ANTONINO GIUFFRÉ, Nino mannuzza

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ANTONINO GIUFFRÉ: mafia e appalti dietro l’eliminazione di Borsellino. Era diventato più pericoloso di quello che si pensasse

 


ANTONINO GIUFFRE’, nato a Caccamo (Palermo) il 21 luglio 1945. Pentito, capo del mandamento di Caccamo, collaboratore di giustizia,  perito agrario, ex insegnante di educazione tecnica nei corsi professionali dello Ial (ente di formazione finanziato dalla Regione). Sposato con Rosalia Stanfa, due figli. Detto Nino Manuzza, “manina”, per una malformazione alla mano destra dovuta a un incidente di caccia (secondo alcune fonti, invece, a causa di una poliomielite), ma da un certo punto in avanti, anche truffa i ’ddisa, «come il cespuglio di sterpaglie da cui in Sicilia si ricava un laccio sottile, ma resistentissimo, utilizzato per legare la vite ai sostegni di legno e per difenderla dal vento» 

Viene combinato (“affiliato”) nel 1980, da Francesco Intile, allora capomandamento di Caccamo. Il suo padrino Giovanni Stanfa. Inizia la carriera criminale portando da mangiare al latitante Michele Greco, detto “il Papa” (morto il 13 febbraio 2008), che dopo essere stato arrestato lo raccomanda a Totò Riina. Anno 1987, Manuzza viene convocato a una riunione della commissione (la “Cupola”) : «Sono entrato impaurito perché quando uno va in un posto dove ci sono altre persone non si sa se ritorna. Ma io sono uscito capomandamento» (come reggente, essendo Intile detenuto). Finisce in carcere il 21 marzo 1992 per rimanerci fino al 9 gennaio 1993 (dunque è detenuto il 23 maggio e il 19 luglio 1992, quando vengono fatti scoppiare in aria, prima il giudice Falcone, con la moglie, a Capaci, poi il giudice Borsellino, in via D’Amelio, a Palermo, e le loro scorte). Colpito da ordinanza di custodia cautelare nel 94 per associazione mafiosa e turbativa dei pubblici incanti, diventa latitante. Nel 95, quando Intile si suicida in carcere impiccandosi, gli succede a tutti gli effetti come capomandamento.
• Da quando esce dal carcere, nel 93, diventa braccio destro di Bernardo Provenzano («ero il suo principale collaboratore, e da lui avevo ricevuto incarico di ristrutturare Cosa Nostra su vasta scala»). Abbandonato così Riina, si schiera nella fazione dei moderati di Cosa Nostra (cosiddetta fase di “sommersione”, voluta da Provenzano). «Uno dei cambiamenti sostanziali che ho riscontrato in lui era la rinuncia a ogni forma violenta e in particolare alle stragi. Da parte sua si comincia ad affacciare una politica pacifista in contrapposizione a quella di Bagarella che di pacifista non aveva un bel niente. Questa contrapposizione andrà avanti fino al momento dell’arresto di Bagarella prima e di Brusca poi (…). Noi sostenevamo che una politica stragista, una politica violenta, una politica appariscente e marcata sulla violenza era controproducente, addirittura dannosa, se non deleteria, per Cosa nostra».• Incaricato da Bernardo Provenzano di formulare un nuovo cifrario alfanumerico per comunicare, si mette al lavoro, ma alla fine la sua proposta viene archiviata perché troppo semplice. Finisce che lo stesso Giuffrè non sempre capisce che cosa gli scrive zu’ Binu. Come quella volta (marzo 2002), che riceve un pizzino con su scritto di non ringraziare lui (per avergli rivelato la presenza di telecamere dei carabinieri nel casolare di Vicari dove si tenevano alcune riunioni mafiose, salvandolo così da un blitz dei carabinieri), bensì «Nostro Signore Gesù Cristo». Giuffrè non ha potuto ringraziarlo perché non ha mai capito a chi si riferisse Provenzano.
«Io i biglietti li conservavo per un arco di tempo di due anni per ricordarmi di tutte le raccomandazioni che avevo fatto, e poi per verificare che la consegna dei soldi era avvenuta. Anche Provenzano faceva così. Ogni anno facevamo una verifica».
In costante comunicazione con Provenzano, Giuffrè si occupa in modo sistematico delle estorsioni: «Ovvero le tangenti pagate dalle imprese. Una volta che veniva effettuata la gara ed appaltato il lavoro, l’impresa aggiudicatrice si faceva mettere a posto prima di andare a lavorare nella zona, cioè si recava da una persona di sua conoscenza e la pregava… dietro le quinte c’eravamo noi (…) Così mettevo le imprese a posto, ovvero davo la garanzia alla famiglia competente per la zona che l’impresa era a sua disposizione». Tassa stabilita, il due per cento. «E per le forniture di materiali e mezzi, se non ne aveva, l’impresa si metteva a disposizione per prenderle nella zona».
Quella volta che, per avere estratto per precauzione l’autoradio dalla macchina (dopo aver parcheggiato per partecipare a una riunione di mafia a Termini Imerese) si fece sfottere da Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella: «Bravo, ma è così che controlli la tua zona?».
Approfittando della piena fiducia che Provenzano ripone in lui, intanto riesce a far nominare a capo dei vari mandamenti uomini di sua fiducia, in modo da crearsi una rete di alleanze che un giorno gli avrebbe assicurato la successione a Provenzano. Tutto fila liscio, fino a quando Giuffrè non promuove come candidato a capo di Agrigento un uomo diverso da quello voluto da Provenzano, che lo viene a sapere e non la prende bene. La nomina definitiva non è stata ancora decisa quando Giuffrè viene arrestato.
 16 aprile 2002. Sono passati otto anni dall’inizio della latitanza, da un anno e mezzo Giuffrè vive in una villetta di campagna del comune di Vicari, tra Palermo e Agrigento. Il suo ufficio (dove fissa appuntamenti e smista pizzini) è un ovile sito in località Massariazza, tra Vicari e Roccapalumba. Quel giorno si fa venire a prendere all’alba per andare al lavoro (su una jeep, da Carmelo Umina, nipote di Salvatore Umina,capomafia di Vicari). Non sono ancora le sette, Giuffrè non ha ancora sistemato le sue cose, che arrivano i carabinieri per arrestarlo. Si saprà che prima una telefonata anonima, poi un’altra, per rettificare la data, avevano avvertito la Compagnia dei carabinieri di Termini Imerese che proprio quel giorno Giuffrè si sarebbe recato lì a quell’ora. Nella seconda telefonata l’interlocutore ha pure offerto in cambio ai carabinieri informazioni utili alla cattura di un altro latitante se i carabinieri lasceranno perdere il marsupio che Giuffrè porta sempre con sé con dentro centinaia di pizzini (offerta rifiutata).
Due mesi dopo, il pentimento. Davanti al procuratore di Palermo, Pietro Grasso. Quando gli viene rivelato che l’arresto è stato preceduto dalla soffiata, Giuffrè la ricollega al fatto che Domenico Virga (capo del mandamento di San Mauro Castelverde) gli aveva dato un appuntamento e poi gli aveva chiesto di rinviarlo proprio a quel 16 aprile. Per poi commentare: «Si può dire tutto e il contrario di tutto, perciò preferisco non dire niente. Mi secca perdermi in chiacchiere». Da allora in poi, concluderà le sue rivelazioni più complesse ai magistrati così: «E questi sono fatti, scienza, non fantascienza».
Esattamente si pente il 16 giugno 2002, il giorno della santificazione di Padre Pio, a cui è devoto. In aula dirà che, oltre a questo, è stato spinto anche da altri motivi: «Tra gli altri c’è che ho tentato di salvare la vita a diverse persone. Perché finché io ero libero, con la mia influenza ho cercato il più possibile di salvaguardare le possibili vittime di fatti delittuosi. Ma dopo il mio arresto ho capito che per queste persone stava arrivando la loro ora». Per la cronaca diventa il «nuovo Buscetta» (primo superpentito di mafia, morto di cancro nel 2000).
Aiutando gli inquirenti a decriptare i pizzini di Provenzano, spiega la strategia dell’inabissamento di Cosa Nostra sotto di lui («bisognava rendere invisibile Cosa Nostra per avere il tempo di riorganizzarsi con calma»), e gli uomini che l’hanno attuata, per primi Pino Lipari e Tommaso Cannella (vedi schede): «Lipari e Cannella hanno aiutato Provenzano a rifarsi la verginità, perché dalle stragi era uscito con le ossa rotte. E giustamente lui doveva rifarsi un’immagine. Così questo gruppo è passato come quello di coloro che erano contro le stragi. Ma non è affatto così. Perché Provenzano nelle questioni politiche, negli omicidi politici, è il numero primo. Però adesso Liparidoveva rifargli l’immagine. Per non farlo arrestare, innanzitutto. E poi, per una questione economica». Conferma anche nomi già fatti da Tommaso Buscetta, come Vito Ciancimino (già sindaco democristiano di Palermo, appartenente alla corrente andreottiana, morto il 19 novembre 2002): «Provenzano ha curato i rapporti con tutti i poteri. E Ciancimino, in particolare, era colui che intratteneva i rapporti con tutti (…) È stato l’uomo che ha avuto un ruolo in assoluto più importante per Provenzano (…) Erano sempre in perfetta sintonia, si incontravano e si sedevano a ragionare (…) Riina e Provenzano sono dei latitanti e non è che abbiano un gran livello di istruzione. Avevano bisogno dei loro contatti. Ecco perché Ciancimino, ma anche Pino Lipari e Tommaso Cannella: loro, assieme a tante persone insospettabili, hanno aiutato la scalata al potere dei corleonesi».
Sulla differenza tra Provenzano e Riina: «Provenzano ha una parte di Cosa Nostra che è un pochino cosa sua, una cosa sua riservata. Provenzano, insomma, viene condizionato da Pino Lipari e da Masino Cannella, mentre Totò Riina è più malandrino e agisce spesso d’impulso, come faceva suo cognato Luchino Bagarella. E questo lo ha portato a fare degli errori che ha pagato a caro prezzo».
Il 7 novembre 2002, anche lui, interrogato dal procuratore Grasso, fa il nome di Andreotti: «Noi usavamo un nomignolo di un politico nostro influente di allora – parlando dei primi anni Ottanta –, ‘ u Gobbo, e quando si parlava del Gobbo si parlava di Andreotti». Ma i politici sono «persone equivoche, viscide, che fanno il doppio gioco», e quando entrano nel mirino dei magistrati « si scantano» (“hanno paura”). Così Andreotti, che fece dei «passi indietro» (riferendosi alle sue iniziative legislative contro Cosa nostra): «Andreotti si è fatto la verginità a discapito nostro». Nell’87, quando Riina era ormai insoddisfatto della Dc, decise di «acchiappare il toro per le corna, come era abitudine sua, con una certa irruenza, e decide di cambiare rotta». Cioè di passare ai socialisti, rivolgendosi innanzitutto a Craxi e Martelli (segretario e vicesegretario del partito). «Solo che purtroppo la strategia non gli è riuscita». Secondo Giuffrè, Martelli diede delle garanzie, ma poi fu abbandonato «per un fatto ben preciso, che era un drogato». Riferendosi così alla storia di uno spinello trovato durante un viaggio collettivo in Kenya a cui aveva partecipato Martelli, e quando il magistrato gli contesta che lo spinello apparteneva a un’altra persona della comitiva, Giuffrè risponde: «Noi non ci credevamo… era tutta una messinscena per giustificare». Quando poi, da ministro della Giustizia,Martelli nominò Giovanni Falcone direttore del Dipartimento degli affari penali, entrò nel mirino di Cosa Nostra: «Doveva essere ucciso… In quel periodo si erano fatti discorsi su Martelli e De Gennaro (…) Poi magari i discorsi non si sono fatti. Però ’u signor Martelli penso che deve stare sempre attento (…) Anche Andreotti doveva essere ucciso».
L’8 novembre racconta invece di quando Bernardo Provenzano agganciò i vertici di Forza Italia per presentare le sue richieste: «Provenzano era interessato alla revisione della legislazione antimafia: in particolare alla revisione dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, alla revisione dei processi, alla revisione della legislazione sui collaboratori di giustizia, sul sequestro dei beni, e più in generale all’alleggerimento della pressione della magistratura». Nel gennaio 93, fu Provenzano in persona ad assicurargli che i nuovi referenti politici nell’arco di dieci anni avrebbero fatto ottenere questi risultati. «Vi sono state due fasi. Quella dell’acquisizione delle “garanzie” e quella della ricerca dei referenti “giusti” sul territorio per le varie elezioni, candidati almeno apparentemente “puliti”, che non dovevano essere sotto inchiesta della magistratura, e quindi non potevano avere alcun timore a portare avanti la politica che interessava a Cosa nostra». Le garanzie politiche, secondo Giuffrè, furono date da Marcello Dell’Utri. In risposta al procuratore Grasso che gli chiede perché si rivolsero a Berlusconi: «Signor procuratore, Berlusconi era conosciuto come imprenditore e per le sue emittenti. È una persona abbastanza capace di portare avanti un pochino le sorti dell’Italia». Su Vittorio Mangano, il presunto boss assunto come stalliere da Berlusconi ad Arcore (morto di cancro il 23 luglio 2000): «Sin da allora sapevamo il discorso dello stalliere, sapevamo di Mangano che era alle dipendenze di Berlusconi, insomma sapevamo già da tempo che c’era un certo contatto tra Cosa nostra e Berlusconi, grazie alla persona che aveva direttamente in casa».
«Forza Italia non l’abbiamo fatta salire noi, il popolo era stufo della Dc e allora ha trovato in Forza Italia un’ancora a cui afferrarsi. E noi furbi, abbiamo cercato di prendere la palla al balzo. Tutti Forza Italia».
Quando fu arrestato pendevano su di lui quattro condanne definitive per 13 anni e 4 mesi di reclusione (per associazione mafiosa e reati collegati). Il resto è arrivato dopo. Assolto con la formula dubitativa dall’accusa di concorso nelle stragi di Capaci e via D’Amelio (in quanto detenuto al momento dei fatti), su impugnazione del pm nel 2003 la Cassazione ha annullato la sentenza rinviando gli atti per un nuovo giudizio alla Corte d’Assise d’Appello, che nel 2006 lo ha condannato a venti anni di reclusione (sentenza confermata in Cassazione il 18 settembre 2008). Nel 2004 è stato condannato in via definitiva a 15 anni di reclusione per concorso nell’omicidio dei fratelli Giuseppe e Salvatore Sceusa, strangolati nel 91. Al processo, Giuffrè ebbe a dire: «Ho partecipato manualmente a quell’omicidio. Ogni omicidio è un errore, e io ne ho commessi anche altri… C’è quello che colpisce di più e quello che colpisce di meno. Questi due imprenditori non avevano chiesto la dovuta autorizzazione e non avevano pagato la dovuta tangente per effettuare dei lavori in una certa zona. Oggi non mi sembra un motivo valido per eliminare due vite umane» (i giudici gli hanno concesso la circostanza attenuante prevista per i collaboratori di giustizia, ma non le attenuanti generiche, vista l’estrema gravità dei fatti, la personalità dell’imputato e la tardività della confessione). Nel 2005 è stato condannato in via definitiva a 17 anni di reclusione per l’omicidio dei fratelli Salvatore e Giuseppe Savoca, e del figlio di quest’ultimo, Andrea (ammazzati nel 91, vedi MADONIA Salvatore), e a 15 anni di reclusione per gli omicidi di Benedetto Bonanno, Antonino Bonanno e Isidoro Carlino, per soppressione di cadavere e detenzione e porto di armi (in Palermo, ottobre-novembre 1991 e in Misilmeri, 17 febbraio 1992).
«Nel mondo ci sono vari poteri. Imprenditoriale, economico, politico (…) per funzionare devono essere tutti collegati tra loro. Perché altrimenti il marchingegno non funziona. È l’unione che fa la pericolosità» (Antonino Giuffrè)
• Ultime È tra i testimoni chiave del processo sulla c.d. Trattativa Stato-Mafia. Stando alle sue dichiarazioni Provenzano ha venduto Riina: «Provenzano ha una divinità che lo protegge e a cui deve ogni tanto offrire sacrifici umani. E il sacrificio più importante è stato quello di Riina, per cercare da un lato di mettere fine alla figura di Riina come la persona che aveva scatenato il finimondo… diciamo principalmente che Totò Riina lo sapevano gente nostra dov’è che stava… e per l’intento ben preciso: sacrifichiamo Riina per salvare Cosa Nostra e tutto il resto». Il decreto di rinvio a giudizio per la Trattativa richiama l’interrogatorio in cui Giuffrè ricorda le parole precise di Provenzano sui contatti tra Vito Ciancimino e il Ros (vedi Massimo Ciancimino), e sui motivi dell’arresto di Riina: «Vi pigghiate a Riina e ve ne ite, mentre noi altri risistemiamo le cose». (a cura di Paola Bellone).  GIORGIO DELL’ARTI, scheda aggiornata al 7 maggio 2014


Il racconto di Giuffrè  “Così sono stato tradito” Il superboss pentito svela i retroscena della sua cattura. Al processo di Padova accusa un vecchio nemico presente in aula “Quello è uno sbirro, Provenzano mi aveva autorizzato a ucciderlo ma, guarda caso, prima di poterlo fare sono stato arrestato” E’ proprio qui, forse è proprio qui dentro l’aula bunker di Padova l’uomo che ha tradito Antonino Giuffrè e l’ha fatto prendere con una spiata. E’ qui seduto tra i banchi, confuso tra gli avvocati, immobile, impassibile, rigido come un pezzo di legno e con lo sguardo puntato sempre su quel paravento che nasconde il pentito della Cupola. Non muove un muscolo quando la voce che arriva dall’altra parte lo descrive come “uno sbirro”, non ha un fremito nemmeno quando la voce ricorda che era stato condannato a morte dalla sua “famiglia”. Ma all’improvviso quell’ometto piccolo piccolo e dall’aspetto insignificante, comincia a sudare e a tormentarsi le mani. Si muove, si alza, si accende una sigaretta, nervoso cammina di qui e di là. E’ in quel momento che Antonino Giuffrè fa capire come è finito in trappola. Sta proprio parlando di lui, sta parlando di Diego Guzzino, aspirante capomandamento di Caccamo e imputato a piede libero che non si vuole perdere la “prima” del pentito al suo processo.
E’ una battuta, solo una battuta. Ma nel linguaggio mafioso dice tutto. E’ Antonino Giuffrè che ricostruisce una storia di rancori e di tradimenti con una rivelazione: “Dopo che mi incontrai con il nipote di Diego Guzzino che voleva in qualche modo salvare la vita a suo zio, io sono stato arrestato… guarda caso…”. E’ la prima piccola verità sul mistero della cattura del numero due di Cosa Nostra che poi ha deciso di saltare il fosso. E’ un indizio per capire come e perché finì la latitanza di Antonino Giuffrè detto Manuzza.
Facciamo un passo indietro e ricordiamo ancora una volta come si svolsero i fatti nel mese di aprile, quando Giuffrè fu trovato in un casolare nelle campagne di Roccapalumba. La sua cattura fu all’alba del 16. Però cinque giorni prima al centralino della caserma dei carabinieri di Termini Imerese qualcuno telefonò e disse: “Se volete Antonino Giuffrè dovete andare la mattina di martedì tra Vicari e Roccapalumba…”. Un’altra telefonata arrivò ai carabinieri di Termini Imerese appena nove ore prima dell’arresto di Giuffrè. Era sempre la stessa voce: “Ve lo ricordate che domani mattina dovete andare là per Giuffrè?”. Così presero il boss. Nessuno aveva ancora le idee chiare su come andarono le cose. Nessuno tranne Antonino Giuffrè che aveva subito sospettato dello “sbirro” del suo paese: Diego Guzzino.  E’ qui infagottato nel suo giubbottino di renna, la testa pelata, gli occhiali che gli scivolano sulla punta del naso, è qui libero per decorrenza dei termini nel processo alla mafia di Caccamo che si sta celebrando a Padova. E’ qui in veste di imputato e di capomandamento in pectore, curiosissimo di assistere allo show di Manuzza e sentire le “infamità” di quello che è stato il suo capo. Vent’anni di rapporti tormentati tra lui e Manuzza, vent’anni di rancori, di invidie, di tragedie tutte mafiose che si consumavano in tradimenti e soffiate. “Si diceva che lui fosse uno sbirro”, racconta in aula Giuffrè. I boss della zona sospettavano che di tanto in tanto passasse qualche informazione ai carabinieri, notizie pilotate per fare danno agli avversari di cosca. Confidente per conquistarsi un ruolo sempre più importante in Cosa Nostra. I mafiosi sono fatti così, l’omertà è una favola da raccontare agli altri, l’”infamità” e la “sbirritudine” è sempre stato il loro pane quotidiano. E questa, a quanto pare, è stata anche la carriera nella mafia di Diego Guzzino. Da quando un giorno non fu più l’”accompagnatore” ufficiale del vecchio capo di Caccamo Ciccio Intile, sostituito in quel ruolo di fiducia proprio da Giuffrè. Ecco il rancore, ecco l’odio tra i due che covava dal 1980. Come in ogni affare di Cosa nostra nulla è però ciò che sembra. Formalmente Guzzino aveva perso il “posto” al fianco del vecchio Intile perché conviveva con una ragazza (“Persona poco seria lui”, spiega Giuffrè senza aggiungere che poi i due comunque si sposarono), in realtà Guzzino gestiva con alcuni soci palermitani una grande raffineria di eroina. Faceva soldi a palate raffinando morfina e senza versare una lira alla “famiglia” di Caccamo. “Quando poi fu arrestato e aveva bisogno dei soldi per gli avvocati, molti di noi si opposero”, ricorda il pentito. Che alla fine decise di ucciderlo: “Chiesi l’autorizzazione a Provenzano per un fatto di cortesia, gli dissi che Guzzino doveva morire per i suoi comportamenti poco corretti, l’autorizzazione mi fu data”. E spiega ancora Giuffrè: “Guzzino cominciò a cercarmi nel momento del bisogno, ma io gli mandai a dire che non potevo fare nulla per salvarlo”. E’ a questo punto che il pentito lancia il messaggio sulla sua cattura: “Un giorno di quest’anno mi fa incontrare il nipote Michele Puccio, io volevo sapere la verità prima di condannare Guzzino ma il nipote non mi disse praticamente nulla. Dopo poco tempo… il caso… io fui arrestato…”. Nell’aula bunker di Padova cala il silenzio. In fondo Diego Guzzino è solo, cupo. Dalla sua bocca esce solo un soffio di voce: “Io a questo Giuffrè lo conosco solo di vista”.  18 ottobre 2002 La Repubblica Attilio Bolzoni 


In aula il pentimento di Giuffré Io,vice di Provenzano per 20 anni   Parla lentamente, è preciso, anche nei «dettagli» macabri, si accusa di omicidi, accusa i suoi complici; gli avvocati che difendono gli imputati hanno bisogno di «riflettere» prima di potere replicare alle prime dichiarazioni da pentito del boss Antonino Giuffrè. L’ ex braccio destro di Provenzano ha «esordito» ieri nell’ aula bunker del carcere di Pagliarelli a Palermo, era in videoconferenza dal carcere di Novara dove si trova superprotetto. Giuffrè era reduce da un lungo incontro con il procuratore di Palermo, Pietro Grasso, con quello di Caltanissetta Francesco Messineo e con il suo aggiunto, Francesco Paolo Giordano, che indagano sui mandanti occulti delle stragi Falcone e Borsellino. Stragi di cui Giuffrè sa molto ma da cui prende le distanze accusando senza mezzi termini Totò Riina ed i «corleonesi» che organizzarono ed attuarono i due attentati. «Sono stati loro, i corleonesi», ha detto Giuffrè ai magistrati nisseni, per sottolineare che lui ed altri capi mafia quelle stragi li dovettero «subire». Sulle stragi comunque avrà ancora tanto altro da dire mentre ieri nella sua apparizione pubblica nel bunker di Pagliarelli, ha parlato di un processo a 11 imputati (compreso Giuffrè che in primo grado è stato condannato all’ ergastolo) per l’ uccisione di due fratelli imprenditori, Salvatore e Giuseppe Sceusa, assassinati nel ’91, perché avevano preso un appalto senza chiedere «il permesso» a Cosa nostra. Giuffrè spiega quel duplice delitto, chiama in causa Totò Riina e racconta che partecipò allo strangolamento dei due fratelli Sceusa. Poi racconta perché si è pentito: «Ho riflettuto molto, ho capito che non vi erano più i presupposti per restare a far parte di Cosa nostra e con la mia decisione di collaborare con la giustizia ho cercato di salvare la vita a diverse persone». Giuffrè racconta la sua «storia» dentro Cosa nostra cominciata nel 1985 come semplice uomo d’ onore per diventare in poco tempo capo mandamento di Caccamo e braccio destro dell’ imprendibile Bernardo Provenzano. «Ho collaborato con Provenzano per più di 20 anni e il mio ruolo si è molto esteso negli ultimi anni. Non solo su Palermo ma anche su altre province» racconta Antonino Giuffrè sottolineando il suo rapporto «intimo» con Bernardo Provenzano: «Ero il collaboratore principale di Provenzano e dovevo cercare di ristrutturare Cosa Nostra su vasta scala». E adesso che non lo è più Giuffrè non esita ad accusare il suo ex capo quando, rispondendo alla domanda del sostituto procuratore generale, Alberto Di Pisa, sottolinea che non tutti gli omicidi compiuti nel suo mandamento, quello di Caccamo, erano stati autorizzati da lui. «Provenzano poteva permettersi di ordinare omicidi nel mio territorio senza neanche chiedermi il permesso». Il riferimento è all’ uccisione del sindacalista Mico Geraci, assassinato nel 1998 proprio davanti all’ abitazione di Antonino Giuffrè a Caccamo. «Io mi ero opposto a quell’ omicidio», ha raccontato Giuffrè nelle sue prime dichiarazioni ai pm di Palermo subito dopo la decisione di collaborare, sostenendo che Provenzano decise diversamente facendolo uccidere e proprio a casa sua. Un omicidio che mise in difficoltà Antonino Giuffrè che non osò mai chiedere «spiegazioni» a Bernardo Provenzano: «Perché dentro Cosa nostra certe domande non si fanno e se le avessi fatte avrei rischiato di essere ucciso».    FRANCESCO VIVIANO 09 ottobre 2002 La Repubblica

Il pentito Giuffrè:”Falcone e Borsellino nel mirino della mafia già dagli anni ’80 La decisione di uccidere Falcone e Borsellino era gia’ stata presa intorno alla meta’ degli anni ottanta. Un dossier dei Ros, in cui si parlava delle infiltrazioni di Cosa nostra sugli appalti pubblici, andava a mettere in pericolo gli interessi economici della Cupola.
Un’inchiesta in cui – secondo la mafia siciliana – c’era la mano di Borsellino. Da qui la decisione di eliminarlo perche’ rappresentava un ostacolo. E’ quanto ha sostenuto il pentito Antonino Giuffre’ davanti al Gip di Caltanissetta, Alessandra Giunta, nell’incidente probatorio dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, apertosi oggi a Roma nell’aula di Rebibbia.
Falcone e Borsellino erano nemici di Cosa nostra sin dai tempi di “Pizza Connection”.
Nella riunione della commissione provinciale di Cosa Nostra del Natale del 1991, convocata per gli auguri di fine anno, parteciparono, oltre a Toto’ Riina, Raffaele Ganci, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Matteo Motisi, Michelangelo La Barbera, Giuseppe Graviano e, secondo Giuffre’, anche Salvuccio Madonia. In quella sede, fu stabilito di proseguire con le stragi. Sulla presenza di Madonia, figlio di Francesco, boss incontrastato del mandamento di San Lorenzo, in un altro processo, Giuffre’ aveva detto di essersi incontrato con “Salvuccio” fra l’87 e il 91 una sola volta, e che in quell’occasione si era parlato di altro.
Giuffre’ ha anche riferito di un altro incontro con il boss di San Lorenzo avvenuto nel ’92. A questo punto Madonia, ha reso delle dichiarazioni spontanee sostenendo che era impossibile perche’ lui e’ detenuto dal 13 dicembre del ’91. Proprio su questi passaggi, la difesa, rappresentata dall’avvocato Flavio Sinatra, ha proceduto a contestazione. Inoltre, sempre la difesa ha fatto rilevare che fino al 2002, Giuffre’ non aveva mai parlato di questa riunione della commissione provinciale. Sulle modalita’ esecutive delle stragi, Giuffre’ non e’ entrato nei particolari perche’ ha detto di non esserne a conoscenza. Oggi, sempre a “Rebibbia” verra’ ascoltato Giovanni Brusca, giovedi’ sara’ la volta di Gaspare Spatuzza e venerdi’ verranno ascoltati Spatuzza e Tommaso Cannella. Salvuccio Madonia, nell’ambito del nuovo filone d’inchiesta per la strage di via D’Amelio, e’ accusato di essere uno dei mandanti della strage. Gli altri indagati sono Vittorio Tutino, Salvatore Vitale e Calogero Pulci, ex collaboratore di giustizia accusato solo di calunnia aggravata. 06/06/2012 – IL FATTO NISSENO


Giuffré racconta la trattativa: “Riina venduto. Provenzano protetto” E sulla politica aggiunge: “Nel ’94 scegliemmo Forza Italia” Ad una settimana esatta dalle intimidazioni che il capo dei capi, Salvatore Riina, ha rivolto nei confronti del sostituto procuratore Antonino Di Matteo (oggi non presente in aula), e al resto del pool sull’inchiesta della trattativa (rappresentato dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia), si è tornati oggi innanzi alla Corte d’assise, presso l’aula bunker dell’Ucciardone. A stemperare il clima pesante, ieri rafforzato dalle ulteriori minacce nei confronti del pm di Caltanissetta Domenico Gozzo e del capo procuratore di Trapani Marcello Viola, sono presenti in aula il capo procuratore di Palermo, Francesco Messineo, ed il presidente di Libera Don Luigi Ciotti. Quest’ultimo è stato accompagnato da un certo numero di ragazzi che si sono seduti, assieme a qualche Agenda Rossa, negli spazi riservati al pubblico. E’ proprio Messineo a prendere la parola per primo in apertura d’udienza “per esprimere la propria gratitudine, da parte di tutti i magistrati, per la partecipazione e la vicinanza dimostrata in merito alle ultime vicende. Questo processo si deve celebrare in un clima di serenità tenendo bene a mente che la spinta che ci muove è semplicemente quello della ricerca della verità”. Ed è proprio in questa  direzione che si svolge l’esame del collaboratore di giustizia Antonino Giuffré. L’ex capomandamento di Caccamo, in passato tra i fedelissimi di Bernardo Provenzano ha ripercorso gli anni delle stragi partendo dal principio, ovvero dalla famosa riunione del dicembre 1991 in cui Riina riunì la Cupola dando il via alla stagione di morte. “Ho partecipato alla riunione in cui Cosa nostra, nel dicembre del 1991, avviò la cosiddetta resa dei conti nei confronti di persone ostili a Cosa nostra: politici inaffidabili come Lima o magistrati. In quell’occasione furono decisi gli omicidi. Tanto è vero che nel 1992 fu ucciso Salvatore Lima e poi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, ha detto Giuffrè rispondendo alle domande del pm Francesco Del Bene. Secondo il pentito, questo non era l’unico politico da punire. “Dopo la riunione iniziò una politica di aggressione a chi veniva considerato un traditore. C’erano altri nella lista come i cugini Salvo, Calogero Mannino, Carlo Vizzini e Salvo Andò. Quando venne ammazzato Lima – racconta Giuffrè – in Cosa nostra si disse: ‘ucciderne uno per insegnare a cento’ (citando il famoso detto di Mao Tse-tung ndr). Insomma è stato un segnale mandato a tante altre persone politiche, il primo fra tutti era Andreotti, ma anche Martelli e altri. Il motivo? Eravamo stati abbandonati. C’era il discorso dei processi, le operazioni di polizia continue sotto la guida di Falcone e Borsellino, le operazioni in America, il maxiprocesso. Quest’ultimo fu la goccia che fece traboccare il vaso. Per Riina era anche diventata una questione di immagine perché andava sempre rassicurando tutti che le cose si sarebbero sistemate invece quando hanno spostato la sezione giudicante in Cassazione si è capito che le cose sarebbero andate male e così si è dato il via all’aggressione violenta rispetto a certi personaggi”. Ma se sull’assassinio dei nemici giurati, Falcone e Borsellino, c’è poco da aggiungere, Giuffré si è soffermato sugli anni antecedenti, raccontando che già dal 1987 la mafia cambiò in parte rotta spostando i suoi voti dalla Dc al Psi e ai Radicali. “Il discorso che fece Riina fu quello di cercare punti d’appoggio più solidi perché i referenti precedenti si stavano dimostrando inaffidabili”.

Chi tace acconsente  “Quando Riina – ha aggiunto nuovamente Giuffré sulla riunione di dicembre – comunicò alla commissione questa decisione di voler uccidere politici e magistrati nessuno osò opporsi. C’era silenzio assoluto, non si sentivano volare neanche le mosche”. Una riunione, quella, a cui non avrebbe partecipato Bernardo Provenzano. Quest’ultimo, in base a quanto rivelatogli dallo stesso “tratturi”, avrebbe però contribuito alla decisione di eliminare Lima sposando la linea di Riina. “Fu Riina a dirmi esplicitamente ‘Io e Binnu possiamo anche avere vedute diverse, e magari è giusto così. Ma quando ci alziamo dal tavolo puoi stare certo che siamo in perfetta sintonia’”.

Un nuovo Provenzano Tuttavia la sintonia tra i due, col passare degli anni, si modificò radicalmente. “Nel ’93, dopo le stragi di Falcone e Borsellino incontrai Provenzano – ha aggiunto l’ex capomandamento di Caccamo – Era un altro uomo: aveva adottato la strategia del ‘calati iunco che passa la piena’. Aveva un atteggiamento da ‘vergine’ come se le colpe di quanto fosse accaduto fossero solo di Riina. A quel punto Provenzano mi disse che si doveva mettere da parte l’attacco frontale allo Stato perché contro lo Stato si perde. Mi disse di non fare scruscio (rumore, ndr) e tornare ai discorsi antecedenti al cataclisma perché in sei o sette anni di questa strada ne saremmo usciti fuori”. E’ dall’arresto di Riina che Cosa nostra inizia un percorso di “divisione” in due correnti. Da una parte l’ala provenzaniana, dall’altra quella di Luca Bagarella, Giovanni Brusca ed altri fedelissimi del “capo dei capi” che proseguirono l’attacco allo Stato con le stragi di Firenze, Roma e Milano per concludersi con il fallito attentato all’Olimpico nel 1994. “Noi vivemmo quel momento quasi con paura – ha ricordato il pentito – perché le stragi avevano addirittura superato il Continente”.

Sbirritudine e trattativa Ma Giuffré è anche intervenuto in merito ai fatti riguardanti l’arresto di Riina. “Dopo l’arresto di Riina nel nostro gruppo si pensava che qualcuno l’avesse venduto e che non avessero disposto la perquisizione della sua casa per non trovare tracce, documenti”. Secondo il collaboratore di giustizia la cattura di Riina, e quella dei suoi più stretti sodali (dai Graviano a Brusca, passando per Bagarella), sarebbe stata oggetto di una trattativa avviata tra il boss Bernardo Provenzano e una parte dello Stato. “A chi fu venduto Riina? A quella parte di Stato che per alcuni versi aveva avuto una vicinanza con Cosa nostra – ha risposto Giuffré – E dentro lo Stato alcuni operarono in buona fede, altri furono convinti con il ricatto, altri erano invece in assoluta malafede. Riina sferrò un attacco potente contro una parte di quel potere che aveva avuto un ruolo nell’appoggio di Cosa nostra e le stragi servirono per convincere anche lo Stato ad intervenire per porre fine a questa cosa. Chiamiamola ragione di Stato se vogliamo fatto sta che la consegna, la messa a parte della frangia violenta di Cosa nostra che aveva attaccato lo Stato, è stato il prezzo da pagare”.  
E in questo quadro di “do ut des”, secondo l’ex capomandamento di Caccamo, da una parte c’erano i politici che erano nella lista nera della mafia, i quali hanno guadagnato più serenità, visto che erano finiti in cella i boss stragisti, e dall’altra la mafia che ha ottenuto “benefici e un allentamento delle maglie repressive”.
Ma nel suo racconto Giuffré va addirittura più indietro rispetto al biennio ’92-’93: “In Cosa nostra agli inizi degli anni Ottanta c’era il sospetto tra alcuni di noi che Provenzano avesse rapporti con gli ‘sbirri’, cioè con le forze dell’ordine. Io non avevo notizie ufficiali ma era una voce che correva da tempo. I più vecchi dicevano di stare attenti a lui sia per le ‘tragedie’ che per la sua ‘sbirritudine’. Io misi insieme quelle voci con le voci che poi in seguito, negli anni Novanta venivano da Catania. Si diceva che Provenzano passasse notizie agli ‘sbirri’ tramite la moglie”.
Poi ha continuato: “Provenzano un giorno mi chiese: ma tu credi che io sia sbirro? Io non potevo contraddirlo e gli dissi: lungi da me”. Mentre secondo Giuffre’ “Toto’ Riina era considerato un purosangue, un malandrino al cento per cento”, che non dava informazioni ma a volte riceveva informazioni.

La missione di Ciancimino  Rispondendo alle domande dei pm Giuffré ha poi parlato del ruolo di Ciancimino in seno al dialogo che lui aveva saputo essere “con i carabinieri”. “Quando uscirono le notizie che Ciancimino parlava con gli inquirenti fu Provenzano a dirmi di stare tranquillo, che era in missione per conto degli interessi di Cosa nostra – ha riferito – interessi di cui molto guadagna Provenzano non solo in termini di potere. Durante la latitanza di Provenzano a Belmonte Mezzagno, nella zona di Mezzojuso ci fu un certo allarme perché qualcuno aveva detto che Provenzano si trovava in quelle zone. Era grossomodo il 1995. Provenzano mi diede il compito di trovare un luogo nascosto dove ci saremmo dovuti incontrare con questo “confidente” per ucciderlo, poi però lo stesso ‘Binnu’ mi disse che era stato già ucciso. Si chiamava Luigi Ilardo ed era parente di Giuseppe Madonia. Tempo dopo ancora, nel 2001 quando arrestarono Benedetto Spera, nel villino affianco c’era Provenzano e nessuno andò a perquisire quell’abitazione”. 

I nuovi referenti politici Nell’ultima parte dell’udienza Giuffré ha poi toccato il tema dei nuovi referenti politici che Cosa nostra ha ricercato negli anni immediatamente dopo le stragi. “In Cosa nostra ci adoperammo tutti per dare una mano a Forza Italia, la forza politica che allora stava nascendo“. Il collaboratore di giustizia ha indicato nell’ex senatore Marcello Dell’Utri il tramite tra la mafia e Silvio Berlusconi. “Dell’Utri – ha aggiunto – era in contatto con Brancaccio e coi fratelli Graviano. Tra il ’93 ed il ’94 c’è l’inizio di un nuovo capitolo: si apre un nuovo corso tra Cosa nostra e la Politica. Provenzano all’inizio era un pò freddo poi, parlando di Dell’Utri e di Forza Italia, mi disse ‘Siamo in buone mani’”.

La lettera di Napolitano Prima della testimonianza di Giuffré la Corte di Assise di Palermo ha annunciato che depositerà, a disposizione delle parti, la lettera inviata ai giudici dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano.
“Con la lettera pervenuta in cancelleria il 7 novembre 2013 – ha detto in aula il giudice Alfredo Montalto – il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel manifestare la propria disponibilità a testimoniare, chiede che si valuti ulteriormente, anche in applicazione della previsione di cui all’articolo 495 comma 4 del codice di procedura penale, l’utilità del reale contributo che tale testimonianza potrebbe dare, tenuto conto delle limitate conoscenze sui fatti di cui al capitolato di prova, che nella medesima lettera vengono dettagliatamente riferite”. Una volta acquisita le parti “potranno pronunciarsi sulla sua acquisizione ed utilizzabilità – ha detto ancora il presidente Montalto – riservato all’esito ogni provvedimento di competenza della corte”. Ciò significa che dopo la lettura del messaggio di Napolitano ai giudici di Palermo, si potrebbe riaprire la discussione sulla citazione o meno del Capo dello Stato al processo sulla trattativa. L’udienza è stata quindi rinviata a domani quando il pentito dovrà rispondere alle domande delle parti civili e delle difese.
Il “pentito della montagna”, così come fu definito il collaboratore di giustizia Antonino Giuffré dal giornalista Saverio Lodato, ha colpito ancora. Preciso, puntuale, coerente e inquietante, soprattutto per i potenti e i politici alleati con la mafia.
Udienza dopo udienza comprendiamo sempre di più quali spaventosi scenari possa aprire questo dibattimento e comprendiamo sempre di più le minacce del “parafulmine d’Italia”, Totò Riina, rivolte ai  giudici di questo processo.  ANTIMAFIA DUEMILA di Giorgio Bongiovanni ed Aaron Pettinari – 21 novembre 2013


Cosa nostra, la soluzione finale Nino Giuffré, l’ultimo pentito, racconta il «campo di sterminio» di Bernardo Provenzano, a Bagheria. Eccolo, ed ecco la sua storia. Una storia di voti e affari che non si interrompe mai, nemmeno quando arrivano la lupara bianca e l’acido che scioglie i corpi  Questo testo. «Un campo di sterminio» di Cosa nostra. Con queste parole Nino Giuffré, l’ultimi dei «pentiti», ha descritto un’area alla periferia di Bagheria. Siamo andati a visitarla. Un’occasione per fare il punto anche sulla controversa collaborazione di Giuffré, che divide i magistrati palermitani tra entusiasti, scettici e così così. 

È alle porte di Bagheria il «campo di sterminio» di Cosa nostra. Lo chiama proprio così – «campo di sterminio» – Antonino Giuffré, l’ultimo dei «pentiti»: «Era un deposito di ferro a Bagheria, situato ai bordi, ai limiti, dell’autostrada Palermo-Catania… In questo posto venivano dati appuntamenti a quelle persone che non erano più ritenute affidabili e una volta che arrivavano lì non facevano più ritorno a casa… Era come un campo di sterminio, uno dei campi di sterminio di Cosa nostra». 
«Campo di sterminio» è un’espressione chiave della storia del Novecento. Indica il luogo dell’assassinio. Di più, il luogo della pianificazione scientifica dell’assassinio, della morte come metodo, come ingegneria. E Giuffré è un uomo attento alle parole. Capomafia, braccio destro del capo dei capi Bernardo Provenzano, ha un titolo di studio, un diploma di scuola media superiore, è perito agrario, ha fatto l’insegnante. Ai magistrati che lo interrogano risponde con voce sicura, proprietà di linguaggio, ragionamenti stringenti. Alle domande cui vuole dare risposta affermativa, invece di dire sì, spesso replica: «Perfetto». Quando ha dovuto spiegare che cos’era «il deposito del ferro» di Bagheria, che a volte chiama semplicemente «il ferro», ha detto senza emozione: «È il campo di sterminio di Cosa nostra». 
Oggi di quel «campo», proprio a ridosso dello svincolo dell’autostrada, resta un vasto cortile ingombro di materiale per l’edilizia, una costruzione senza intonaco, una rete e un cancello sbarrato. È una proprietà confiscata dallo Stato: è stata il primo tra i beni mafiosi sequestrati, dopo l’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre. Ma non è ancora a disposizione dello Stato: anche dopo il sequestro, vi sono continuate le riuniuni dei mafiosi. Ieri era la Icre, una sigla che significava «Industria chiodi e reti», un’azienda controllata da Leonardo Greco, mafioso di rango. Non fabbricava nulla, in verità, ma vendeva tondino di ferro e altro materiale per l’edilizia a chiunque volesse costruire nella zona. Tutti dovevano acquistare lì: la concorrenza e il libero mercato non sono troppo graditi, nella Sicilia della mafia. Il tondino arrivava dal Nord, da fabbriche vere. Come quella di Oliviero Tognoli, industriale bresciano molto, molto amico degli uomini d’onore. Indagato da Giovanni Falcone, quando la polizia andò a sorpresa ad arrestarlo, non lo trovò: qualcuno aveva fatto una soffiata. Falcone – secondo la testimonianza processuale dell’ex procuratore svizzero Carla Del Ponte – si era convinto che ad avvertire Tognoli fosse stato Bruno Contrada, poliziotto e uomo dei servizi segreti. 
Ma la Icre era ben più di un’azienda che vendeva tondino di ferro, reti metalliche, chiodi. Era un’importantissima base di Cosa nostra. Luogo appartato in un contesto ad alta densità mafiosa, era il centro dove i boss potevano incontrarsi e tenere riunioni riservate; ed era il tranquillo mattatoio di Bernardo Provenzano. A partire dal 1981, quando scoppia la «guerra di mafia» che i corleonesi di Totò Riina e Provenzano dichiarano a Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, sono decine e decine gli uomini che entrano «al ferro» e non ne escono più. Strangolati, poi i corpi sciolti nell’acido. In silenzio, senza clamore. 
Oggi Giuffré detto «Manuzza» toglie dall’oblio anche questa vecchia vicenda dimenticata e vi aggiunge nomi, fatti, particolari; e soprattutto una definizione destinata a restare: quello era «il campo di sterminio» di Cosa nostra. Lì, rivela Giuffré, avviene una riunione storica. «Siamo agli inizi del 1981, dopo l’uccisione di Bontate e Inzerillo, cioè siamo agli albori dello scoppio della guerra di mafia… Il punto di riferimento era il deposito del ferro a Bagheria, situato ai bordi dell’autostrada Palermo-Catania. Quando siamo arrivati là c’erano diverse altre persone». Giuffré vi arriva con Ciccio Intile, il boss di Caccamo di cui «Manuzza» era allora il braccio destro e di cui poi prenderà il posto. Era presente il padrone di casa, Leonardo Greco, e una decina di persone. «Ha preso la parola Leonardo Greco e ha detto che era iniziata la scalata al potere da parte dei corleonesi e che lui e la sua “famiglia”, in linea di massima, avevano fatto una scelta ben precisa: Bernardo Provenzano. Quindi consigliava, era sottinteso, di schierarsi, i vari mandamenti, con Bernardo Provenzano». È fatta: i corleonesi hanno iniziato la guerra. Per chi non ci sta, o anche solo tentenna, non c’è scampo. 
ROCCAFORTE. «Successivamente diciamo che, saltuariamente, Provenzano fa delle capatine al deposito del ferro a Bagheria e questo diventerà, diciamo, la sua roccaforte, cioè il posto dove lui farà tutti, o buona parte, dei suoi appuntamenti». Nel fabbricato in fondo al cortile, Provenzano stabilisce il suo ufficio, da cui guida gli affari di Cosa nostra, quelli militari, ma soprattutto quelli di soldi, relazioni, appalti. Da lui, «al ferro», vanno in pellegrinaggio i capi locali delle famiglie siciliane. «Ricordo benissimo che ci recavamo a Bagheria, “al ferro”, di mattina, e c’era Provenzano», ribadisce Giuffré. 
Per chi non era ritenuto fedele al nuovo corso corleonese, «il ferro» diventa la stazione d’arrivo di un viaggio senza ritorno. «È stato anche un posto dove venivano sterminati gli avversari del lato corleonese. Cioè, in questo posto venivano dati appuntamenti anche a quelle persone che non erano più ritenute affidabili, e una volta che arrivavano lì non facevano più ritorno a casa. Venivano uccisi. Quindi, questo posto aveva una duplice funzione: una era come campo di sterminio, uno dei campi di sterminio di Cosa nostra, in modo particolare di Provenzano; secondo, come posto dei suoi appuntamenti con le persone più vicine». 
È di martedì 3 dicembre 2002, intanto, la notizia che la Cassazione ha deciso di scarcerare per scadenza dei termini gli uomini del «ferro»: Leonardo Greco, ex proprietario dell’area, suo fratello Niccolò e Vincenzo Giammanco, chiamato «’u ragioniere», addetto alla contabilità delle aziende di Greco e Provenzano. Volonterosi funzionari del «campo di sterminio» di Cosa nostra. 
MOSTRI. Sono passati vent’anni, e qualcosa è cambiato a Bagheria. Il traffico è peggiorato, le case abusive sono aumentate, si costruiscono nuove chiese con i soldi del Comune; e Cosa nostra è diventata silenziosa, invisibile. Per il resto, il panorama non è tanto diverso dai tempi in cui Provenzano qui era di casa. Il posto giusto, per il più politico dei mafiosi. «Perché a Bagheria non c’è mai stata distinzione tra mafia e politica, qui la mafia non è mai stata un contropotere, è sempre stata il potere», dice Vincenzo Drago, ex corrispondente del quotidiano L’Ora, ex consigliere comunale comunista, oggi animatore di un prezioso periodico locale, Il nuovo Paese, sottotitolo «Ambiente, cultura, diritti, informazione in un’area ad alta densità mafiosa». 
Nel 1972 Drago fu radiato dal Pci «per indisciplina». «Avevo dato le dimissioni dal consiglio comunale, dichiarando che non potevo più stare in un organismo che era nelle mani della speculazione edilizia e della mafia, mentre stava nascendo il piano regolatore». Quel piano poi fu approvato quattro anni dopo, ma oggi si fatica a credere che possa esserci un piano per l’infinito disordine edilizio di Bagheria, con le case che hanno soffocato le ville di tufo rosato, bellissime e struggenti. 
Nel Settecento, questa ventosa piana di agrumi, vigneti, fichi d’india (Bab el gherib in arabo significa porta del vento, come scrive Dacia Maraini) era la campagna dei signori palermitani, luogo di villeggiatura dei nobili: il principe di Butera, o l’eccentrico principe di Palagonia, che edificò la Villa dei Mostri, decorata con centinaia di grandi statue in pietra tufacea d’Aspra, gobbi, storpi, draghi, centauri, grifoni, sirene, dame, cavalieri, musicisti… Il principe, narrano le cronache, faceva sedere gli ospiti su morbidi cuscini dentro i quali, però, aveva fatto mettere delle spine. 
«Questa villa è come Bagheria», dice Drago, «qui il potere è sempre stato mostruoso. Villa Palagonia passò in proprietà ad antichi sindaci e notai poi inquisiti per “maffia”, come si diceva allora. Don Raffaele Palizzolo, accusato del delitto Notarbartolo, era stato eletto nel collegio di Bagheria. Il prefetto Mori a Bagheria e dintorni arrestò trecento persone, nel 1923, ma dovette anche commissariare le locali sezioni del Fascio. Poi arrivò la Dc di Franco Restivo, che fu anche ministro a Roma ma che a Bagheria aveva il suo feudo elettorale, curato dal suo compare, il capomafia Antonio Mineo. Infine vennero gli andreottiani di Salvo Lima. Nel 1990 qui Giulio Andreotti fece un viaggio trionfale, accompagnato da Lima. A Bagheria», ricorda Drago, «il consiglio comunale è stato sciolto tredici volte, le ultime due nel 1993 e nel 1999». 
Qui la mafia non ha mai dichiarato guerra alla politica – come ha voluto fare Riina nel 1992 – perché qui la mafia è sempre stata politica. Poteva dunque esserci posto migliore per Bernardo Provenzano? Voti e affari, sorrisi e strette di mano, comizi e nastri tagliati non si interrompono mai, nemmeno quando entrano in funzione, in silenzio, la lupara bianca e l’acido che scioglie i corpi. Il «campo di sterminio» del «ferro» ha un precedente: nei primi anni Settanta, sul monte Catalfano, di fronte a Bagheria, fu scoperto un cimitero della mafia, furono disseppelliti almeno venti chili di ossa umane. Del resto, Bagheria è forse l’unico paese d’Italia ad avere intitolato una piazza a un mafioso, Pasquale Alfano, solo da poco diventata, dopo le proteste sollevate da Il nuovo Paese, piazza Beppe Montana. 
BINGO! A pochi chilometri da Bagheria, a Palermo, si discute del mistero Giuffré, che ha riportato alla luce questa e tante altre storie, vecchie e nuove, di mafia e di politica. La città esulta per il record italiano di vincite al Bingo: Rosalia Ferreri, casalinga, ha sbancato la sala di via Molinari. Grazie al numero 42 ha vinto poco meno di 22 mila euro, mettendo insieme il numero che porta fortuna (23) con quello che annuncia disgrazia (17). La Sicilia è così, fortuna e disgrazia sono sempre mischiate. Tra poco scadranno i 180 giorni che una curiosa legge impone come periodo entro il quale i collaboratori di giustizia devono raccontare tutto, proprio tutto. Per Natale, dunque, i giochi saranno fatti. I verbali degli interrogatori del «nuovo Buscetta», finora blindatissimi, cominceranno a essere depositati nei processi in corso (già fatto per quello Andreotti e per quello contro Marcello Dell’Utri) e daranno origine a nuovi procedimenti. Si capirà finalmente se Giuffré è davvero il «nuovo Buscetta», se porterà fortuna o disgrazia, o entrambe. 
Dentro il palazzo di giustizia, tra i magistrati e gli investigatori, ci sono gli entusiasti, sicuri che Giuffré abbia portato nuovi elementi anche sui rapporti tra mafia e politica: i contatti tra gli andreottiani e i boss di Cosa nostra, il passaggio al Psi imposto da Riina nel 1987, il ritorno alla Dc voluto da Provenzano, il tentativo, nei primi anni Novanta, di fare un partito in casa («Sicilia libera») e l’approdo finale a Forza Italia, con la mediazione, tra gli altri, di Marcello Dell’Utri, Massimo Maria Berruti, Gaspare Giudice. Le rivelazioni di Giuffré, sostengono poi gli entusiasti, faranno cortocircuito con quelle di un altro nuovo «pentito» le cui rivelazioni potrebbero essere devastanti: quel Pino Lipari che era il grande consigliere di Provenzano per gli appalti e i rapporti con la politica, l’uomo che ha sostituito Angelo Siino nel ruolo di «ministro dei Lavori pubblici» di Cosa nostra. 
Qualcuno, invece, resta del tutto scettico: Giuffré parla, parla, ma racconta cose che già si conoscono, non aggiunge nulla di veramente nuovo e soprattutto processualmente utilizzabile. E poi, come farebbe a svelare eventuali connivenze del potere con la mafia? La commissione da cui dipende oggi la sua vita è espressione di quel potere di cui eventualmente dovrebbe svelare gli scheletri negli armadi. È un effetto della nuova legge sui pentiti, che li schiaccia sulla contingenza politica, obbligandoli a dire tutto entro 180 giorni. Quanto a Pino Lipari, dicono gli scettici, è uno che fa il furbo, che sa tutto e non dice niente. Un nuovo Ciancimino, che non ha rotto davvero con l’organizzazione criminale. 
Altri sono più cauti: quasi del tutto scomparsi i dubbi iniziali sull’autenticità della collaborazione di Giuffré, ritengono che dica la verità, anche se con molte omissioni. Sa molto, ma dice quello che vuole; e ciò che non racconta, ci tiene a far capire che lo sa. Studia molto i suoi interlocutori, valuta quanto siano disposti ad approfondire. Sui rapporti di Andreotti con Cosa nostra, per esempio, non aggiunge fatti concreti e determinanti, però conferma il quadro accusatorio e ciò è ancora più importante perché proviene, per la prima volta, da un collaboratore dell’ala Provenzano, non di quella Riina. Anche sui rapporti con Forza Italia, dicono, emergeranno nomi e fatti, promesse e patti. Si esce da un interrogatorio di Giuffré – racconta un magistrato – come si esce da uno di quei film che non sono certamente dei capolavori ma sono molto discussi. Qualcuno dice: è un bel film. Altri dicono: è brutto. Dipende dalle aspettative con cui si era entrati in sala. I risultati delle confessioni di Giuffré sono certamente inferiori al suo spessore di uomo d’onore. Ma di questi tempi, in questo contesto politico, che cosa aspettarsi di più? Chi sperava salti decisivi nella conoscenza di Cosa nostra e dei suoi rapporti con il potere sarà deluso: ha compiuto una scelta di collaborazione di basso profilo, e per di più in questo contesto politico, e con l’imprinting dato dai primi interrogatori – dicono i cauti – che non lo hanno incalzato troppo sui rapporti con la politica. Però Giuffré spiega scenari, racconta episodi, rivela nomi. Ce ne saranno, di novità. 
COMPUTER. L’episodio che ha messo tutti in allarme negli ultimi giorni è il tentativo di violare il computer del sostituto procuratore Michele Prestipino, il magistrato di Palermo che ha condotto i primi interrogatori di Giuffré. Questo attacco informatico ha contribuito a compattare l’intera Procura: entusiasti, scettici e così così. Ma che cosa cercavano dentro il computer di Prestipino? E chi ha tentato di strappare informazioni? Le domande evocano comunque risposte inquietanti: non può essere stato un mafioso con la coppola a manipolare il computer. Nessuno lo vuole dichiarare, ma i sospetti sono tutti per qualche uomo degli apparati di Stato. Qualcuno che ha fretta, molta fretta di sapere che cosa sta dichiarando Giuffré, o di che cosa sta parlando Pino Lipari, oppure se c’è qualcuno che sta facendo il doppio gioco. 
Doppio gioco? Qui lo scenario si fa terribilmente complesso, prendono forma le più ardite ipotesi dietrologiche, si animano i fantasmi di rapporti tra pezzi di Cosa nostra e pezzi degli apparati. Giuffré, in un interrogatorio a Padova durante il processo Biondolillo, ha raccontato i contrasti insorti tra Riina e Provenzano, cioè tra l’ala stragista (guidata dopo l’arresto di Riina da Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Vito Vitale) e l’ala più «politica» (quella di Giuffré, di Carlo Greco e Pietro Aglieri, che conquistano poi anche Benedetto Spera, Raffaele Ganci e Totò Cancemi). «Più di una volta io e Benedetto Spera abbiamo avanzato ufficialmente richiesta a Provenzano per uccidere Brusca», dice Giuffré. 
La richiesta non è stata accolta, ma «Manuzza» aggiunge: «Se devo pensare un pochino male, potrei pensare anche altre cose poco belle, che l’arresto di Brusca potrebbe essere stato anche pilotato». Oltre a Brusca, sono finiti in cella anche Bagarella, Vitale e altri dell’ala di Riina, e Riina stesso, senza che i carabinieri abbiano mai perquisito la casa dove viveva. Poi Provenzano, con i suoi massimi consiglieri «politici» Pino Lipari e Masino Cannella – spiega Giuffré – «comincia a portare avanti il processo di sommersione, cioè rendere Cosa nostra invisibile affinché ci si potesse con calma riorganizzare». Ma come ha fatto Provenzano a restare invece imprendibile? E se fosse vera la «malpensata» di Giuffré, come ha fatto a «pilotare» quegli arresti? Provenzano, insomma, ha qualche rapporto sotterraneo con qualche corpo dello Stato? 
Forse le due anime di Cosa nostra sono ancora in guerra. Provenzano e i suoi sembrano, oggi, i vincenti: pacati e astuti nel metodo, spregiudicati nei rapporti. Sempre animati dallo spirito di Bagheria, affari e forza, politica e armi, assessori, deputati e «campi di sterminio». Ma Bagarella, dal carcere, ha chiamato a raccolta i suoi uomini ancora liberi: Matteo Messina Denaro è il boss più potente e ricco rimasto in libertà. Forse la partita si gioca non solo sul campo, ma anche nei rapporti con le istituzioni. Chi sarà catturato per primo? Chi ha più strumenti di ricatto? Chi più rapporti con lo Stato? Comunque andrà a finire, da oggi nel lessico italiano l’espressione «campo di sterminio» descrive anche il luogo della morte pianificata dalla più potente e sfuggente delle nostre organizzazioni criminali. Da Diario del 06/12/2002di Gianni Barbacetto


Nel verbale dell’interrogatorio del pentito le accuse a Dell’Utri e gli agganci con i vertici di Forza Italia
Giuffré: il boss Graviano era il tramite con Berlusconi Il verbale di interrogatorio dell’8 novembre scorso raccoglie le accuse del pentito Antonino Giuffré nei confronti di Marcello Dell’Utri. Le dichiarazioni del pentito sono state depositate oggi agli atti del processo al senatore di Forza Italia, accusato di concorso in associazione mafiosa. Secondo Giuffré, il boss latitante Bernardo Provenzano sarebbe riuscito ad agganciare i vertici di Forza Italia per presentare una serie di richieste su alcuni argomenti che interessavano l’organizzazione. Giuffré dice di aver appreso queste notizie direttamente da Provenzano nel gennaio ’93; il capo di Cosa nostra gli avrebbe assicurato che questi nuovi referenti politici nell’arco di dieci anni avrebbero fatto ottenere questi risultati.

I referenti. In uno dei passaggi del verbale, Giuffré dichiara: “Per non commettere l’errore del passato occorreva scegliere dei referenti che portassero avanti con determinazione la risoluzione dei problemi che affliggevano Cosa nostra da ormai lungo tempo”. L’ex boss di Caccamo sostiene di aver parlato di questi “referenti” con il capomafia Bernardo Provenzano e con Carlo Greco e Pietro Aglieri.Il 41 bis. Per Giuffré “Provenzano era interessato alla revisione della legislazione antimafia: in particolare alla revisione dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, alla revisione dei processi, alla revisione della legislazione sui collaboratori di giustizia, sul sequestro dei beni, e più in generale all’alleggerimento della pressione della magistratura”.
L’omicidio Lima. Giuffré sostiene inoltre che l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima aveva sancito una rottura con la Democrazia Cristiana che rendeva necessari nuovi rapporti con la politica da parte di Cosa Nostra per avere maggiori garanzie. Sul rapporto tra Cosa nostra e quella che il pentito definisce “nuova formazione politica” e che poi esplicita essere Forza Italia, Giuffré dice: “Vi sono state due fasi. Quella dell’acquisizione delle ‘garanzie’ e quella della ricerca dei referenti ‘giusti’ sul territorio per le varie elezioni, e cioè candidati almeno apparentemente ‘puliti’, non dovevano essere sotto inchiesta della magistratura, e quindi non potevano avere alcun timore a portare avanti la politica che interessava a Cosa nostra”.
Graviano in contato con Berlusconi. Giuffré parla “delle strade per giungere ai vertici del nuovo partito”. “I boss Filippo e Giuseppe Graviano insieme all’imprenditore Gianni Ienna facevano da tramite direttamente fra Cosa Nostra e Berlusconi” afferma l’ex capomafia di Caccamo. I pm chiedono al pentito il perché di questa scelta. “Signor procuratore” risponde Giuffré, “Berlusconi era conosciuto come imprenditore e per le sue emittenti. E’ una persona abbastanza capace di portare avanti un pochino le sorti dell’Italia”.
Lo stalliere di Arcore. Il collaboratore viene ripreso dal pm, il quale chiede se in passato “c’erano state altre occasioni in cui le dinamiche di Cosa nostra o le attività dell’organizzazione si erano incrociata con quella imprenditoriale di questo soggetto”. “Sin da allora” risponde Giuffré “sapevamo il discorso dello stalliere, sapevamo di Mangano che era alle dipendenze di Berlusconi, insomma sapevamo già da tempo che c’era un certo contatto tra Cosa nostra e Berlusconi, grazie alla persona che aveva direttamente in casa. Poi vi erano altre persone che aveva nei punti chiave della sua amministrazione, diciamo un’altra…”. Il collaboratore non aggiunge altro, e i magistrati non chiedono di conoscere il nome di questa persona.
Il “pizzo” alla Standa. Giuffré ricorda anche il tentativo di imporre il pizzo alla Standa in Sicilia. Una decisione che sarebbe stata presa da Totò Riina, su suggerimento del boss catanese Nitto Santapaola. Quest’ultimo, secondo il collaboratore, facendo pressioni sulle sedi della Standa “voleva intrattenere un rapporto diretto con Berlusconi”. Il neo pentito fa riferimento a un incontro avuto con i vertici di Cosa Nostra, dopo la sua scarcerazione avvenuta nel gennaio del ’93. Con Provenzano e i boss Pietro Aglieri e Carlo Greco, componenti della Cupola, Giuffré avrebbe parlato di Marcello Dell’Utri “che costituiva un canale tramite il quale Cosa Nostra aveva acquisito delle garanzie politiche per il futuro dell’organizzazione mafiosa”.
L’attentato all’Olimpico. Il collaboratore afferma che “a fronte di queste garanzie politiche, anche Cosa nostra doveva dare garanzie e in particolare venne chiesto all’organizzazione che si inabissasse e che non proseguisse la strategia stragista”. E ancora, Giuffré dice che l’esplosivo piazzato da Cosa nostra il 31 ottobre 1993 davanti all’Olimpico di Roma “doveva servire per colpire i carabinieri impegnati nell’ordine pubblico allo stadio e dare un segnale alle forze dell’ordine”. L’ex capomafia di Caccamo sostiene che l’esplosivo venne piazzato per volere di Bagarella, senza però collegarlo a “trattative”. “Doveva essere un messaggio mandato in alto loco, appositamente alle forze dell’ordine e in modo particolare ai carabinieri. Sarà stato uno dei soliti colpi di testa di Bagarella contro i carabinieri. Comunque, secondo me, è un segnale ben preciso lanciato esclusivamente alle forze dell’ordine”.
(La Repibblica 3 dicembre 2002)


IL PENTITO GIUFFRÈ CHIAMA IN CAUSA IL CAPOMAFIA SALVINO MADONIA. COSA NOSTRA VOLEVA ELIMINARE ANCHE L’EX MINISTRO SOCIALISTA ANDÒ  «Chiddu chi vene ni pigghiamu»: è l’inizio della resa dei conti. La guerra dichiarata da un Totò Riina disposto a tutto. «Quel che viene, ci prendiamo». Siamo tra la fine di novembre e gli inizi di dicembre del 1991 quando il capo dei capi di Cosa nostra comunica alla commissione provinciale l’inizio di una nuova fase, l’inizio della strategia terroristica. Riunito in un appartamento nel centro di Palermo c’è il gotha delle «famiglie»: Raffaele Ganci, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Matteo Motisi, Michelangelo La Barbera, Giuseppe Graviano. E Salvino Madonia. Nino Giuffrè lo ha ripetuto senza fare sconti al boss a cui per anni è stato legato da un vincolo più forte di quello di sangue: il vincolo dell’appartenenza a Cosa nostra. Al summit che sancì l’avvio dell’era stragista c’era pure Salvino Madonia, storico capomafia della cosca di san Lorenzo, rimasto indenne finora dall’accusa degli eccidi di Capaci e via D’Amelio. Nell’aula bunker del carcere di Rebibbia che fino a venerdì vedrà protagonisti quattro pentiti – Giuffrè, Giovanni Brusca, Tommaso Cannella e Gaspare Spatuzza – l’ ex capo mandamento di Caccamo torna a raccontare la drammatica riunione che cambiò la storia della mafia. Una deposizione fiume nel corso di un incidente probatorio davanti al gip di Caltanissetta Alessandra Giunta, chiesto nell’ambito della nuova inchiesta sulla strage di via D’Amelio che a marzo scorso ha portato all’emissione di quattro ordinanze di custodia cautelare a carico di Madonia, accusato di essere mandante dell’eccidio, Vittorio Tutino, l’uomo che avrebbe insieme a Spatuzza rubato l’auto poi imbottita di tritolo usata per fare saltare in aria Borsellino, Salvo Vitale, il basista che avrebbe dato il via libera avvertendo il commando dell’arrivo del giudice in via D’Amelio, e Calogero Pulci, il pentito dalle alterne vicende che, mentendo, avrebbe confermato i depistaggi di Vincenzo Scarantino. Per Madonia, Tutino e Vitale l’accusa è di concorso in strage. A Pulci i pm contestano la calunnia aggravata. Certo dell’esito negativo del maxiprocesso, prossimo alla sentenza di Cassazione, Riina comunicò una lista di personaggi da eliminare: nemici – come Giovanni Falcone – e vecchi amici che non avevano rispettato i patti. «Calogero Mannino, Salvo Andò e Salvo Lima», dice Giuffrè, il primo dei quattro pentiti a salire sul banco dei testi davanti ai pm della dda di Caltanissetta Nicolò Marino e Stefano Luciani. È lui a ricostruire la riunione in cui Riina tra il gelo dei partecipanti comunicò che era arrivato il momento in cui ognuno si sarebbe dovuto assumere le sue responsabilità. Una frase carica di significato a cui seguì una lunga scia di sangue e omicidi eccellenti come quello dell’eurodeputato dc Salvo Lima. Poi vennero Falcone e Borsellino. «Oggi in loro memoria – dice il pentito – si fanno grandi celebrazioni, ma quando erano vivi anche all’interno della magistratura non avevano molti amici e anche questo ha reso forte Totò Riina». Perchè, spiega, la mafia approfitta dell’isolamento dei suoi nemici. Una deposizione quella dell’ex capomafia che ha toccato anche un altro tema importantissimo nella ricostruzione dell’eccidio di via D’Amelio: quello della trattativa tra Strato e mafia che, secondo i pm, sarebbe stata scoperta da Borsellino e avrebbe portato all’accelerazione della decisione di eliminarlo. «Dalla stampa capii – dice Giuffrè che Vito Ciancimino (ex sindaco mafioso di Palermo n.d.r.) stava collaborando con le forze dell’ordine o con i magistrati e chiesi spiegazioni a Provenzano. Lui rispose: “Vito è in missione si occupa dei nostri interessi». Una frase sibillina, allora, per Giuffrè che letta alla luce delle tante verità emerse dalle indagini assume un significato sinistro: la trattativa c’è stata. Lara Sirignano – GDS  6 GIUGNO 2012 MONDO NEWS