare ad una vera e decisa lotta alla barbarie mafiosa. Io ho apprezzato le tue parole, noi tutti le abbiamo apprezzate, le tue parole molto ferme al Csm dove hai parlato di una nuova rinascita che e’ quella che noi tutti aspettiamo, e laddove anche con la fermezza che ti conosco hai giustamente condannato, censurato, quegli errori che hanno condotto martedi’ pomeriggio a disordini che altrimenti non sarebbero accaduti perche’ nessuno voleva che accadessero. Solo cosi’ attraverso questa rigenerazione collettiva, questa rinascita morale, non resteranno inutili i sacrifici di Giovanni, di Francesca, di Paolo e di otto agenti di servizio. Anche a quegli agenti che hanno seguito i loro protetti fino alla morte va il nostro pensiero, la nostra riconoscenza, il nostro tributo di ammirazione. Tra i tanti fiori che ho visto in questi giorni lasciati da persone che spesso non firmavano nemmeno il biglietto come e’ stato in questo caso, ho visto un bellissimo lilium, splendido fiore il lilium, e sotto c’erano queste poche parole senza firma: “Un solo grande fiore per un solo grande uomo solo”. Mi ha colpito, presidente, questa frase che mi e’ rimasta nel cuore e credo che mi rimarra’ per sempre. Ma io vorrei dire a questo grande uomo, diletto amico, che non e’ solo, che accanto a lui batte il cuore di tutta Palermo, batte il cuore dei familiari, degli amici, di tutta la Nazione. Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto fino al sacrificio dovra’ diventare e diventera’ la lotta di ciascuno di noi, questa e’ una promessa che ti faccio solenne come un giuramento.[149]
Il senato approva definitivamente il testo del decreto antimafia presentato dal governo. Il testo del provvedimento, modificato, e’ approvato con 163 voti favorevoli e 106 contrari. Sul piano politico va registrato il “si” del Pri, che rimarca, pero’, come il consenso sia al provvedimento e non al governo. I parlamentari del Pds, invece, non se la sono sentita di votare “si” con la sola eccezione del senatore Greco. Ecco i punti salienti:
1) TEMPI DELLE INDAGINI. Quando si procede per i piu’ gravi delitti di criminalita’ organizzata (ma anche per alcuni gravi delitti comuni) il termine normale delle indagini e’ aumentato ad un anno, e la durata complessiva delle stesse puo’ estendersi sino a due anni in forza di successive proroghe, che nel caso dei delitti di mafia vengono autorizzate dal giudice senza contraddittorio. In tali procedimenti, inoltre, non opera la sospensione feriale dei termini relativi alle indagini preliminari.
2) INTERCETTAZIONI AMBIENTALI. Sempre nei procedimenti di criminalita’ organizzata le intercettazioni domiciliari di dialoghi tra persone presenti sono ammesse anche al di fuori della flagranza della attivita’ delittuosa, e le medesime intercettazioni possono essere altresi’ disposte al solo scopo di agevolare le ricerche dei latitanti, quando si tratti di delitti di mafia.
3) ARRESTI E PERQUISIZIONI. E’ stabilito l’obbligo dell’arresto in flagranza in tutte le ipotesi di associazione di tipo mafioso (con notevoli riflessi anche sulle regole di utilizzabilita’ delle intercettazioni telefoniche), ed e’ stato inoltre ripristinato il potere degli organi di polizia di procedere a perquisizioni di interi edifici o blocchi di edifici, quando si tratti di sequestrarvi armi od esplosivi, ovvero di ricercarvi latitanti od evasi in relazione a delitti di mafia.
4) INFILTRAZIONI DI POLIZIA. Al fine di favorire la possibilita’ di infiltrazioni nelle organizzazioni criminali, e’ esclusa la punibilita’ degli ufficiali di polizia che, per esigenze investigative, si intromettano in attivita’ di ricettazione di armi, di riciclaggio ovvero di reimpiego di denaro o di altri beni di provenienza illecita, ed in ipotesi del genere e’ previsto il differimento dei provvedimenti di sequestro fino alla conclusione delle indagini.
5) PROVE DI ALTRI PROCEDIMENTI. E’ di regola consentita l’acquisizione delle prove (oltreche’ delle sentenze irrevocabili) provenienti da altri procedimenti, salvo il diritto delle parti di ottenere una nuova assunzione della stessa prova, se utili e rilevanti; ma nei procedimenti per delitti di mafia il nuovo esame dei testimoni o dei coimputati “pentiti” e’ ammesso solo quando sia ritenuto dal giudice “assolutamente necessario”. Lo scopo e’ quello di evitare il pericolo della intimidazione o, comunque, della usura di tali fonti di prova, come era stato ripetutamente sottolineato anche da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino.
6) DICHIARAZIONI RESE AL PM. Le dichiarazioni rese dai testimoni alla polizia o al Pubblico ministero, ma non confermate in dibattimento, nemmeno a seguito di contestazioni, possono valere come prova soltanto se corroborate da altri elementi probatori di riscontro. Esse, invece, acquistano di per se’ valore di prova piena quando il giudice (come accade spesso nei processi di criminalita’ organizzata) si convinca che il testimone e’ stato successivamente intimidito con violenze o minacce, o che altre analoghe situazioni ne hanno compromesso la genuinita’.
7) ESAMI A DISTANZA. Quando occorra esaminare dei collaboratori della giustizia sottoposti a misure di protezione, in apporto ai processi per i piu’ gravi delitti, e’ previsto che la loro audizione dibattimentale possa svolgersi a distanza, nei luoghi dove si trovano, a mezzo di collegamento audiovisivo. E lo stesso vale anche per le persone gia’ esaminate in altri procedimenti, allorche’ ne sia stato disposto un nuovo esame.[150]
Il governo dá il via all’operazione Vespri Siciliani con la quale 7000 militari dell’esercito sbarcano in Sicilia per proteggere obiettivi a rischio ed alleggerire le forze dell’ordine dai controlli di routine. I soldati saranno scelti tra corpi specializzati come la “Folgore”, la “Friuli” e la “Aosta”, ma soprattutto saranno dotati delle prerogative di agenti di pubblica sicurezza. I militari, in sostanza, non potranno compiere indagini. Sara‘, invece, confermato e rafforzato, cosi’ come da tempo proposto dal ministro della difesa, Salvo’ Ando, il compito di affiancare le forze dell’ordine nel controllo del territorio.[151]
Il Corriere della Sera rilancia la notizia data dal Secolo XIX il giorno precedente su un´informativa del 16 luglio 1992 del Ros dei carabinieri di Milano su un possibile attentato ai danni di Paolo Borsellino e Antonio di Pietro ed aggiunge alcuni particolari:
Borsellino e Di Pietro: due giudici diversi, due strategie diverse. Due strade che, alla fine, potevano confluire su un solo obiettivo: Cosa Nostra. Dopo la morte di Falcone, Paolo Borsellino era l’ultima memoria storica dell’antimafia: e, che andasse o no alla Superprocura, restava uno degli avversari principali dell’onorata societa’. Antonio Di Pietro, invece, e’ partito dalla corruzione, dagli affari fra politici e imprenditori. Poi, pero’, potrebbe aver toccato una parte del sistema molto vicina agli interessi mafiosi. Forse era arrivato agli investimenti al Nord del denaro sporco di droga e di sangue. Due nemici, insomma. E Cosa Nostra ha deciso di eliminarli entrambi. Cosi’ dice un’informativa dei carabinieri del Ros (Raggruppamento operativo speciale) di Milano. Un’informativa datata 16 luglio e fondata su indiscrezioni raccolte nel mondo della malavita comune. Quanto siano attendibili queste indiscrezioni, nessuno puo’ dirlo. Ma sta di fatto che tre giorni dopo, il 19 luglio, Borsellino e’ stato massacrato insieme con la sua scorta. E il documento che il Ros aveva prontamente inviato alle Procure di Palermo e di Milano e’ diventato terribilmente credibile. Anche Di Pietro, dunque, e’ nel mirino della mafia? L’ informativa dei carabinieri e’ stata tirata fuori ieri da un cronista del quotidiano genovese Il Secolo XIX, Manlio Di Salvo, e il procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli non ha smentito lo scoop, di fatto confermandolo. L’informativa dunque c’e’, anche se Borrelli ha voluto contestare alcune interpretazioni del Secolo XIX. L’informativa c’e’ e racconta, in quattro paginette, che Borsellino e Di Pietro stanno arrivando entrambi, sia pure per strade diverse, all’alta mafia. Il giudice milanese sarebbe sul punto di svelare i rapporti fra alcuni politici e Cosa Nostra al Nord. Si parla di un’azienda gestita a Milano da giovani siciliani imparentati con Toto’ Riina. E di un politico, sia pure di basso profilo, legato pero’ a un big. Si accenna anche alla famiglia Fidanzati. Nomi grossi. Toto’ Riina, latitante da un paio di decenni, e’ uno dei due luogotenenti storici di Luciano Liggio. L’altro e’ Bernardo Provenzano, anche lui latitante, anche lui – come Riina – di Corleone. Secondo tutti i grandi pentiti – Antonino Calderone, Salvatore Contorno, Francesco Marino Mannoia, Tommaso Buscetta – Riina e Provenzano sono i veri reggenti di Cosa Nostra dall’inizio degli anni Ottanta. Dopo lo sterminio dei clan Inzerillo e Bontade, i due luogotenenti di Liggio hanno trasformato in dittatura il governo della Cupola, che fino ad allora era stato contrassegnato – se si puo’ usare un termine del genere – da una certa democrazia: nel senso che ogni “famiglia” aveva un suo rappresentante in grado di partecipare alle grandi decisioni. All’inizio degli anni Ottanta si verifica un fatto unico nella storia di Cosa Nostra: una famiglia e’ presente nella Cupola con ben due rappresentanti, che sono appunto Riina e Provenzano. Anche Fidanzati e’ un marchio doc. Il capofamiglia, Gaetano Fidanzati, e’ stato il boss dell’ Arenella di Palermo, la zona sotto la cui “giurisdizione” cade anche l’Addaura, dove Cosa Nostra organizzo’ nell’ 89 il primo attentato contro Falcone. Don Tanino, condannato a tre anni di reclusione in Argentina e a dodici al maxi-processo di Palermo, era detenuto a Buenos Aires fino a poco tempo fa. Quattro giorni dopo la morte di Falcone ha firmato una rinuncia al ricorso contro l’estradizione: in pratica, ha accettato la galera pur di tornare in Italia. Perche’? Qualcuno ha ipotizzato un suo pentimento. Ma sembra fuori strada. Nei giorni scorsi Fidanzati e’ venuto in Italia per testimoniare al processo “Fior di loto”, una storia di narcotraffico e riciclaggio: ma ai giudici ha offerto solo una serie di “non so” e “non ricordo”. E alla fine dell’udienza si e’ lamentato per lo strettissimo isolamento in cui e’ stato tenuto: sperava di poter comunicare con amici e parenti. Cosa c’entri il clan Fidanzati nella storia del possibile attentato a Di Pietro non e’ ben chiaro. Ma nell’informativa si fa riferimento alla scoperta, nel giugno scorso, in provincia di Bergamo, di una raffineria di cocaina gestita proprio dai Fidanzati. Un’inchiesta in cui Di Pietro non e’ intervenuto. Ma puo’ darsi che il giudice anti-tangenti si sia imbattuto in qualche collegamento. Dall’informativa non si capisce chi, all’interno di Cosa Nostra, avrebbe deciso la morte di Di Pietro. Sembra difficile attribuire la paternita’ della condanna al clan Fidanzati, che in questo momento si trova, praticamente al completo, in galera. Il procuratore Borrelli ha fatto girare nel pomeriggio un comunicato con cui non smentisce l’esistenza dell’informativa e i timori per Di Pietro, ma nega due particolari di scarso rilievo (“Di Pietro non ha incontrato Falcone e non ha mai indagato su Fidanzati”) e assicura che non c’e’ “alcun legame tra l’ inchiesta in corso e fatti di mafia”. Ma lunedi’ proprio Borrelli, parlando della strage di Palermo, aveva detto che “l’azione intrapresa dalla magistratura a Milano, attraverso la purificazione e la pulizia nella pubblica amministrazione, puo’ minacciare molto da vicino il mondo dell’affarismo mafioso”. La tensione, a palazzo, e’ palpabile. Lo stesso comunicato di Borrelli ha avuto un parto travagliato: Di Pietro ne aveva preparato un altro, che il procuratore capo ha bocciato. Cosa voleva far sapere il giudice anti-tangenti? Il clima e’ pesante. I magistrati cercano una talpa perche’ temono che da palazzo escano notizie che scottano: informazioni sugli arresti da eseguire o sui movimenti dei giudici? Si e’ partiti da una mazzetta da sette milioni, ora siamo al tritolo.[152] Dopo che la stampa ha dato notizia del rapporto riservato, interviene da Roma il colonnello Subranni, comandante dei Ros, per spiegare che per quel che riguarda il PM Antonio Di Pietro l’informativa “non e’ considerata allarmante”. In un comunicato diffuso attraverso l’agenzia Ansa, i vertici del reparto speciale dell’Arma fanno sapere: “Le notizie raccolte non da un pentito, come alcuni giornali hanno riportato, ma da un informatore, a Milano, erano estremamente generiche. Non si indicava ne’ come, ne’ dove, ne’ quando gli attentati avrebbero potuto essere fatti. Per quel che riguarda la minaccia al giudice milanese, l’informatore riferiva, piu’ che fatti, un’analisi in base alla quale l’inchiesta sulle tangenti rappresentava un danno per gli interessi di Cosa Nostra, poiche’ ha indotto un rallentamento in determinate attivita’ economiche. Sulla base di informazioni di quel tipo non sono possibili altre precauzioni che non verificare l’adeguatezza della protezione fornita a persone che, nel caso dei due giudici, erano considerate anche prima in pericolo”.[153]Anche Carla Dal Ponte, procuratrice del Canton Ticino, e’ nel mirino. Ma non per la vicenda delle tangenti, nella quale collabora con Di Pietro. La giudice sarebbe stata minacciata da Cosa Nostra. Lo rivela il quotidiano svizzero “Le Matin”, secondo il quale le minacce proverrebbero dal clan Madonia, che controlla il traffico di droga colombiana in Europa. Le minacce sarebbero collegate all’indagine che la Dal Ponte sta svolgendo su Giuseppe Lottusi, il cassiere della mafia e del cartello di Medellin. Secondo il giornale, Lottusi, attualmente detenuto a Milano, controllava a Chiasso, nel Canton Ticino, la societa’ Fimo per riciclare il denaro sporco proveniente da Palermo. Il punto debole della mafia sarebbe infatti proprio il riciclaggio e, secondo il quotidiano svizzero, la voce che Lottusi avrebbe confessato ha seminato il panico nelle file di Cosa Nostra. E questo, aggiunge “Le Matin”, giustifica il timore di Carla Dal Ponte di recarsi in Italia. Le minacce sono state confermate dal procuratore generale Piergiorgio Mordasini che ha dichiarato: “Le intimidazioni non ci fermeranno”.[154]
Ancora il Corriere della Sera rilancia alcune dichiarazioni rilasciate da Manfredi Borsellino al quotidiano La Stampa in merito a fughe di notizie riguardanti l´attivita´ investigativa del padre, Paolo Borsellino: troppa gente sapeva, e scriveva quello che non doveva sapere o scrivere, “chi le ha date queste notizie ai giornali, come sono uscite? Chi e’ stato?” [155]
Vito Ciacimino si mostra in serata a passeggio per le vie del centro di Roma: in un impeccabile vestito blu, accompagnato da una signora di circa quarant’ anni, dopo una breve passeggiata nell’affollata piazza Navona, Vito Ciancimino qualche minuto dopo la mezzanotte ha deciso di concedersi un gelato. Pensava di passare inosservato. Ma quando ha raggiunto uno dei bar che si affacciano sulla Piazza e’ stato riconosciuto. Qualche minuto di sorpresa e di imbarazzo. Poi, da un tavolo all’altro, e’ corso l’interrogativo: “Ma come, e’ libero?”. Prima un borbottio generale, poi frasi di insofferenza e battute ad alta voce. Infine, da un tavolo affollato di giovani, si e’ levata una scandalizzata protesta, seguita dall´immediato abbandono del tavolo. Don Vito, imperturbabile, ha ordinato la consumazione, senza dar peso a quello che succedeva attorno a lui. Cosi’ vuole la legge. L’ ex sindaco di Palermo e’ in attesa del giudizio della Cassazione. [156]
Ignazio Sanna, 37 anni, metronotte dell’istituto privato di vigilanza “Citta’ di Palermo”, viene arrestato per favoreggiamento. Sarebbe caduto in numerose contraddizioni, mostrandosi reticente sulle “sequenze” dell’eccidio di via D´Amelio. Attraverso le telecamere a circuito chiuso Sanna avrebbe potuto osservare gli artificieri della mafia al lavoro. Uno degli occhi elettronici che controllano l’esterno e’ infatti puntato su via d’Amelio. Ma non basta: un testimone ha raccontato di aver visto, subito dopo l’esplosione, un uomo con una pistola in mano che fuggiva proprio davanti allo scivolo posteriore dell’esattoria comunale. Invece il metronotte ha continuato a ripetere di non aver visto nulla. La sua posizione e’ ora al vaglio del Gip, che dovra’ decidere entro dopodomani se convalidare l’arresto.[157]
Sabato 25 luglio 1992 Il Corriere della Sera pubblica un´intervista al capo dell´ufficio Istruzione negli anni ottanta, Antonino Caponnetto che dá la notizia della scomparsa dalla borsa di Paolo Borsellino dell´agenda rossa dalla quale il magistrato non si separava mai:
- Andrea Purgatori (P): “Cosa ne pensa Antonino Caponnetto della decisione degli otto sostituti procuratori che si sono dimessi dalla Direzione antimafia?”
- Andrea Purgatori (P): “Cosa ne pensa Antonino Caponnetto della decisione degli otto sostituti procuratori che si sono dimessi dalla Direzione antimafia?” Antonino Caponnetto
- (C): “Un passo avanti rispetto a quello che pensavo. La sera prima ero andato a cena con una collega: le avevo esposto la situazione in termini ancora piu’ preoccupanti. Lo stesso De Francisci, uno di loro, si era confidato parecchie volte piangendo con me. Era distrutto, combattuto, preoccupato. Non sapeva che decisione prendere. E invece stamattina gli ho visto negli occhi che s’era come liberato d’un peso. Proprio non speravo che si coagulasse questo primo gruppo, questo primo nucleo con la voglia di cambiare qualcosa”.
- P: “La prossima settimana andranno tutti e otto a Roma, per essere ascoltati dal Comitato antimafia del Csm.”
- C: Io so che alcuni hanno cose molto delicate da riferire. Lo dicevo stamane anche al presidente Scalfaro. Perche’ non ci dimentichiamo che e’ anche il presidente del Consiglio superiore della magistratura e questo mi da’ un senso di fiducia. Certo, le esperienze passate non inducono all’ottimismo, ma credo che anche all’interno del Consiglio voglia cambiare qualcosa. Spero proprio che il Csm non perda quest’altra occasione storica. Ne ha gia’ perse tante…”.
- P: “Quali per esempio?”
- C: “Basta risalire al 20 gennaio 1988. Quella notte in cui per succedermi alla guida dell’Ufficio istruzione fu scelto Meli anziche’ Falcone. Quella e’ una vera colpa storica”.
- P: “E poi?”
- C: “Quando esaminarono il contrasto tra Meli e Falcone e diedero, come si dice, un colpo al cerchio e uno alla botte. Eludendo le aspettative di Falcone, che era un candido e pensava di vedere il Csm schierato al suo fianco”.
- P: “Cosa accadde?”
- C: “Che dopo quella serie di delusioni, Falcone fini’ di lottare. Li’ si apri’ una pagina all’interno della Procura, che Falcone non ha mai voluto amplificare. Mi disse: “Nino, ci sono stati troppi scandali e questo Palazzo di Giustizia non ne potrebbe sopportare un altro”. E fu sempre questo senso di fedelta’ alle istituzioni che lo indusse a firmare quella requisitoria diciamo riduttiva nel processo sui delitti eccellenti”.
- P: “In che senso riduttiva?”
- C: “In particolare, lui era contrario a chiudere l’inchiesta sul delitto di Pio La Torre: avrebbe voluto dar piu’ spazio alle parti civili ma gli fu negato. Ne prese atto con amarezza. Quando arrivo’ la requisitoria sul suo tavolo, senti’ che se avesse rifiutato di firmarla il Palazzo di Giustizia non avrebbe mai resistito allo scandalo: dopo la talpa, dopo il corvo… Allora, contro i suoi convincimenti, firmo’ una requisitoria che non condivideva. Un atto che a un profano potrebbe sembrare almeno strano e che invece rappresento’ il punto piu’ alto e sublime della sua fedelta’ allo Stato. Ma immediatamente dopo lascio’ la Procura”.
- P: “Come era cominciata l’avventura del pool, il suo arrivo a Palermo nel 1983?”
- C: “Con una telefonata che Giovanni mi fece a Firenze, all’ inizio di novembre. Ero stato nominato a capo dell’Ufficio istruzione ma non m’ero trasferito. Mi disse: “Nino, vieni subito. C’e’ bisogno di te”. C’ era il processo contro i 162 che languiva, i fascicoli marcivano. Dunque, arrivai: non conoscevo nessuno. Giovanni mi disse: “Senti, non voglio influenzarti nelle scelte. Ti chiedo solo di ripescare Paolo Borsellino”. Di Paolo non sapevo assolutamente nulla. Solo che dopo l’indagine sull’omicidio di Boris Giuliano era stato messo da parte. Lo presi. Presi anche Di Lello, di cui avevo letto molti interventi, e Guarnotta”.
- P: “In che modo decise di lavorare?”
- C: “Senza concentrare i rischi su una sola persona e cercando di avere una visione globale del fenomeno mafioso. Questa fu la decisione vincente. E per qualche anno riuscimmo a lavorare tutti in uno stato di grazia difficilmente ripetibile nella Procura attuale. E comunque non in queste condizioni”.
- P: “Dov’ e’ piu’ fragile la mafia, dove sta la sua debolezza, dove va colpita?”
- C: “Nella sua consistenza finanziaria. Finche’ non saranno capaci di farlo, la mafia continuera’ ad esistere”.
- P: “C’ e’ anche questa connivenza con la politica. Ci sono politici della mafia che siedono in Parlamento?”
- C: “Non credo abbia dei suoi uomini in Parlamento. Con la politica ha sempre preferito un rapporto collaterale”.
- P: “Che cos’ ha toccato che non doveva toccare Borsellino in questi cinquanta giorni tra la morte di Falcone e la sua?”
- C: “Non lo so, non ne accennava mai. Mi ripeteva sempre: “Nino, di queste cose al telefono non parlo”. Solo una decina di giorni fa, tornando dalla Germania, mi disse: “Sono proprio soddisfatto. Su ho fatto un grosso lavoro, che poi ho completato a Roma”. Ecco, me lo disse con la stessa gioia d’ un ragazzino”.
- P: “Eppure qualcosa ha fatto precipitare tutto, ha accelerato la sua esecuzione”.
- C: “Per forza. Ma non so cosa”.
- P: “Tuttavia c’ e’ chi sa “cosa””.
- C: “Certo che c’ e’ chi sa”.
- P: “Allora c’ e’ da sperare che il lavoro fatto da Borsellino sia al sicuro.”
- C: “Lo spero. Per ora l’Agnese lamenta la sparizione dalla borsa della agenda di Paolo, che a lei e’ particolarmente cara. Un’agenda sopra cui c’era tutto l’indirizzario telefonico, anche quello di famiglia. Paolo non se ne distaccava mai, se la teneva con se’ in modo quasi ossessivo, al punto che il maresciallo Canale scherzando diceva che ci andava perfino al gabinetto”.
- P: “L’agenda era in una borsa che non e’ andata distrutta nell’ esplosione?”
- C: “La borsa c’ e’ e manca solo l’ agenda. E fino a ieri sera ancora non l’avevano ritrovata”.[158]
Sempre il Corriere della Sera scrive che gli investigatori avrebbero individuato tre possibili “postazioni” da dove sarebbe partito, via radio, l’impulso alla carica di esplosivo utilizzata per la strage di via D´Amelio. La prima potrebbe essere il giardino che chiude via D’Amelio, in prossimita’ del numero civico 19 dove abitano la sorella e la madre del magistrato; la seconda e’ stata localizzata sul tetto di un edificio in costruzione, ad alcune centinaia di metri di distanza; infine si ipotizza come base d’osservazione il monte Pellegrino, nei pressi del castello Utveggio. La visione dall’alto consente di controllare il teatro della strage. La distanza tra l’innesco e il radiocomando, circa un chilometro, sarebbe stata superata grazie a un amplificatore di frequenza, trovato subito dopo la strage.
Il Corriere riporta poi di una misteriosa “segnalazione” giunta a Borsellino qualche giorno prima della strage. Una donna gli comunico’ un “messaggio” da parte di un amico “sensitivo”: “Agguato, procuratore e sue sentinelle, Agrigento, spari”. La signora, madre di uno degli studenti travolti da un’auto di scorta a Borsellino nel 1985, invito’ il giudice a stare attento. Il magistrato informo’ Giammanco e la procura di Agrigento.[159]
Vito Plantone, ex-questore di Palermo rimosso dalla carica a causa dei moti in chiesa il giorno dei funerali della scorta di Paolo Borsellino e “promosso” a vicecapo della Criminalpol nazionale, rilascia un´intervista al Corriere della Sera in cui afferma di aver fatto tutto il possibile per la protezione di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta:
Domenica 26 luglio 1992 Si uccide a Roma la testimone di giustizia Rita Atria. La ragazza aveva deciso di collaborare con la Giustizia rivolgendosi proprio a Paolo Borsellino, dal quale aveva ricevuto un grande aiuto anche dal punto di vista umano. Rita non riesce a trovare la forza per fare fronte alla notizia della morte del magistrato. Gli uomini dell’ Alto commissariato per la lotta alla mafia che avevano il compito di proteggerla consegnano alla magistratura romana il biglietto che la ragazza ha lasciato: “Sono rimasta sconvolta dall’uccisione del procuratore Borsellino, adesso non c’ e’ piu’ chi mi protegge, sono avvilita, non ce la faccio piu’ “. [165] Il Corriere della Sera rilancia un articolo uscito sul settimanale tedesco Bild am Sonntag in cui il capo dell’ufficio criminale del Bka, Hans Ludwig Zachert, assicura che Borsellino aveva interrogato a Mannheim i presunti assassini accusati della strage di San Silvestro, quando nel “Bar Duemila” di Palma di Montechiaro fu sterminata la famiglia Allegro (5 morti): La “pista tedesca” porta alla spietata mafia di Palma di Montechiaro, al viaggio che Paolo Borsellino fece ai primi di luglio a Mannheim per interrogare 4 presunti assassini dei quali la polizia tedesca ieri ha rivelato i nomi anche se questo forse non sara’ molto gradito a chi in Sicilia avrebbe bisogno di indagare senza scoprire le carte, perche’ qui si e’ ad un passo dalla verita’ sui grandi delitti di una provincia malata come quella di Agrigento. E’ in questa terra di potenti lobbies e sanguinari clan che si era concentrata l’attenzione di Borsellino convinto di potere trovare in Germania la spiegazione dei massacri di due colleghi, Saetta e Livatino, del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli e delle altre stragi che hanno puntellato la guerra combattuta fra i paesi di Sciascia e Pirandello. Punto debole delle cosche, il tedesco Heico Shinna, un trafficante di cocaina che dopo il suo arresto si e’ pentito consentendo di aggiornare la mappa delle famiglie e, secondo una voce non confermata, di avere anche una traccia per individuare una “talpa” nell’apparato investigativo. Sul settimanale tedesco Bild am Sonntag il capo dell’ufficio criminale del Bka, Hans Ludwig Zachert, assicura che Borsellino aveva interrogato a Mannheim i presunti assassini accusati della strage di San Silvestro, quando nel “Bar Duemila” di Palma di Montechiaro fu sterminata la famiglia Allegro (5 morti). Quattro nomi, solo uno dei quali noto per diverse storie di mafia, quello di Gioacchino Schembri. Inediti gli altri: Gaspare e Ignazio Incardona e Gioacchino Calafato. Tutti legati alle rivelazioni di Shinna, il tedesco con il quale i siciliani si erano confidati troppo, lo “straniero” che alcune settimane fa aveva portato all’arresto di Gaetano Puzzangaro, 23 anni, un assassino che a Palma chiamano “la mosca”, indicato in un primo momento come uno dei killer di Livatino, ma poi uscito di scena anche perche’ il supertestimone Pietro Ivano Nava aveva riconosciuto solo Paolo Amico e Domenico Pace. Sono questi gli uomini che Borsellino avrebbe dovuto interrogare partendo per la Germania lunedi’.[168]
Alcune centinaia di cittadini partecipano a Palermo ad una “marcia della speranza” dalla parrocchia di Don Orione, quartiere Montepellegrino, sino al luogo dell’attentato a Paolo Borsellino e agli uomini della scorta. Il corteo si muove in silenzio alle ore 16.57, la stessa ora della strage, e dopo aver percorso un chilometro, depone un fiore in via D’Amelio. Il parroco Salvatore Caione recita lo stesso augurio che Borsellino pronuncio’ in occasione del trigesimo dell’attentato a Falcone alla fiaccolata degli scout.[169]
Lunedí 27 luglio 1992 Viene ucciso a Catania in un agguato di stampo mafioso Giovanni Lizzio, capo della speciale sezione anti estorsioni della squadra mobile. É il primo delitto eccellente che avviene a Catania dopo l’uccisione del giornalista Pippo Fava, avvenuto nel gennaio del 1984.
Il Corriere della Sera intervista Giusi Agnello, dirigente del commissariato di Palma di Montechiaro (Agrigento), che sabato ha ricevuto l’ordine di trasferirsi entro 48 ore a Roma, alla Dia, senza che nessuno pensasse alla sostituzione. Il commissario aveva lavorato a Palma per due anni e mezzo ed aveva collaborato con Paolo Borsellino all´Operazione “Gattopardo”: “In tre mesi con lui, non appena ha funzionato la Dda, la Direzione distrettuale antimafia, siamo riusciti a fare quel che non era stato possibile in due anni. Lavorando senza concorrenza, noi e i carabinieri finalmente avevamo trovato un interlocutore che, in poco tempo, ci ha consentito di mettere tanti tasselli del mosaico a posto. E’ quel che stavamo facendo e che bisogna continuare a fare”. [172]
Martedì 28 luglio 1992 Al termine di un’audizione a Roma di fronte al Csm sullo stato della giustizia palermitana il procuratore Pietro Giammanco legge una lettera con cui chiede ufficialmente di essere trasferito ad altro incarico. Durante l´audizione Giammanco sottolinea il pieno accordo che e’ sempre esistito sia con Giovanni Falcone (con lui qualche piccolo screzio dovuto alla differenza di temperamento, e giudicando semplici sfoghi le accuse contenute nel suo diario), da lui difeso proprio davanti al Csm, sia con Paolo Borsellino, al quale concedeva una delega ben piu’ ampia del dovuto e sul conto del quale proprio il giorno prima della strage si era espresso in termini lusinghieri, proponendolo per incarichi direttivi superiori. Giammanco rivendica la sua assoluta indipendenza dai partiti politici, esibendo le sue “medaglie antimafia” (“ho fatto perquisire immediatamente studi e abitazioni dell’europarlamentare Salvo Lima dopo la sua uccisione”) e giudica “un prodotto dell’ emotivita’ ” il documento degli otto sostituti palermitani dimissionari che definisce opportunisti e strumentalizzati politicamente.
Nello stesso giorno viene ascoltato dal CSM anche il PM palermitano Roberto Scarpinato, uno degli otto dimissionari, il quale dichiara: “Noi rinunceremo alle dimissioni solo a una condizione, che vengano assicurati i livelli di sicurezza adeguati per i magistrati e per le scorte. Occorre subito fare qualcosa, abbiamo chiesto un incontro col ministro Mancino, ma aspettiamo ancora una risposta. Comunque non si deve far credere alla gente che quello di Palermo sia un problema di faide tra magistrati. Non sono atteggiamenti personalistici. Si tratta di problemi di livello istituzionale. Qui parliamo di mafia, di vita o di morte negli uffici giudiziari”. [173]
Sempre il Corriere della Sera rivela che il telefono di Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo e residente in via D´Amelio, sarebbe stato tenuto sotto controllo dalla mafia nei giorni precedenti alla strage. La fase finale della della preparazione dell´attentato sarebbe scattata a mezzogiorno di domenica 19 luglio, dopo una telefonata via cavo in cui Paolo Borsellino preannunciava la sua visita nel pomeriggio. Gli artificieri di Cosa nostra avrebbero piazzato in via D’Amelio la Fiat 126, imbottita con 80 chili di “Sintex”, tre ore prima dell’esplosione. Numerose testimonianze dei condomini concordano infatti nel fissare attorno alle ore 14 la comparsa dell’autobomba.[176]
Mercoledì 29 luglio 1992 Enzo Scotti si dimette da Ministro degli Esteri. Ufficialmente la ragione è da ricercarsi nella decisione della DC sull’incompatibilità tra mandato parlamentare ed incarico ministeriale, in realtà si tratta di una lotta di potere tutta interna al clan democristiano. Scalfaro critica apertamente la decisione. La decisione sull´incompatibilitá tra mandati era stata presa su proposta del segretario Dc Arnaldo Forlani e la prima conseguenza era sta quella di sbarrare la strada per la nomima a ministro degli esteri di Giulio Andreotti, senatore a vita.
Proseguono le audizioni presso il “gruppo di lavoro antimafia” del Csm dove vengono ascoltati i magistrati degli uffici giudiziari palermitani. Molto nette le dichiarazioni dei sostituti Antonio Ingroia e Vittorio Teresi: “Borsellino ci disse di non riferire a Giammanco troppi particolari sulle indagini che stavamo svolgendo perché non si fidava di lui.” [179]
Inoltre gli stessi ed altri colleghi della procura confermano una frase pronunciata da Giammanco in una riunione relativa alle misure di sicurezza per i magistrati palermitani. Riguardo al sostituto Di Lello che al pomeriggio si muoveva da solo con la macchina della moglie per mancanza di personale e mezzi, Giammanco aveva affermato: “Di Lello? Sta assittato supra ‘na cartedda ‘e munnizza“ (sta seduto su un mucchio di spazzatura), espressione palermitana rivolta a chi si vuole dare delle arie ed una certa importanza senza ragione.
Giovedí 30 luglio 1992 Maria Falcone viene ascoltata dal Csm riguardo al contenuto dei diari di suo fratello ed al clima di isolamento che egli aveva vissuto prima di chiedere il trasferimento a Roma. Maria Falcone conferma che Giammanco ostacolava pesantemente il lavoro di Giovanni Falcone tanto da sottrargli anche atti d’indagine dei quali era titolare in quanto componente del coordinamento antimafia della procura.
Il Corriere della Sera riporta parte di una lettera del rettore dell´Universitá Cattolica di Milano Adriano Bausola che ha manifestato a Salvatore Borsellino tutta la sua indignazione per le frasi pronunciate recentemente in Parlamento dal sen. della Lega Gianfranco Miglio. Nello stesso tempo, pero’, il rettore dell’ateneo precisa che il senatore della Lega “ha lasciato da quattro anni l’attivita’ di insegnamento istituzionale nell’Universita’ Cattolica per raggiunti limiti di eta’ e che attualmente si e’ posto in pensione. La sua militanza leghista ha preso corpo precisamente in quest’ultimo scorcio temporale. Cioe’ dopo essere passato fuori ruolo… Le opinioni di Miglio impegnano solo la sua persona. L’orientamento del nostro ateneo e’ molto diverso. L’istituzione si riconosce nei principi e valori dell’unita’ nazionale e della solidarieta’ civile cui ha dato voce il piu’ autorevole dei nostri laureati: il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro”. [184]
Il Corriere della Sera pubblica un´intervista al funzionario al vertice del servizio di protezione della Polizia di Stato per i collaboratori di giustizia. Il funzionario spiega il momento di difficoltá che alcuni collaboratori stanno vivendo dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino:
- Funzionario (P): “I pentiti hanno bisogno di un nuovo magistrato che sia un amico comprensivo e un confessore disponibile, non soltanto un notaio che registra le dichiarazioni. E’ questo il miracolo che Falcone e Borsellino erano riusciti a fare. Grazie a loro viviamo una stagione d’ oro. C’ e’ tanta gente che e’ nata dentro la mafia e che non ne puo’ piu’ della mafia. Bisogna tendere una mano e facilitare il passaggio verso la civilta’ . Ma i pentiti vogliono d’ altra parte un uomo, uomini integerrimi, autorevoli, con carisma, in grado di promettere e mantenere, di interrogare e non partire per le ferie, di verbalizzare e non passare le carte agli avvocati dei mafiosi”.
- Felice Cavallaro (FC): “Dopo Falcone, dopo Borsellino ha registrato uno sconforto generalizzato?”
- P: “I miei pentiti hanno reagito male. Tanto male. Erano stati loro a “scegliere” Falcone e Borsellino. C´e’ sicuramente un grande sconforto ma comprensibile”.
- FC: “Che cosa dice loro per superare questa fase?”
- P: “Che bisogna andare avanti. E si va avanti. Nessuno infatti ha deciso di ritrattare, di ritirarsi. Ma bisogna stare vicino a queste persone perche’ non mollino”.
- FC: “Sara‘ piu’ difficile avere nuovi pentiti?”
- P: “E’ quel che temevo. E invece abbiamo segnali opposti. Ma c’e’ bisogno di un magistrato disponibile non solo per raccogliere le dichiarazioni del pentito ma anche per vivere con lui i suoi momenti di tristezza. Gestire un collaboratore non significa riempire i verbali come un notaio. Significa soprattutto sapere rinunciare ad un pomeriggio di interrogatorio se il pentito si mette a piangere preso da dubbi e tormenti”.
- FC: “Qual era il metodo di Falcone e Borsellino per conquistare la fiducia dei pentiti?”
- P: “Grazie alla loro esperienza coglievano la dignita’, lo spessore umano di queste persone che non vogliono ne’ l’elemosina, ne’ essere trattate come strumento di un disegno. Vivono un dramma interiore immenso. Vogliono liberarsi di informazioni che hanno, dissociandosi indipendentemente dal pentimento che e’ un’altra cosa. Chi per vendetta, chi perche’ teme di essere ucciso, chi per crisi mistica o altro, al di la’ della motivazione, queste persone nel momento in cui decidono di dissociarsi finiscono per strapparsi la pelle, per sradicarsi dalla loro cultura, dal loro mondo. E non e’ facile. Da soli non possono farcela”.
- FC: “Chi puo’ aiutarli?”
- P: “Occorre l’aiuto di un esperto, soprattutto di chi conosce le possibili parabole con momenti di caduta di tensione, con ricorrenti stati di apprensione. Deve saper vivere con loro senza derogare a nessuna delle sue funzioni, cercando di rispettare il silenzio, di cogliere il momento di sconforto, di restare vicino senza insistere utilizzando l’attimo in cui la persona e’ pronta ad aprirsi, a dichiarare”.
- FC: “Chi puo’ sostituire Falcone e Borsellino?”
- P: “Dei giudici con il garbo giusto, che sappiano fare la battuta al momento opportuno o che sappiano allontanarsi magari con la scusa di prendere un caffe’ quando il pentito ha bisogno di solitudine… Ci sono anche i giudici che vanno di fretta, che pensano all’aereo da riprendere… Non tutti lo sanno fare. Ci vuole un po’ di carattere e tanta esperienza”.
- FC: “Come fa un pentito a “scegliere” il “suo” magistrato?”
- P: “Molto dipende dal carisma che il giudice s’ e’ guadagnato con una presenza su giornali e Tv. E’ facile fraintendere ma io mi riferisco al concreto impegno antimafia che puo’ venire fuori attraverso articoli ed interviste su operazioni, blitz, arresti. E’ un elemento che conta moltissimo. Non dimentichero’ mai i primi interrogatori di Calderone. Quando gli dicevo che stavano arrivando da Palermo con un aereo speciale Falcone, il giudice Natoli e il procuratore capo per sentirlo, sorpreso, chiedeva: “Possibile che si muovano queste personalita’? Pure Falcone e il procuratore per me? Allora quello che dico vi pare davvero importante? Non pensavo di valere tanto”. Funzione, grado, notorieta’ sono elementi importanti. O, almeno, possono trasformarsi nella chiave che apre una porta”.
- FC: “Lei ha chiesto a qualche pentito perche’ ha scelto Falcone o Borsellino?”
- P: “Lo chiedo spesso. Mi rispondono che sicuramente non sono magistrati “avvicinati”. Hanno paura di essere trattati con superficialita’ o di mettere la loro vita nelle mani di persone “avvicinabili”, influenzabili, di giudici che dopo l’interrogatorio spiattellano quel che hanno sentito”. [185]
Venerdì 31 luglio 1992 Il governo cambia i vertici dei servizi segreti. Al SISDE Angelo Finocchiaro, giá Alto commissario “per il coordinamento della lotta alla delinquenza mafiosa”, succede ad Alessandro Voci, al SISMI Cesare Pucci sostituisce Luigi Ramponi. Il prefetto di Palermo Mario Iovine viene trasferito con le stesse funzioni a Firenze. Prima di lasciare il suo posto Iovine rilascia una breve dichiarazione alla stampa: “Nessuno segnalò la pericolosità di Via D’Amelio. Io ho la coscienza a posto, ho fatto tutto il possibile per proteggere i magistrati, ma Palermo è diventata come Beirut. Dico che nulla è stato tralasciato, siamo stati sopraffatti da eventi di tipo bellico.” [186]
L’affermazione riguardo alla mancata segnalazione della pericolosità di Via D’Amelio è palesemente falsa.[187] In un’altra nota Iovine afferma: ”Spero solo che questo movimento di prefetti non venga interpretato da nessuno come un mio allontanamento per colpa. Spero di lasciare un buon ricordo nei cittadini palermitani per i cinque anni in cui ho svolto qui la mia attività, prima da questore e poi da prefetto. Credo di aver agito sempre secondo coscienza al meglio delle mie possibilità, con professionalià e zelo.” [188]
Si svolgono a Partanna in provincia di Trapani i funerali di Rita Atria, confidente di Paolo Borsellino suicidatasi pochi giorni dopo la strage di via D´Amelio. I funerali si svolgono al cimitero di Partanna dove altre donne sono giunte da ogni parte d´Italia per testimoniare la propria solidarietá a Rita, ripudiata dalla madre dopo la scelta di collaborare con la magistratura. Al rito é presente Anna Maria, la sorella di Rita, insieme al marito, un sottufficiale dell’Esercito con cui vive in Lombardia. Quando dalle sacre scritture il vecchio parroco di Partanna, don Russo, sceglie per il rito funebre solo i salmi che parlano del peccato anziche’ dell’innocenza, una ragazza romana lo interrompe e lo corregge: “Rita non ha peccato. Rita ha parlato. Mai piu’ lasceremo una donna sola”. Michela Buscemi, la donna che a Palermo ha accusato gli assassini del fratello rompendo con il resto della famiglia, compresa la madre, urla in dialetto: “Rita eri picciridda ma facisti cosi granni (Rita eri una bambina ma hai fatto cose grandi)”. La grande fotografa Letizia Battaglia, le donne di Bologna e Roma, una ragazza inglese che le accompagna restano incredule quando un altro prete, don Ajello, lancia uno sprezzante vaderetro: “Siete avvoltoi!”. E loro: “Semmai, siamo colombe, padre”. Le Istituzioni sono rappresentate dal sindaco di Partanna Antonio Passalacqua che definisce benefattore l´ex-sindaco dc Enzo Culicchia, eletto in Parlamento ma indicato anche da Rita Atria come possibile mandante dell’omicidio di un vice sindaco. Passalacqua ricorda Rita come “una giovane che ha il coraggio di togliersi la vita dopo avere avuto il coraggio di parlare, di cercare la verita’. “ [189]
Sul Corriere della Sera compare una lettera di risposta di Scianna Ferdinando, Redaelli Giulio, Sciardelli Franco all´editoriale di Corrado Stajano del 20 luglio: Sul “Corriere” di lunedi’ 20, Corrado Stajano conclude un suo articolo sulla strage di Palermo con questa frase: “Paolo Borsellino era uno dei “professionisti dell’antimafia”, come lo aveva definito Sciascia, uno di quelli che facevano carriera con le inchieste di mafia. Che carriera, che splendida carriera”. Giuseppe D’Avanzo, giornalista, se non ricordiamo male, tra i piu’ pertinacemente attivi dalla parte dell’ingiustizia ai tempi dell’affare Tortora, scrive sulla “Repubblica” del 21 che “Paolo Borsellino fu definito professionista dell’antimafia da un Leonardo Sciascia male informato, peggio istigato da quelli che Borsellino riteneva ancora amici fraterni”. Affermazioni assolutamente non vere come puo’ verificare chiunque voglia rileggere quel famoso articolo apparso sul “Corriere” e ora ripubblicato in un libro postumo che non a caso si intitola “A futura memoria”. Ha anche un sottotitolo di lucido pessimismo quel libro: “Se la memoria avra’ un futuro”. Ed evidentemente non ce l’ha se gente come D’Avanzo e Stajano puo’ mentire con tanta premeditata spudoratezza. Premeditata e non solitaria, ne’ sorprendente. Ci sono persone e giornali, infatti, che non riescono ancora a digerire le ferite che le molte verita’ di Sciascia hanno inferto a quanti la verita’ non hanno mai amato. E oggi, fidando appunto nella orchestrata perdita di memoria, tentano, con stillicidio di menzogne e travisamenti, di operare meschine vendette. Fra le tante altre cose illuminanti e’ anche possibile leggere in quel libro quanto Sciascia scriveva gia’ il 20 febbraio 1983 a proposito di una certa evoluzione della mafia che nemmeno il generale Dalla Chiesa aveva capito: “Non aveva capito, insomma, la mafia nella sua trasformazione in “multinazionale del crimine”, in un certo senso omologabile al terrorismo e senza piu’ regole di convivenza e connivenza col potere statale e col costume, la tradizione e il modo di essere siciliani”. Ma dov’ e’ oggi uno Sciascia per analizzare fatti e misfatti di questo paese che i D’Avanzo, Stajano e compagni non riusciranno a capire nemmeno con i soliti dieci anni di ritardo? Ferdinando Scianna, Giulio Redaelli, Franco Sciardelli
Alla lettera risponde Corrado Stajano: Che malinconia! Il non aver dubbi, il non voler riconoscere neppure davanti a quei cadaveri straziati che la polemica di Sciascia sui professionisti dell’antimafia fu sbagliata e sommamente ingiusta. Falcone e Borsellino si portarono dentro fino alla fine il peso di quelle rovinose accuse (“Nulla vale piu’, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”). Dopo l’assassinio di Falcone, Paolo Borsellino ne parlo’ in pubblico a Palermo durante la presentazione della rivista “MicroMega”: disse che il suo amico Giovanni Falcone aveva cominciato a morire proprio dopo quell’ articolo di Leonardo Sciascia uscito il 10 gennaio 1987.
Fonte: www.19luglio1992.com