Il cuore sanguina, la mente accetta il rispetto delle regole. Si mescolano le reazioni della Sicilia alla scarcerazione di Giovanni Brusca, il boss mafioso che ha premuto il pulsante del telecomando a Capaci, che ha sciolto nell’acido il piccolo Di Matteo. Una lacerazione interiore che più di tutti Maria Falcone, la sorella del giudice ucciso da Brusca, riesce a spiegare. “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso”.
Nell’attentato morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. “La stessa magistratura in più occasioni ha espresso dubbi sulla completezza delle sue rivelazioni, soprattutto quelle relative al patrimonio che, probabilmente, non è stato tutto confiscato: non è più il tempo di mezze verità e sarebbe un insulto a Giovanni, Francesca, Vito, Antonio e Rocco che un uomo che si è macchiato di crimini orribili possa tornare libero a godere di ricchezze sporche di sangue”.
Un concetto ribadito anche dal presidente della commissione antimafia all’Ars Claudio Fava. “Non sono indignato per la scarcerazione di Brusca un mafioso che ha scontato 25 anni di carcere che ha collaborato con la giustizia, sono indignato perché ancora dopo 29 anni non conosciamo le verità su Capaci, via D’Amelio su ciò che c’è stato oltre alla mafia” ha commentato Fava che poi ha aggiunto: “Per 17 anni abbiamo considerato i depistaggi sulle stragi come semplici distrazioni abbiamo accettato verità di comodo confezionate da magistrati, forze dell’ordine servizi di intelligence. Certo Brusca avrebbe potuto dire molto di più di quanto ha detto, avrebbe potuto contribuire molto di più per arrivare alla verità di quella stagione, di certo ora non lo farà più”.
“Certo che lo Stato mi ha fatto proprio un bel regalo con la scarcerazione di Giovanni Brusca, l’animale che sciolto nell’acido mio fratello”. Comincia così la conversazione con Nicola Di Matteo, il fratello di Giuseppe Di Matteo, ucciso l’11 gennaio 1996 e sciolto nell’acido per vendetta nei confronti del padre collaboratore di giustizia. “E’ curioso come Brusca abbia ucciso un bambino innocente di 12 anni ignaro di tutto per non far parlare mio padre con i magistrati e poi sia diventato lui stesso un collaboratore e oggi sia un uomo libero grazie ai benefici per i pentiti” fa notare Nicola Di Matteo che ci tiene a precisare: “Brusca è fuori per una legge dello Stato, una legge che ha voluto Giovanni Falcone, il magistrato che proprio Brusca ha fatto saltare in aria a Capaci. Io sono abituato a rispettare le leggi e le sentenze dei giudici e anche questa volta rispetto la decisione ma non chiedetemi di condividerla o di accettarla. Non ce la faccio il dolore è troppo grande”.
In questi 25 anni il pentito Brusca non ha mai lanciato un segnale verso la famiglia del piccolo Di Matteo uno dei delitti più efferati ammessi da Brusca. “Spero che non si sogni di mandarmelo, non voglio e non accetterò mai alcun segno da parte del signor Brusca. Con mio fratello si è comportato come un animale. Non merita nemmeno un secondo della nostra vita”. Nicola fatica a tenere separati il cuore e la ragione. “Ho un dolore che mi toglie il respiro ma è una cosa mia con cui farò i conti per tutta la vita. Questo non mi impedisce di rispettare la decisione di liberare quell’animale. Mi chiedo se lo Stato non debba interrogarsi su questo sistema che premia tutti i pentiti indistintamente anche quelli responsabili di stragi e di centinaia di omicidi”.
Per il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci “Sapere che Brusca è, oggi, uomo libero lascia senza parole. La Legge è legge, si dirà. Ma se una norma è palesemente sbagliata va cambiata. Magari non potrà più servire per Brusca ma servirà almeno ad evitare un altro caso simile. Di fronte agli “sconti” concessi a chi ha ordinato oltre cento omicidi, sia comunque serratissima la vigilanza. Per scongiurare che la libertà barattata possa, Dio non voglia, fornirgli anche la più remota possibilità di tornare ad essere il mostro che è stato”.
Anche per il sindaco Leoluca Orlando “la scarcerazione di Giovanni Brusca richiama ancora una volta le sofferenze delle vittime e dei loro familiari e riaccende ancora più forte la loro indignazione. Questo momento conferma quanto bisogno vi sia ancora di verità e giustizia nel nostro Paese”.
Chi invece non accetta la scarcerazione di Brusca è la vedova di Antonio Montinaro, Tina Martinez, che da anni girà l’Italia per mantenere viva la memoria di Capaci. – “Lo Stato oggi mi ha preso in giro, sono sconfortata e incazzata nera, a distanza di 29 anni non so ancora la verità su Capaci e chi ha schiacciato il bottone e distrutto la mia vita torna libero. Non è servito a nulla quanto è successo a Palermo. Ho bisogno di uno Stato che ci tuteli non che liberi i criminali. Sono amareggiata per tutte quelle persone che una settimana fa erano a Palermo a prenderci in giro, sapevano che Brusca sarebbe uscito e sono venuti lo Stesso. Spero che il prossimo abbiano la dignità di non presentarsi a Palermo per commemorare Capaci”.
Fra chi non accetta il fine pena di Brusca c’è anche Giovanni Paparcuri, autista del giudice Rocco Chinnici e unico sopravvissuto alla strage del 29 luglio 1983, tra i più stretti collaboratori di Giovanni Falcone. Non lo accetta semplicemente perché non crede al pentimento del boss di San Giuseppe Jato. “Ribadisco, così come ho detto altre volte, che non ho mai creduto al suo pentimento e mai ci crederò, al di là del coinvolgimento personale nella strage Chinnici, l’avrei fatto marcire in galera per tutta la vita per gli innumerevoli morti che ha sulla coscienza” ha commentato di getto Paparcuri la notizia della liberazione aggiungendo però che “Proprio perché siamo in uno Stato di diritto e se la legge prevede che a questi assassini, poi divenuti collaboratori, spettano dei benefici, da buon soldato, ma a malincuore ne prendo atto e me ne faccio una ragione, anche se è molta dura… durissima”.
L’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che ha indagato per anni sulla trattativa Stato-mafia e che da Brusca non ha ottenuto tutta la verità sulla stagione stragista di cosa nostra, distingue fra la condanna morale e quella dei tribunali. “E’ comprensibile che possa fare impressione che l’uomo che ha ucciso Giovanni Falcone, che è stato il responsabile della morte orribile del piccolo Giuseppe Di Matteo, possa tornare in libertà, ma un conto è la condanna morale, un conto quello che prevede l’ordinamento giuridico. E va accettato”.
“Tanti collaboratori ci hanno detto che si esce da Cosa nostra in un solo modo, cioè con la morte, non in un’altra maniera”. Lo dice Leonardo Guarnotta, tra gli stretti collaboratori di Giovanni Falcone, componente del pool antimafia, commentando la notizia della scarcerazione di Brusca per fine pena, manifestando perplessità anche sulla genuinità del suo pentimento. Il boss di San Giuseppe Jato, che si è auto-accusato di 150 delitti, tra cui quello di Giuseppe Di Matteo, il bimbo strangolato e sciolto nell’acido, e che si definì “un mostro”, è colui, ricorda ancora Guarnotta al Gr1 Rai, “che ha schiacciato il pulsante della strage di Capaci, non potrà mai essere perdonato. E può darsi – aggiunge, manifestando un timore forte – che tornando in Sicilia possa riallacciare rapporti con persone che ancora hanno fiducia in lui e lo rispettano”.
Marco Intravaia, figlio di Domenico, il brigadiere dell’Arma ucciso nella strage di Nassiriya e presidente del Consiglio comunale di Monreale (Palermo), non riesce invece ad accettare la scarcerazione per fine pena di Giovanni Brusca. “La scarcerazione di Giovanni Brusca è un’onta non solo alla memoria delle vittime della mafia e ai loro parenti, ma a tutti coloro che nella loro quotidianità si battono per il rispetto delle leggi e delle regole. Non voglio entrare nel merito dei tecnicismi legislativi che hanno portato quest’uomo, assassino anche del giudice Falcone e del piccolo Di Matteo, fuori dal carcere: ma il messaggio è devastante. Dopo notizie del genere le manifestazioni commemorative, le cerimonie, le targhe in ricordo sembrano perdere senso di fronte ai mafiosi che tornano in libertà, sebbene collaboratori di giustizia. Il rischio è che alle nuove generazioni passi un messaggio schizofrenico e, dunque, poco credibile da parte delle istituzioni. Non nascondo di essere davvero sconcertato e deluso”.
Un concetto ribadito dall’assessore regionale ai Beni Culturali e all’identità siciliana Alberto Samonà. “Brusca rimesso in libertà è una vergogna totale. Mi domando che Paese è quello in cui un feroce assassino, ancorché collaboratore di giustizia, può uscire dal carcere, nonostante si sia macchiato di orrendi omicidi. Non è questa la giustizia che vogliamo”.
L’ondata di indignazione che ha scatenato la scarcerazione di Brusca ha coinvolto anche le leggi sui benefici di pena per i pentiti, uno strumento voluto proprio da Giovanni Falcone per combattere cosa nostra. “La legge sui collaboratori di giustizia si è rivelata uno strumento fondamentale nella destrutturazione delle mafie. Giovanni Falcone, che ne è stato l’ideatore, aveva ben presenti i costi sul piano della sofferenza per le vittime dei mafiosi che l’approvazione di una normativa del genere avrebbe comportato. Ma aveva anche chiaro quali danni alla mafia avrebbero e hanno fatto le collaborazioni di alcuni esponenti di vertice di Cosa nostra” commenta il procuratore di Messina Maurizio de Lucia che poi aggiunge: “I fatti hanno dimostrato che Giovanni Falcone aveva ragione e che questo meccanismo ha funzionato e funziona. Del resto sono state proprio le collaborazioni con la giustizia a consentire, non solo di identificare gli autori di alcuni dei più efferati fatti criminali della storia d’Italia, ma anche e forse, soprattutto, di consentire di indagare sui livelli di cointeressenze che Cosa nostra ha con i mondi dell’imprenditoria, delle professioni e della politica”.
“Del resto sistemi premiali per chi collabora con la giustizia sono presenti in tutti gli ordinamenti democratici anche in quelli che non prevedono un regime penale severo come il nostro. E’ ovviamente più che comprensibile – conclude il magistrato – il turbamento di chi ha visto i propri familiari uccisi dall’azione criminale di questi individui. Resta il fatto che la legislazione sui collaboratori di giustizia è irrinunciabile”.
Polemica sui benefici ai pentiti, Grasso: “Non è perdono ma gli sconti servono”
Sulla stessa linea di Maurizio de Lucia anche l’ex presidente del senato ed ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. “Non c’è nessuna forma di buonismo o perdono da parte mia nei confronti di Giovanni Brusca: oltre a tutto ciò che sapete, agli omicidi e alle stragi in cui ho perso colleghi e amici, avrei anche motivi strettamente personali per serbare rancore. Lui e altri collaboratori hanno raccontato, tra gli altri, due episodi che mi riguardarono direttamente: l’organizzazione di un attentato nell’autunno del 1993 che doveva farmi saltare in aria mentre andavo a trovare mia suocera a Monreale e la pianificazione del rapimento di mio figlio. Il dolore e la rabbia delle vittime e dei loro familiari lo comprendo e lo rispetto nel profondo. Eppure non vedo scandalo nella notizia di ieri, peraltro nota e attesa da molti anni” ha commentato Grasso aggiungendo poi: “Mi spaventa l’indignazione di molti politici che di codice penale e di lotta alla mafia capiscono ben poco. Se davvero facessero quello che dicono, ovvero ridurre gli sconti per chi collabora con la giustizia, diminuirebbe l’incentivo a pentirsi. Se a questo aggiungiamo che si sta cercando di limitare l’ergastolo ostativo, e lavorerò affinché questo non avvenga, potremo anche dichiarare chiuso il capitolo del contrasto a Cosa nostra. Al contrario, servono sconti di pena forti per chi aiuta lo Stato e prospettiva di ergastolo senza sconti per chi non collabora”.
Meno convinta della bontà della normativa sui pentiti è Caterina Chinnici, europarlamentare e figlia di Rocco, inventore del pool antimafia ucciso da Cosa nostra il 29 luglio del 1983 con un’autobomba fatta esplodere sotto la sua casa, in via Pipitone Federico, a Palermo. “E’ stata applicata una legge che ha portato dei risultati ma sul cui rapporto costi-benefici per lo Stato nella lotta alla mafia forse andrebbe oggi riaperta una riflessione in chiave attualizzata. E’ una legge vigente, ma naturalmente sotto il profilo umano questa consapevolezza convive con quel dolore senza fine che per me, come per tutti gli altri parenti delle vittime di mafia, torna oggi a farsi sentire con tutto il suo enorme peso”. LA REPUBBLICA