🟧 ARCHIVIO – Paolo Borsellino mafia, affari e politica: tra la fuga di notizie, i pentiti e la “dottrina dei c.d. professionisti dell’antimafia”

 

VERBALE della I commissione referente relativo all’AUDIZIONE DEL DOTTOR BORSELLINO (10 dicembre 1991) con allegato: nota a firma Paolo Borsellino (9 settembre 1991

 

Assumono notevole rilievo le carte relative alla audizione di Paolo Borsellino dell’ottobre ’91 nell’ambito della procedura che condusse al trasferimento d’ufficio (disposto dal C.S.M., con delibera 1 luglio 1992) dell’allora Procuratore di Trapani, dott. Coci, per incompatibilità ambientale ex art. 2 Legge sulle Guarentigie.

Esse, infatti, offrono uno spaccato a tutto tondo del contesto ambientale giudiziario, ma anche socio-politico, nel quale Paolo Borsellino agiva a pochi mesi dal suo barbaro assassinio, con un coraggio che non si può esitare a definire eroicamente controcorrente.

Borsellino, all’epoca Procuratore di Marsala, venne, infatti, sentito dal C.S.M. in quanto la Procura di Trapani gli trasmise con un anno di ritardo verbali recanti dichiarazioni, definite dallo stesso Borsellino “dirompenti”, di due pentiti a carico di alcuni esponenti politici siciliani, definiti ‘uomini d’onore’.

Borsellino apprese, con un misto di sconcerto e stupore, il contenuto di quei verbali dei due collaboratori di giustizia soltanto attraverso un articolo di stampa, pubblicato in conseguenza di una “fuga di notizie”.

Al di là dei fatti storici, già in sé di sommo interesse, evincibili dagli atti che seguono, le carte in esame fanno emergere due antinomici modelli di magistrato requirente in relazione al contrasto del fenomeno mafioso al tempo in cui operava Paolo Borsellino.

Da un lato, l’atteggiamento del magistrato requirente, denominato nella citata delibera C.S.M. “dottrina Coci” (dal cognome del Procuratore di Trapani trasferito d’ufficio), che, muovendo dalla rassegnata considerazione della esistenza atavica del fenomeno mafioso, col quale inevitabilmente si doveva convivere, operava con eccesso di prudenza nell’azione investigativa antimafia, teorizzando l’opportunità di una limitata esposizione al rischio e, pertanto, di una ridotta  visibilità.

Al riguardo, così si legge nella delibera C.S.M., adottata tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio: “la dottrina Coci sul ruolo del Procuratore della Repubblica in aree di criminalità organizzata … si risolveva, da un lato, nel consiglio a non esporsi troppo con atti che potessero indurre i criminali ad azioni violente contro la persona e, dall’altro, in una valutazione rassegnata del fenomeno della mafia e delle sue conseguenze sociali’’.

Al contempo, emerge dalle carte consiliari come i teorici della prudenza nella lotta alla mafia erano allo stesso tempo aspramente critici nei confronti dei colleghi che si erano distinti invece per coraggio e per i risultati nel contrasto al fenomeno mafioso, qualificati alla stregua di “professionisti dell’antimafia”, termine ingeneroso e infelice coniato da Sciascia in un articolo di stampa del gennaio 1987, che la stessa delibera C.S.M. in esame definisce “… articolo sfortunato, di scrittore molto apprezzato, ma in questo caso dimostratosi poco consapevole delle conseguenze della portata del suo messaggio, il quale intese censurare la valorizzazione di alcuni magistrati che si erano distinti nell’attività repressiva della criminalità  siciliana’’.

A magistrati coraggiosi ed eroici, come Paolo Borsellino, insomma, si contestava, a torto, un eccesso di visibilità nell’azione antimafia, se non addirittura una sottesa finalità di autoaffermazione nell’agire investigativo.

Questo era il contesto ambientale difficile e irto di ostacoli, anche culturali, nel quale si muoveva coraggiosamente Paolo Borsellino con la sua instancabile azione investigativa, votata in via esclusiva alla ricerca della verità e della giustizia, mai orientata da interessi personali o di visibilità.

Infatti, come contraltare rispetto al modello di magistrato emergente dalla c.d. ‘dottrina Coci’, le stesse carte consiliari in esame ci offrono un valoroso modello di magistrato requirente, incarnato in toto da Paolo Borsellino, che certo non temeva di andare a fondo nella propria azione investigativa, anche quando questa era destinata ad intaccare quello che storicamente viene definito ‘terzo livello’ e che chiama in causa il rapporto tra mafia, affari e politica.

Emerge, inoltre, dagli atti in modo nitido l’opzione di Paolo Borsellino a favore della trattazione coordinata e unitaria delle indagini, e l’avversione per la frammentazione investigativa, frutto, come ricordava lo stesso Borsellino nel corso della audizione, dell’orientamento espresso in quel tempo dalla Prima sezione penale della Cassazione, coniato in relazione ad altra inchiesta condotta da Giovanni Falcone.

Così si esprimeva Paolo Borsellino riguardo a detto orientamento giurisprudenziale e alle sue conseguenze sul piano pratico: “… (anche se personalmente poco convinto, ma so che devo prestare ossequio) alla famosa sentenza della I sezione, presieduta dal collega Carnevale, che … decise, invece, che siccome la mafia non avrebbe una struttura unitaria, ogni Tribunale, ogni Procura, delle 18 (quante ce ne sono in Sicilia), si fa la propria.”

Evidente l’ironia critica che emerge dalle sue parole, accompagnate sempre e in ogni caso da profondo senso dello Stato.

Resta il dato storico per cui il citato orientamento giurisprudenziale, applicato nel caso di specie, come evidenziato dallo stesso Borsellino nel corso della sua audizione, aveva condotto ad esiti affatto singolari, traducendosi nella frammentazione di una indagine, che coinvolgeva esponenti politici anche di livello nazionale, in tre Procure diverse (quelle di Marsala, Trapani e Sciacca, tutte racchiuse in un perimetro di pochi chilometri), chiamate ad indagare ciascuna per esponenti politici diversi, in luogo della trattazione unitaria e coordinata.

Proprio con riferimento alle indagini che stava conducendo a carico di esponenti politici, la audizione al C.S.M. dell’autunno del ‘91 di Borsellino costituisce una sorta di magna charta del suo metodo investigativo, improntato ad analitico approfondimento a raggiera, unito al rigore nella ricerca dei riscontri esterni, volti a vagliare in concreto l’attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori, senza acritiche o pregiudiziali adesioni al loro contributo dichiarativo.

Così, al riguardo, Paolo Borsellino afferma nel corso della citata audizione quanto segue: “Io ho il dovere di fare una indagine esplorativa a vasto raggio, anche nell’interesse dello stesso indagato, perché, se l’indagato deve essere sollevato da questa accusa, non deve essere sollevato da questa accusa, perché le dichiarazioni del … ( ndr collaboratore di giustizia ) … non hanno trovato riscontri; se deve essere sollevato da questa accusa, deve essere sollevato a pieno titolo, dopo che il magistrato ha fatto quello che è suo dovere, cioè cercare le prove dovunque è possibile trovarle.”

Così, poi, si espresse sul rigore negli accertamenti conformi al canone della completezza investigativa: “… una volta che debbo indagare sulla asserita appartenenza di una persona a Cosa Nostra, … debbo aprire il ventaglio di indagini a tutte le possibili fonti di prova, … su tutto ciò che nel panorama giudiziario italiano risulta, come indagini, su queste persone.”

Così, anche in relazione alle modalità di gestione dei pentiti, Paolo Borsellino ha lasciato, unitamente a Giovanni Falcone, in eredità alle generazioni future di magistrati inquirenti un “modello operativo” che si è tradotto nel tempo in principi normativi e in consolidati orientamenti giurisprudenziali, nonché in diffusa metodica operativa: rigore nella verbalizzazione,   preliminare ricostruzione del profilo soggettivo personale e criminale del collaboratore di giustizia, al fine di inquadrarne la potenzialità dichiarativa e la credibilità delle chiamate in correità, tutela della genuinità del contributo dichiarativo, evitando impropri contatti tra collaboratori per preservare la valenza dei riscontri c.d. incrociati, tutti valori investigativi e processuali che oggi sono patrimonio comune, ma di cui Paolo Borsellino è stato precursore e coartefice, unitamente a Giovanni Falcone. Di viva attualità, infine, il pensiero di Paolo Borsellino, espresso nel corso della audizione, sulla necessità indefettibile di salvaguardare con ogni mezzo la segretezza delle indagini contro il malcostume della “fuga di notizie”, come avvenne appunto nel ’91 con la pubblicazione sulla stampa del contenuto dei verbali dei pentiti nella disponibilità della finitima Procura di Trapani.

Al riguardo, nel corso della audizione, Paolo Borsellino rimarca con orgoglio il dato per cui, sotto la sua gestione della Procura di Marsala, non si era mai verificato alcun episodio di violazione del segreto investigativo e di fuga di notizie, e ricorda, quasi con stile aneddotico, ma esemplare, quanto egli e Giovanni Falcone si fossero prodigati per salvaguardare la segretezza del contributo dichiarativo di Buscetta al tempo delle indagini che condussero al maxi-processo.

Le pagine degli atti consiliari sopra richiamati, che con la pubblicazione diventano patrimonio di tutti, ci consegnano, in conclusione, una sorta di testamento vivo e attuale, al quale le presenti e le future generazioni di magistrati potranno attingere per orientare il loro agire sul modello virtuoso ed eroico, incarnato integralmente da Paolo Borsellino, che, pur con l’estremo sacrificio, ha vinto per sempre ai nostri occhi e agli occhi della Storia.

(testo curato dal Cons. Luca Forteleoni)


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