Figli dei boss e voglia di riscatto: «Penne e quaderni al posto delle armi»

 

«Il protocollo è importante però legittima una prassi, ma c’è bisogno di una cornice legislativa per tante problematiche che ci sono e delle quali lo Stato si deve prendere cura. Come ha detto la presidente dobbiamo avere entro l’estate un disegno di legge per dare una risposta a questi nodi. Ci stiamo lavorando in modo che tutte le forze politiche che sono in commissione possano conoscere il fenomeno e poi elaborare, tutti insieme, una proposta». Per questo il Comitato ha già ascoltato Di Bella, seguiranno altri magistrati, don Luigi Ciotti, la Cei (che sta finanziando il progetto), e alcune donne, tra le quali proprio Francesca, perché la sua storia è esemplare. Entra nel progetto “Liberi di scegliere” nel 2016. «Stava facendo un percorso molto bello, avevamo trovato una famiglia che la seguiva. Per la prima volta capiva cosa erano la generosità, l’accoglienza, si era trasformata».

Ma, dopo due anni, la Cassazione rende definitiva la condanna che aveva avuto, con l’aggravante mafiosa. Era accusata di estorsione perché era andata a prendere dei soldi. Condanna di quasi tre anni, deve andare in carcere. Ma lei aveva già fatto una scelta di vita.
Bisognava affrontare due problemi.
Come fare con i bambini che già avevano fatto un percorso a dire che la mamma era andata in carcere. « Abbiamo trovato una famiglia affidataria, straordinaria, due insegnanti che si sono presi cura dei bambini, li portavano in carcere dalla mamma, e ancora oggi sono un punto di riferimento di lei e dei figli».
Ma la condanna era troppo lunga per dei bambini. E qui emerge l’altro problema. Chi ha una condanna per 416 bis o l’aggravante mafiosa, non può beneficiare di forme alternative al carcere.
« Ho pensato che potevamo provare con la “collaborazione impossibile”. Questa donna, anche volendo collaborare era impossibilitata a farlo perché non c’erano elementi nuovi che poteva fornire. Ma se uno non ha le condizioni giuridiche, però vuole cambiare, perché non deve essere considerato?».
Viene così fatta un’istanza al Tribunale per dire che era meglio di una collaboratrice perché aveva fatto il percorso di “Liberi di scegliere”, era andata via dalla Calabria, era seguita da Libera. Don Ciotti fece una relazione e così anche i servizi sociali. L’8 marzo 2019, una straordinaria coincidenza, il Tribunale emise il provvedimento accettando questa interpretazione.

«Siamo andati in carcere coi fiori a portarle la notizia. Non posso dimenticare il suo grido di gioia. I bambini erano a scuola. Quando sono tornati a casa e hanno visto la mamma, lei ha detto “voi dovete ringraziare le istituzioni perché hanno avuto fiducia in me”. E loro mi hanno detto “Enza ci ringrazi le istituzioni?”. Una scena bellissima». Non l’unica, di questa storia. La nonna, la mamma del marito, era in carcere. Quando esce chiede al giudice di poter vedere i nipoti. Ha avuto un figlio ucciso ad appena 16 anni e due al 41 bis, e anche il marito.

«L’abbiamo incontrata in una città terza. È arrivata con tanti regali. Eravamo presenti io, la mamma e la psicologa. I bambini le dicono “nonna perché non hai fatto la stessa cosa che ha fatto la mamma? Se lo avessi fatto noi ora avremmo qui papà”».
La nonna, in lacrime, ha risposto: «Appena hanno ammazzato mio figlio, sono morta anche io, non capivo nulla.
Gli altri figli hanno preso la strada sbagliata ma io non li abbandonerò mai, però se avessi incontrato un giudice come il dottor Di Bella e un’associazione come Libera, forse lo avrei fatto, ma ero sola». «Io sono rimasta stupita – ricorda Enza Rando -. I bambini soddisfatti. Le ho detto “oggi Libera c’è, se vuole ci siamo”. Mi ha risposto “mio marito esce tra poco dopo 40 anni di carcere. Io non lo conosco più. E devo fare anche la badante perché non sta bene. Cosa faccio?”. Purtroppo è morta presto, in pochi mesi. Questo però dice quanto può essere rivoluzionario questo progetto». Da questa e altre storie deve nascere la legge. «Non è facile. Come fai a scrivere di umanità, di accompagnamento? Però, sulla scorta dell’esperienza di chi l’ha vissuto, delle linee guida le possiamo indicare».

La prima è che donne e minori devono avere il cambio di generalità e nomi di copertura per avere una vita normale, lavorare, andare a scuola, perché li cercano per ammazzarli.
Lo Stato deve poi prendersi cura della loro sicurezza. L’altra cosa importante è costruire per i minori una rete di accoglienza sia in comunità che, preferibilmente, in famiglie. « Bisogna preparare le famiglie a un affido in un contesto particolare, pronte ad un’accoglienza nella cultura della legalità. Quando una ragazzina mi dice “io in famiglia avevo armi e proiettili e invece qui ho penne e quaderni”, è una cosa forte. E ci vogliono le risorse. Hanno bisogno di una casa e finché non lavorano e di un sostegno per vivere».

E infine risolvere, con una norma, la questione della collaborazione, per evitare che finiscano in carcere, con rischi altissimi. Questo attendono le donne che coi fatti hanno già scelto. Alcune di loro erano il 21 marzo al Circo Massimo in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno, in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. «Erano emozionate, contente di esserci e di aver fatto la scelta di legalità».

Così come lo scorso 30 ottobre con Papa Francesco. «Quell’incontro le ha cambiate. Hanno sentito che esistono, che sono state accolte. Molte di loro si sentono in colpa, “perché ho fatto questa cosa, perché sono stata sposata con un mafioso?”. Si rendono conto che erano finite in un posto sbagliato. Invece in quel caso si sono sentite nel posto giusto. “Qualcuno ci sta dando fiducia, esistiamo coi nostri problemi e coi nostri cambiamenti, ma esistiamo”».

 

 

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