28 giugno 1992 In centocinquantamila contro la mafia a Palermo

 

 



A Palermo 150 mila sfilano per Falcone

A Palermo 150 mila sfilano per Falcone Il cardinale si scaglia contro mafia e malgoverno. Un enorme ritratto di Falcone che vola verso il cielo di Palermo, un lungo corteo che attraversa la città.
In centocinquantamila, arrivati da tutta Italia, hanno gridato no alla mafia e ricordato l’ultimo delitto dei boss. Una manifestazione organizzata dai sindacati per dire ai siciliani «che da oggi non sono più soli».
Dure le parole del cardinale Pappalardo: «Condanno i killer e anche chi li protegge». E la vedova dell’agente Schifani: «Vi ringrazio, ma voglio giustizia». 

La riscossa antimafia ha 150 mila voci

 

La riscossa antimafia ha 150 mila voci Palermo invasa dalla manifestazione dei sindacati: «Falcone ce l’ha insegnato, via i boss» La vedova dell’agente Schifarti: «Vi ringrazio, ma io voglio giustizia» Accuse allo Stato, chiesta l’immediata nomina del superprocuratore.

L’enorme ritratto di Giovanni Falcone, impresso sul lenzuolo bianco, sale lentamente verso il cielo, sollevato da dieci palloncini rossi e verdi. Un silenzio irreale si impadronisce della piazza Politeama piena come un uovo. Gli altoparlanti distribuiti agli angoli sfumano il «Requiem» di Mozart.
L’applauso esplode come una liberazione e lascia andare l’urlo represso: «Giovanni, Giovanni». La folla dà le spalle al palco e segue con lo sguardo i palloncini che fanno ondeggiare il lenzuolo.
Dalle strade laterali non si arresta ili fiume di gente che va ad intasare  l’enorme piazza. Alle 11,10 precise l’Italia intera, racchiusa nelle centocinquantamila facce convenute a Palermo, nella moltitudine di dialetti che si intrecciano in un unico slogan contro la mafia, esce dalla sofferenza per l’amico perduto e grida rabbia e sdegno. ; Grida anche Palermo, sorretta dalla presenza di centocinquantamila facce amiche.
Si aprono; spiragli di comunicazione fino a ieri impensabili. Certo, i palermitani non sono mai stati né loquaci, né comunicativi. E’ pure; vero che una parte di questa città non mancò di esprimere ostilità al «giudice testardo».
Ma oggi non è il momento del rancore. Oggi Palermo elabora il suo; lutto, cerca di dare significato all’«evento». E, come in un enorme, anfiteatro greco, affida ad un coro di centocinquantamila voci la «narrazione» del fatto.
Tutto, in, questa piazza, «racconta» Falcone.
I volti dei giovani, le loro magliette piene di slogan antimafia, le voci roche di migliaia di contadini ed operai del Nord, brianzoli, piemontesi, veneti, friulani, venuti per dire ai siciliani: «Coraggio, da oggi non sarete più soli)!
La mafia questione nazionale, Falcone assentirebbe forse con un sorrisetto ironico per rimproverare: «Finalmente l’avete capito». Circolerà un video, l’anno prossimo, nelle scuole. Proprio come in una «narrazione», lo hanno titolato: «C’era in Sicilia un magistrato che…». E’ la storia delle cose dette da Giovanni Falcone negli ultimi nove anni.
L’hanno curata le giornaliste palermitane Claudia Mirto, Anna Pomar e Marianna Bartoccelli. Quanto sembrano lontane le polemiche per le scorte ai giudici sceriffi o le preoccupazioni degli inquilini del magistrato per l’eventualità di poter rimanere in qualche modo coinvolti in un attentato.
Anche questo è uno dei meriti della manifestazione organizzata dai sindacati. A Palermo qualcosa forse sta cambiando. Non se ne può accorgere il fiume di popolo arrivato con ogni mezzo, ma chi abita in questa città non può ignorare il segno lasciato dal tritolo di Capaci. La gente comincia ad uscire allo scoperto, le finestre si schiudono.
Qualche esempio? Valgano per tutti gli striscioni sistemati davanti all’ingresso del carcere dell’Ucciardone. «Il terrore è l’arma della mafia. La nostra arma è il coraggio»: un atto di sfida, di «disubbidienza» ai signori di Cosa Nostra.
E che dire della gente che è andata a testimoniare spontaneamente, consentendo agli investigatori di tracciare gli identikit dei killer?
Ma il sintomo più significativo di questo tentativo di liberazione è quel documento di condanna degli assassini di Falcone uscito dall’Ucciardone, prima in forma anonima, poi con le firme.
Comincia presto, la mattina della riscossa antimafia. Già alle 7,30 la città è chiusa al traffico, secondo un percorso incrociato che dovrà far convergere al Politeama i cinque cortei che partiranno da piazza Vittorio Veneto, dalla stazione Notarbartolo, dal porto, da piazza Indipendenza e dalla stazione centrale.
Uno sforzo non indifferente, quello sostenuto dai sindacati: 16 voli charter, undici navi, pullman e macchine private. Ad un certo punto non c’è più posto nelle banchine del porto: ci sono i genovesi a bordo della «Verga», l’«Aurelia» e il «Petrarca» provenienti da Livorno, l’«Arborea» salpata da Civitecchia e tante altre.
Più di diecimila persone, una marea di bandiere, pugni chiusi, mentre un aeroplanino «Piper» sorvola via Emerico Amari sventolando uno striscione: «La speranza non muore».
Il serpente umano che lascia la stazione Notarbartolo procede lento verso la via Libertà. E’ il percorso più significativo, passa davanti alla casa di Giovanni Falcone e Francesca Mondilo.
La magnolia sta proprio davanti al portone, alle spalle della garitta di cemento armato ora praticamente inutile. L’albero Falcone, lo chiamano ormai. E’ sempre pieno di fiori e di messaggi scritti. Il corteo si ferma, la strada non riesce a contenere la folla. L’applauso rimbomba lungo e ritmato. Salgono le note del Nabucco, il coro del Teatro Massimo intona «Va’ pensiero», accompagnato dall’orchestra sinfonica siciliana. Piangono i palermitani, piangono le operaie della Sigma, la fabbrica che fu di Libero Grassi.
Piangono gli agenti della squadra mobile che lavorarono con Cassare e con Falcone e adesso stanno dispersi nei commissariati. Pina Grassi, vedova dell’imprenditore assassinato dalla mafia, non ha pace: «Tutto questo è bello ma è niente fino a quando non ci sarà un imprenditore che denuncerò il racket e lo strapotere della mafia».
Spera Rosetta Giaccone, vedova del professore Paolo, ucciso per non aver voluto «addolcire» una perizia. «Tutta questa gente ci fa sentire meno soli». «Falcone ce l’ha insegnato; fuori la mafia dallo Stato», «La mafia non vincerà ed è per questo che siamo qua»: così gridano le delegazioni di Torino, Asti, i pensionati lombardi, gli studenti di Belluno, gli impiegati di Trieste.
Incontenibili i napoletani che incitano: «Chi non salta è mafioso». Si fa largo un lungo lenzuolo bianco dipinto di «rosso come il sangue delle vittime della mafia». «E delle vittime delle stragi», aggiungono i familiari degli uccisi nelle stragi, giunti da Bologna e Ustica. E’ un tappeto di bandiere piazza Politeama.
Una marea di colori. Il palco si va riempiendo. Ecco Trentin, D’Antoni, Larizza, i segretari. Passano protetti dal rigido servizio d’ordine. Passa anche il cardinale Pappalardo. Arriva Giuseppe Ayala, applaudito dalla folla.
Altra gente si aggiunge alla massa. Quanti saranno? Mimma Calabro, giovane sindacalista e speaker della manifestazione cede all’emozione: «Da quassù non riesco a scorgere più nessun volto, vedo solo un tappeto di bandiere. Bandiere che formano un unico volto, quello dell’Italia civile unita, dal Nord al Sud, contro la mafia».
D’Antoni spiega lo slogan della manifestazione: «L’Italia parte civile? Il sindacato vuole dar voce alla grande voglia di giustizia e legalità che sale da tutto il Paese». E chiede allo Stato «unità di indirizzo e coordinamento tra tutti i suoi apparati». Bruno Trentin punfaTawehziò1′” ne sul futuro: .«Voglio ricordare di Giovanni Falcone la sua indefettibile fiducia nella possibilità. che una società democratica e unita possa sconfiggere il potere mafioso». Il segretario della Cgil reclama «una battaglia per i diritti di ognuno» e si dichiara convinto che «verrà il giorno in cui il popolo italiano rinnoverà lo Stato sulle macerie del potere mafioso». Pietro Larizza, segretario Uil, nomina una per una le cinque vittime della strage di Capaci. «Non abbiamo organizzato questa manifestazione giura il sindacalista – per commemorarli e poi dimenticarh».
Poi punta il dito: «Se dobbiamo oggi gridare l’allarme per la democrazia, vuol dire che sono mancati leggi e uomini». Ma, come avvenne il 25 maggio ai funerali di San Domenico, è ancora Rosaria Costa che riesce a toccare le corde dell’emozione.
La giovane vedova dell’agente Vito Schifani si rivolge alla folla: «Vi ringrazio tutti, tutta l’Italia, perché siete qui». Prende fiato, vince il groppo alla gola ed esplode: «Io voglio giustizia, la pretendo. Credo in Dio e nella giustizia. Non potrò più morire se non avrò giustizia».