ex deputato regionale siciliano, che ha pranzato con Borsellino «Ero con lui un’ora prima della morte» «Le intimidazioni non gli avevano tolto il buonumore» «La moglie ha capito da un grido che Paolo era morto»
«Sì, Paolo ha trascorso le ultime ore della sua vita a casa mia». Un timbro di autentica angoscia nella voce, Giuseppe Tricoli riesce a stento a non lasciarsi sopraffare dall’emozione per l’assassinio di un amico fraterno, il giudice Paolo Borsellino. Tricoli, ex deputato regionale del msi, docente di diritto nell’Università palermitana, rappresenta, assieme a Guido Lo Porto e allo scomparso Angelo Nicosia, l’anima antica del movimento sociale siciliano. Come ogni estate, anche quest’anno Tricoli passa i mesi più caldi a Villagrazia di Carini, distante una decina di chilometri da Palermo.
Anche Borsellino possedeva un villino a Villagrazia, e proprio nello stesso complesso condominiale di Tricoli. Fatalità: Villagrazia confina con Capaci, il paese nei cui paraggi hanno fatto esplodere il 23 maggio scorso l’automobile del giudice Falcone. «In tarda mattinata Paolo aveva voluto fare un’improvvicata a casa mia», racconta Tricoli al telefono, mettendo fine a una lunga pausa. Può sembrare strano che anche dopo le minacce, i controlli di una vita blindata, l’obbligata cautela su ogni spostamento, Borsellino potesse ancora permettersi qualche «improvvisata». «Ma è andata proprio così», prosegue Tricoli, «saranno state più o meno le tredici quando Paolo, la moglie Agnese e il figlio Manfredi sono venuti a farci visita.
Non lo vedevo da qualche tempo, ho invitato lui e i suoi familiari a pranzare da noi. Hanno accettato. Abbiamo chiacchierato a lungo, perlomeno fino alle sedici e trenta». «Paolo era sereno», continua Tricoli, «e ho avuto l’impressione che le minacce degli ultimi tempi e il dolore per la morte di Falcone non avessero inciso così tanto sul suo buon umore». Villagrazia era per Borsellino, oramai da vent’anni, il luogo della «spensieratezza», dice Tricopli. Eppure, pranzando con gli amici, il giudice che sarebbe stnto ucciso di lì a poche ore, non ha eluso l’argomento mafia. «Ha parlato a lungo del giudice Livatino.
Ha spiegato della particolare ferocia della mafia di Palma di Montechiaro. Gli ho chiesto che cosa ne pensasse della Superprocura. Ha avuto un attimo di esitazione e sulla sua faccia si è dipinta come un’espressione di sconsolato scetticismo. “Intanto bisogna vedere se faranno passare il decreto Martelli”, mi ha risposto. E poi ha accennato alle “opposizioni” che qualcuno aveva fatto sul suo nome come candidato alla direzione della Superprocura.
Ha avuto anche la forza di sorridere con un commento ironico: “Certo che in giro ci sono dei signori che assumono atteggiamenti molto incoraggianti per noi che facciamo la lotta alla mafia”».
Tricoli va avanti con qualche difficoltà nel suo raccónto. Conosceva Paolo Borsellino dai tempi dell’Università: «Io ero il presidente del Fuan di Palermo, l’organizzazione universitaria del msi, e lui ne faceva parte con molta convinzione e partecipazione». Si frequentavano da tanto tempo, si scambiavano confidenze: «Eravamo due amici veri, di un’amicizia cementata nel tempo anche per le comuni idee politiche». «Quando Paolo ha avvisato gli uomini della scorta che era giunto il momento di prepararsi non gli ho chiesto dove fosse diretto», ricorda adesso Tricoli, mentre in tv scorrono le immagini della carneficina di Palermo. «Stavo guardando un film, in televisione e d’improvviso annunciano un’edizione straordinaria del telegiornale.
“Un’esplosione a Palermo”, dicono. Mi si gela il sangue. Vorrei avvertire Agnese, rimasta a Villagrazia assieme al figlio. Ma non lo faccio per non metterla in apprensione. Poi una ragazza dal giardino di una casa vicina grida a squarciagola che un giudice ha perso la vita in un attentato. Mi precipito da Agnese, sconvolta, terrea in volto, e lei chiede a mia moglie di accompagnarla a casa della suocera. Aveva capito tutto». Giuseppe Tricoli attende con ansia il ritorno della moglie, che ora, mentre lui è al telefono, sta ancora vicino ad Agnese. Ricorda con sgomento di aver chiesto all’amico Paolo come facesse a non avere paura: «Mi ha risposto: “Sono cattolico, credere nell’umanità per me è un dovere”. Ma poi ha aggiunto, sconsolato: “Questa è la Sicilia”». «”Ma ne parliamo quando tornerò dalla Germania”. Sono state le sue parole di arrivederci. Ci siamo abbracciati. Per l’ultima volta». Pierluigi Battista «Abbiamo parlato della Superprocura, era scettico: troppi i miei oppositori» A sinistra: il giudice Borsellino in compagnia della direttrice del carcere Ucciardone, Landolfa Trabonella. Accanto: l’amico e collega Giovanni Falcone LA STAMPA 20 luglio 1992