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Strage via D’Amelio, processo per depistaggio: chiesta condanna per 3 poliziotti
Il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio “c’è stato” e la responsabilità “è dei poliziotti che non lo hanno fatto per una banale voglia di fare carriera ma per agevolare Cosa nostra. Un tradimento che non può essere perdonato”. Ecco perché i tre poliziotti sul banco degli imputati “vanno condannati”. A pene pesanti. Il procuratore generale di Caltanissetta, Fabio D’Anna, al termine di una requisitoria fiume, ha chiesto 11 anni e 10 mesi di carcere per Mario Bo e 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.
Le stesse pene richieste nel processo di primo grado. Sono accusati di calunnia aggravata per aver costruito a tavolino falsi pentiti, inducendoli a mentire, per depistare le indagini sulla strage di via D’Amelio. Il tribunale di Caltanissetta, in primo grado, il 12 luglio 2022, aveva dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, mentre il terzo imputato, Michele Ribaudo venne assolto. Ma la Procura generale non ci sta e chiede adesso la condanna per tutti. Con l’aggravante mafiosa.
“Le indagini, fin da subito dopo la strage, hanno subito un inquinamento probatorio”, dice il Procuratore generale D’Anna. Che tira in ballo anche l’apparato dello Stato. Cioè i magistrati che 30 anni fa si occuparono delle indagini. “Leggendo la sentenza ci accorgiamo e non possiamo esimerci nel dire che a questo inquinamento probatorio ha contribuito anche il comportamento di alcuni colleghi. Colleghi poco attenti che non sono stati in grado di cogliere elementi di indici di falsità dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino”, dice.
“C’è stato un tradimento da parte degli apparati dello Stato che hanno tradito non solo Borsellino ma anche gli agenti della scorta. Un tradimento che non può essere perdonato. Si può tradire per tanti motivi: per soldi, sì ce ne sono stati nei confronti di La Barbera ma non nei confronti degli odierni imputati, per la carriera, ma La Barbera non ne aveva bisogno, era ancora giovane e a breve sarebbe diventato questore, che motivo aveva di impelagarsi con un balordo come Scarantino”. “Un altro motivo – ha continuato – poteva essere il fatto che occorreva dare un colpevole da dare all’opinione pubblica: ma perché Scarantino? Cioè l’unico che faceva parte di una famiglia che non c’entrava. Ma perché lui? La risposta me la sono data: l’unico interesse che spiega la pervicacia del gruppo Falcone-Borsellino è che loro sapevano perfettamente che con il loro comportamento stavano allontanando dalla verità delle indagini, vuoi per proteggere apparati dello Stato vuoi per proteggere apparati mafiosi”.
Loro, gli imputati, “non sono, però, gli unici demoni”. “Sul banco degli imputati la fila di demoni dovrebbe essere lunga, ma o sono morti o l’hanno fatta franca”, dice il pm Maurizio Bonaccorso, applicato alla Procura generale. “Ci sono vertici e soggetti che l’hanno passata liscia e sappiamo chi sono”, aggiunge. E poi sottolinea: “Ci sono una serie di elementi che danno certezza del coinvolgimento di figure istituzionali nell’eliminazione del dottore Borsellino”.
Secondo il sostituto procuratore generale Gaetano Bono, la sentenza di primo grado era “contraddittoria, illogica, iniqua e fuorviante”.
Perché i poliziotti sul banco degli imputati, oggi tutti in pensione, hanno deliberatamente depistato le indagini sull’attentato a Paolo Borsellino. “Il regista del depistaggio fu Arnaldo La Barbera, morto alcuni anni fa da osannato investigatore antimafia”, aggiunge il pg Gaetano Bono, che al momento della strage era ancora una bambino di nove anni. Dice: “Si registra una illogicità della sentenza di primo grado che a distanza di poche pagine traccia un quadro incoerente sull’attendibilità di Vincenzo Scarantino”, il falso collaboratore di giustizia che fece condannare sette innocenti, dice Bono che cita alcune frasi della sentenza di primo grado. I giudici scrivono: ‘E’ da ritenersi sussistente un nucleo di limitata attendibilità’, e Bono elenca “4 punti”. “Poi, a distanza di diverse pagine la sentenza afferma che ‘Scarantino è pienamente attendibile ove evidenzia un indottrinamento fin dal primo interrogatorio del giugno 1994′”, dice il pg.
Secondo il pg Gaetano Bono la sentenza va riformata “sia per i profili di fatto che di diritto”. In quanto la “pronuncia assolutoria è incoerente”.
Per l’accusa la “contraddittorietà riguarda l’associazione mafiosa che è la questione più importante di tutto il processo. Si ritiene sussistente la circostanza aggravante che permetterebbe alla Corte di pronunciarsi sulle responsabilità di Mario Bo e Fabrizio Mattei ma anche su quella di Michele Ribaudo”. Secondo Bono “siamo in presenza di una motivazione insufficiente”.
Il pm Maurizio Bonaccorso spiega nel suo lungo intervento: “Solo dopo la morte di Arnaldo La Barbera si scoprì che c’era un rapporto di collaborazione tra il poliziotto e il Sisde, da cui emerge che la Barbera aveva intrattenuto un rapporto di collaborazione dal febbraio 1986 al marzo 1988, con nome in codice ‘Rutilius’, mentre era dirigente della Squadra mobile di Venezia”.
L’ex dirigente ed ex questore di Palermo “era pagato in nero, e non per pagare i confidenti ma per esigenze personali, perché amava stare in albergo”, dice Bonaccorso .
“Una situazione di una gravità inaudita un dirigente che viene finanziato in nero dai Servizi segreti”, aggiunge il pm. E se la prende con la sentenza di primo grado che “ha minimizzato un dato molto importante”.
Poi sottolinea che Arnaldo La Barbera “era a libro paga dei Madonia”. “La Barbera aveva un tenore di vita altissimo. Abbiamo accertato che versava continuamente soldi sul suo conto corrente. In un anno circa 100 milioni di vecchie lire. Difficile credere che si potesse trattare di trasferte. Neanche avesse fatto il giro del mondo. Quello che è significativo sono le modalità in cui questo contante viene versato. Nel ’91 c’è un solo versamento di 8 milioni di lire, nel ’92 questa persona di colpo cambia abitudini rispetto alla sua attività bancaria e comincia a fare versamenti continui per importi davvero consistenti. Certamente non sono tutti proventi illeciti ma questo dato ci conferma quello che hanno detto i collaboratori Vito Galatolo e Francesco Onorato e cioè che La Barbera era a libro paga dei Madonia. Quindi abbiamo un personaggio ambiguo che da un lato viene costantemente finanziato dal Sisde. Dall’altra parte abbiamo i collaboratori che ci raccontano di un rapporto con la mafia”.
Ribadisce poi che la “collaborazione tra la Procura di Caltanissetta e il Sisde nacque dall’ostinazione del Procuratore Tinebra”.
Il magistrato parla di una “anomala collaborazione, per non dire inquietante, tra la Procura di Caltanissetta e il Sisde nella fase iniziale delle indagini”. Poi, rivolgendosi alla difesa dei tre imputati dice: “Mi auguro di non sentire frasi da parte della difesa, sul fatto che si processano i morti, chi non è in grado di difendersi, sugli schizzi di fango, così come fatto in primo grado. Perché al di là delle frasi ad effetto mi piacerebbe capire cosa dovrebbe fare un pubblico ministero quando c’è l’ipotesi di un’azione delittuosa concorsuale nel momento in cui la figura centrale è deceduta. Dovremmo archiviare anche per gli altri? E nemmeno si possono omettere tutte le argomentazioni che riguardano la figura centrale”.
Poi dice: “Ho il rammarico che, purtroppo, in questo processo non è stato possibile effettuare la discovery completa degli elementi finora emersi, e mi auguro che un giorno non dovremmo mangiarci le mani in relazione all’esigenza di preservare un indagine in corso”.
Il magistrato fa riferimento all’inchiesta sull’agenda rossa e sulla documentazione ritrovata a casa dell’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera.
A settembre del 2023 un teste aveva detto: “A casa dei familiari di La Barbera c’è l’agenda rossa di Paolo Borsellino”. E i carabinieri del Ros effettuarono perquisizioni molto accurate, l’agenda rossa non c’era. Però fu sequestrata una copiosa documentazione bancaria risalente all’inizio degli anni Novanta.
Sul conto di La Barbera sarebbero finiti tanti soldi, che lui stesso depositava mese dopo mese nel suo conto. “Fra il 1990 e il 1992 furono fatti versamenti per complessivi 114 milioni delle vecchie lire”, ha detto in aula il pubblico ministero Maurizio Bonaccorso. ”Le anomalie riguardano soprattutto il 1992, la Guardia di finanza ha accertato una sperequazione di circa 97 milioni rispetto al reddito percepito”.
Nel corso della lunga requisitoria la Procura generale è tornata a parlare dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. “In questa agenda lui annotava una serie di riflessioni sulla strage di Capaci nella speranza di essere sentito a Caltanissetta”, dice il pm Maurizio Bonaccorso.
“La signora Agnese Piraino, vedova di Paolo Borsellino ha spiegato che, nella certezza di essere ucciso, Borsellino aveva cominciato a usare due agende, quella grigia e quella rossa, dove annotava sue riflessioni spiega la Procura generale–Il secondo dato è la presenza dell’agenda rossa nella borsa di Borsellino il 19 luglio 1992. Abbiamo sul punto le dichiarazioni della figlia, Lucia Borsellino, che ci dice: ‘Papà aveva tre agende, una marrone, dove metteva qualche dato e numeri di telefono, l’altra grigia, dove annotava alcune cose, e quella rossa che per lui era importantissima’. Quella mattina aveva portato l’agenda con sé perché non verrà ritrovata a casa dei familiari”.
“Altro dato significativo è che non stata Cosa Nostra ad appropriarsi dell’agenda rossa. Perché non è pensabile che sulla scena della strage ci fossero dei mafiosi intervenuti per appropriarsi dell’agenda”.
E ricorda che “la borsa ricompare nella stanza di Arnaldo La Barbera a mesi di distanza, in maniera irrituale, senza che sia stato fatto un verbale di sequestro, e soprattutto viene riconsegnata in maniera irrituale alla famiglia di Borsellino”.
Dopo la richiesta di condanna ha preso la parola l’avvocato di parte civile Giuseppe D’Acquì che rappresenta due dei sette innocenti condannati ingiustamente, Natale Giuseppe Gambino e Gaetano Scotto.
Il processo è stato rinviato al prossimo 23 aprile per sentire le parti civili.
(dall’inviata Elvira Terranova ADNKRONOS
“Sviarono le indagini sulla morte di Borsellino, condannare gli agenti”
Per la procura generale di Caltanissetta i tre appartenenti alla polizia di Stato imputati per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, il 19 luglio 1992, in cui vennero uccisi il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e 5 poliziotti della scorta, sono colpevoli di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra e vanno condannati: il commissario Mario Bo a 11 anni e 10 mesi, l’ispettore Fabrizio Mattei a 9 anni e sei mesi e a 9 anni e sei mesi anche l’agente Michele Ribaudo.
“Un tradimento da parte degli apparati dello Stato che non può essere perdonato – ha detto nell’aula della corte d’appello nissena il procuratore generale Fabio D’Anna al termine della requisitoria.
“Perché questo depistaggio? – si chiede D’Anna – L’unico interesse che spiega la pervicacia del gruppo investigativo Falcone-Borsellino è che loro sapevano perfettamente che con il loro comportamento stavano allontanando dalla verità delle indagini, vuoi per proteggere apparati dello Stato vuoi per proteggere apparati mafiosi”. Ruota intorno alla figura ambivalente del poliziotto Arnaldo La Barbera capo della squadra mobile e poi questore di Palermo, al vertice del pool investigativo sulle stragi di Palermo del 1992, morto nel 2002, la vicenda del depistaggio sulle indagini per la strage di via D’Amelio. Era lui il capo dei tre imputati e insieme avrebbero indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino, piccolo delinquente della borgata Guadagna, a dare una ricostruzione dei preparativi della strage totalmente falsa accusando mafiosi che però con l’autobomba di via d’Amelio non c’entravano nulla. Applicato alla procura generale il pm Maurizio Bonaccorso, che ha sostenuto l’accusa nel processo di primo grado che ha visto la prescrizione per Mattei e Bo (in quanto era caduta l’aggravante del favoreggiamento a Cosa nostra) e l’assoluzione per Ribaudo, ha detto che la “figura centrale di questo depistaggio è Arnaldo La Barbera. “Mi auguro di non sentire affermazioni, da parte della difesa, sul fatto che si processano i morti – ha aggiunto – chi non è in grado di difendersi, sugli schizzi di fango, così come fatto in primo grado”.
“Dobbiamo partire – ha continuato Bonaccorso – dalle risultanze su La Barbera che ci danno l’immagine di un soggetto che è un ponte tra due mondi, quello di Cosa Nostra e quello dei servizi deviati, entrambi interessati al mancato accertamento della verità”.
Per Bonaccorso “La Barbera era finanziato dal Sisde in nero. Sono soldi che lui prendeva non per pagare i confidenti ma per cose personali. Per pagarsi l’albergo, dove amava stare. Un tenore di vita assolutamente considerevole in relazione a quello che poteva essere la capacità reddituale di un funzionario di polizia. E veniva pagato anche dai boss Madonia”. Il pm ha ricordato che l’agenda rossa di Borsellino era nella borsa del magistrato in via D’Amelio e venne presa ma “non dalla mafia”. E la borsa è ricomparsa nella stanza di La Barbera e fu restituita ai familiari ma senza l’agenda. E il sostituto Pg Gaetano Bono ha sostenuto che “Il depistaggio è stato fatto”. “La finalità non era quella banale – ha spiegato – di favorire la carriera di Arnaldo La Barbera ma agevolare la mafia. Gli imputati erano consapevoli che Vincenzo Scarantino inventasse. Supportare il collaboratore nello studio di ciò che doveva dire era necessario perché non stava dicendo la verità”. Ecco ha detto Bono, perchè “la sentenza di primo grado va riformata. Sia per i profili di fatto che di diritto. La pronuncia assolutoria è incoerente”. ANSA
Depistaggio Borsellino, in Appello la procura chiede la condanna dei tre agenti imputati a pene tra i nove e gli undici anni
Undici anni e 10 mesi di carcere Mario Bo, nove anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. È la richiesta del procuratore generale di Caltanissetta, Fabio D’Anna, al termine della seconda giornata dedicata alla lunga requisitoria dell’accusa, iniziata lo scorso 26 marzo, e proseguita nel corso di tutta la giornata di oggi, nel processo “Depistaggio Borsellino”, in cui sono i tre poliziotti sono imputati. “Le indagini conseguenti alla strage di via d’Amelio – ha detto D’Anna – hanno avuto un inquinamento probatorio, siamo dinanzi all’ennesimo capitolo iniziato oltre trent’anni fa e non ancora concluso. Vicende che ancora sono irrisolte e meritano di essere approfondite.
Ci sono stati quattro procedimenti, condanne ingiuste e rivisitazioni delle sentenze. Non possiamo esimerci dal dire che a questo inquinamento probatorio ha contribuito anche il comportamento di alcuni magistrati, poco attenti, che non sono stati in grado di cogliere elementi di indici di falsità dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino.
C’è stato anche un tradimento degli uomini dello Stato, che non hanno tradito solo il giudice Paolo Borsellino, ma anche i loro colleghi, gli agenti della scorta morti nella strage. Un tradimento dovuto ad un forte interesse, perché sapevano che con il loro comportamento avrebbero sviato le indagini, vuoi per proteggere pezzi dello Stato, vuoi per coprire mafiosi, per questo motivi chiedo la condanna a 11 anni e 10 mesi di carcere Mario Bo, e a 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo”. Gli ex componenti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino guidati da Arnaldo La Barbera, sono accusati di calunnia aggravata per aver favorito Cosa nostra, perché avrebbero istruito Vincenzo Scarantino, a rendere dichiarazioni che sarebbero servite a sviare le indagini sulla strage di via d’Amelio. In primo grado, caduta l’aggravante mafiosa, Bo e Mattei sono stati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. L’aggravante mafiosa resta l’ago della bilancia nel processo di appello, perché se dovesse nuovamente decadere, come già successo in primo grado, le imputazioni andrebbero ancora prescritte.
“Venticinque anni di depistaggi”. “Sia chiaro che i colpevoli non sono solo Bo, Ribaudo, Mattei e il defunto La Barbera, ma dovremmo avere in aula molti più imputati, in base alle risultanze processuali, ci sono vertici che hanno avuto la fortuna di passare indenni da questa vicenda, ci sono soggetti che sono morti”, tuona Maurizio Bonaccorso, sostituto procuratore applicato nel processo di appello. “Si tratta di 25 anni di illeciti gravi e reati, che non si possono giustificare solo con una finalità di carriera di La Barbera, sproporzione evidente se paragonati ai reati commessi. Il progetto criminale coltivato da La Barbera era condiviso o quanto meno conosciutodagli stretti collaboratori che conducevano le indagini.
Abbiamo due anime nella squadra mobile di Palermo, da una parte chi viene buttato fuori o si allontana, e dall’altra chi ha lavorato a stretto contatto con La Barbera”, aggiunge Bonaccorso. “Un’attività di depistaggio con un ruolo fondamentale di La Barbera e i suoi principali collaboratori – aggiunge il pg –
Lo scopo di La Barbera di depistare nell’interesse di cosa nostra per evitare che si venissero disvelati i rapporti tra la mafia e apparati dei servizi deviati”.
“La Barbera ponte tra servizi deviati e mafia”. Ruolo cardine nel depistaggio, secondo i pg nisseni, sarebbe quello degli 007 intervenuti fin dall’inizio delle indagini delle stragi, con la presenza di Bruno Contrada chiamato dall’allora procuratore capo nisseno Giovanni Tinebra. “Il Sisde fornisce nel depistaggio il proprio contributo, e veste di mafiosità Scarantino – spiega Maurizio Bonaccorso – La Barbera aveva intrattenuto un rapporto di collaborazione con il Sisde dal febbraio 1986 sino al 28 marzo 1988, con nome in codice Rutilius”. Il dato più inquietante, più grave, è la circostanza emersa di La Barbera finanziato dal Sisde con fondi in nero – aggiunge Bonaccorso – un dirigente della squadra mobile che prende soldi per le proprie esigenze personali, per stare in albergo e non per pagare confidenti. Un tenore di vita considerevole in relazione alla capacità reddituale di La Barbera”. Il riferimento è all’inchiesta dei magistrati nisseni sulla scomparsa dell’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, per la quale sono indagate l’ex moglie e una delle figlia di La Barbera, accusate di ricettazione aggravata e favoreggiamento alla mafia. “Ho il rammarico che non è stato possibile fare la discovery integrale degli atti dell’indagine in corso, e mi auguro che non avremo rimpianti – dice Bonaccorso -. Le risultanze probatorie mostrano come La Barbera è stato anello di congiunzione, un ponte tra due mondi, i servizi segreti deviati e cosa nostra, interessati che non venissero accertati i responsabili della strage di capaci e via d’Amelio”.
Sparizione dell’agenda rossa. Altro elemento cardine è riconducibile alla scomparsa di una delle tre agende del giudice. “Il primo aspetto riguarda l’importanza dell’agenda rossa di Borsellino, dove erano annotate considerazioni raccolte dal giudice dopo la strage di Capaci in attesa di essere sentito a Caltanissetta nell’inchiesta – spiega Bonaccorso – il secondo punto è la presenza dell’agenda nella borse del giudice il 19 luglio 1992. Agenda che non verrà ritrovata in casa dei familiari. Terzo aspetto riguarda il fatto che Borsellino non aveva l’agenda in mano quando scende dall’auto, perché guida la macchina, e in una mano aveva la sigaretta e nell’altra l’accendino, aspettando che scendesse la madre”. Infine, Bonaccorso aggiunge: “Non esiste una seconda borsa del giudice, nessun familiare lo racconta. L’agenda non è stata mai ritrovata, non è riconducibile che sia stata cosa nostra a prenderla, perché al momento della strage, con tutta le forze di polizia presenti, era impensabile l’intervento di un mafioso per rubarla. Infine, la borsa ricompare nella stanza di La Barbera a mesi di distanza”. In questa vicenda, la relazione del poliziotto Francesco Magi, scritta cinque mesi dopo la strage, secondo il pg Bonaccorso sarebbe stato il tentativo di La Barbera per “distogliere l’attenzione dalla borsa”, che verrà in seguito riconsegnata alla famiglia, priva dell’agenda. “Se questa agenda è sparita, è perché collegata al contenuto della stessa e ai possibili responsabili della strage, oltre ai killer di cosa nostra”, conclude Bonaccorso.
“Depistaggio per favorire la mafia”. “La sentenza di primo grado è illogica, iniqua e fuorviante”, ha detto in aula il sostituto procuratore generale Gaetano Bono. “Fa parte della storia del nostro paese che il depistaggio sia avvenuto, per favorire la mafia – aggiunge Bono – altrimenti rimarrà la favola giudiziaria che La Barbera abbia perseguito la mera finalità di carriera professionale, e che e i poliziotti abbiano banalmente concorso a questa finalità”. Il pg prosegue: “Gli imputati erano consapevoli che Scarantino inventasse, doveva riferire su quello che astrattamente aveva fatto e saputo, dal contegno di Scarantino di poteva capire che stesse inventando. La calunnia aggravata è la questione ermeneutica di tutto il processo”.
VIA D’AMELIO – DEPISTAGGIO DELLE INDAGINI – processo d’appello in corso