🟧 ARCHIVIO ➡️ LUCIANO VIOLANTE: «L’ultima volta che vidi Borsellino già sapeva di non avere più tempo»

 

«Lui e Falcone erano i soli ad avere le conoscenze per indicare con chi la mafia si sarebbe alleata. La loro morte ha impedito di conoscere le mosse future di Cosa nostra»

 

Sono passati 25 anni da quella calda domenica di luglio in via D’Amelio, nel centro di Palermo. Alle cinque del pomeriggio, una Fiat 126 rubata contenente 90 chilogrammi di tritolo telecomandati a distanza esplose davanti alla casa della madre di Paolo Borsellino, uccidendo sul colpo lui e cinque agenti di scorta. La strage di via d’Amelio segna il secondo attacco della mafia al cuore dello Stato: il primo era avvenuto solo due mesi prima, a Capaci, con l’omicidio di Giovanni Falcone. Luciano Violante, magistrato ed ex presidente della Camera, già presidente della Commissione parlamentare antimafia, li ha conosciuti entrambi: «Con loro, perdemmo le uniche due persone in grado di indicarci in quale direzione si sarebbe mossa Cosa nostra, dopo la crisi della cosiddetta prima Repubblica».

Ricorda il suo primo incontro con Paolo Borsellino? Prima conobbi Giovanni Falcone, poi Paolo. Era il 1982, nei mesi immediatamente successivi all’omicidio di Pio La Torre, e io ero a Palermo come delegato del Pci. Per il partito mi occupavo anche di lotta alla mafia e per questo avevo rapporti non solo con le autorità politiche sull’isola, ma anche con quelle giudiziarie e di polizia.

Che magistrato era? Borsellino era anzitutto un uomo chiuso e prudente, uno che centellinava le sue amicizie. Ricordo che parlava poco e fumava moltissimo. Nelle indagini, Falcone faceva l’azione di sfondamento, mentre a Borsellino spettava la ricucitura dei pezzi. Proprio questa sua grande capacità di ricostruire le cose era la caratteristica prima del suo modo di lavorare: all’epoca non esistevano i computer e Borsellino compilava delle agende, in cui segnava tutti i nomi delle persone in cui si imbatteva durante le indagini, con il numero del procedimento e la pagina che portava il riferimento a quella persona. Era un archivio umano: le carte del maxiprocesso erano 400mila pagine e lui era l’unico ad avere chiaro il quadro complessivo.

A proposito di agende, è nota la vicenda della famosa agenda rossa di Borsellino, trafugata e mai più trovata… Guardi, io a quella storia non credo molto, mi è sempre sembrata una costruzione di fantasia, anche se fatta in buona fede. Non è mai emerso con precisione che quell’agenda ci fosse e che poi sia stata sottratta. Certo, però, capisco che il fatto meriti attenzione perché, attorno a tanti misteri, il fatto che un’agenda sia scomparsa sembrerebbe molto coerente. Inoltre Paolo aveva molte agende in cui segnava i riferimenti dei processi, ma mi pare che non fosse nel suo costume tenere un proprio diario come invece faceva Falcone.

Proviamo allora a ricostruire questi misteri. Come è stato possibile che la mafia abbia potuto colpire due volte in due mesi, uccidendo prima Falcone e poi Borsellino, proprio nel posto che doveva essere più protetto? La morte di Borsellino ha alcuni aspetti strani. Il primo è l’inspiegabile assenza di divieto di parcheggio sotto la casa della madre di Borsellino, dove è stata piazzata la macchina con la bomba. La seconda questione riguarda il pentito, Gaspare Mutolo, che voleva a tutti i costi parlare con Borsellino ma il Procuratore capo impediva il colloquio, perchè riteneva che Borsellino dovesse occuparsi della mafia di Trapani e non di quella di Palermo. Il terzo elemento strano è che per la strage furono condannate persone che non c’entravano nulla, sulla base di indagini di polizia frutto di confessioni estorte anche con la violenza, pur di avere un risultato, qualsiasi esso fosse.

Dietro il colloquio con il pentito Mutolo potrebbe nascondersi il movente della strage? Esiste certamente una convergenza sinistra tra il momento in cui Mutolo chiede di parlare con Borsellino e il suo omicidio. Dopo un duro braccio di ferro, il Procuratore capo di Palermo telefonò a Paolo la domenica mattina verso le 6, per dirgli che aveva deciso di assegnargli l’indagine e di andare immediatamente da Mutolo. Borsellino, indispettito dall’orario e in pessimi rapporti con il procuratore, gli rispose che l’avrebbe incontrato l’indomani, perché quella mattina sarebbe andato al mare e poi nel pomeriggio a trovare la madre. Quel pomeriggio stesso, però, venne ucciso.

Era una morte evitabile, quindi? Tutte le morti lo sono. Quello che so è che le due stragi avvennero nel mezzo di un cambiamento complessivo degli equilibri politici in Italia. Dopo la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli, il sistema traballava e nuovi leader politici si stavano affacciando. Ecco, Falcone e Borsellino erano gli unici con le conoscenze e l’autorevolezza per indicare con chi mafia si sarebbe alleata. Non so se siano stati uccisi per questo, ma sicuramente la loro morte ha impedito di conoscere tempestivamente le mosse future della mafia.

E dunque era una morte quantomeno prevedibile? Lei prima mi ha chiesto quando ho incontrato per la prima volta Borsellino. Io le posso raccontare l’ultima volta che l’ho visto: lui mi venne a trovare in ufficio per discutere di alcune questioni. Ricordo che stava per partire per la Germania per degli interrogatori, ma sembrava che già presagisse l’ineluttabilità della sua fine. Detto oggi può sembrare una costruzione a posteriori, ma lui sapeva che il cerchio si stava stringendo. Attenzione, non mi trasmise un sentimento di timore, ma era evidente che cercasse di mettere a disposizione tutti i dati in suo possesso. Per questo chiese insistentemente di essere sentito dalla procura di Caltanissetta sulla strage di Capaci, ma non fece in tempo.

Era la stagione dei veleni nelle procure siciliane: un clima che isolò Borsellino? In quella fase, le istituzioni italiane non erano tutte dalla parte della lotta alla mafia. Recentemente il Csm ha reso pubbliche le sedute del consiglio in cui è stato sentito Borsellino: per capire quale fosse il clima dominante basta leggere quei veri e propri interrogatori, con le ambiguità, l’astuzia e il cinismo di alcuni componenti del Csm. Allora la lotta alla mafia non era scontata; bisogna calarsi nel clima di quel tempo per capire quanto coraggio umano servisse per combattere quella guerra nell’isolamento generale, accettando di venire considerati dei matti, o peggio assetati di notorietà.

Sono rimaste tristemente famose le due interviste di Borsellino, nelle quali sosteneva che la lotta alla mafia stesse arretrando… Lo disse per la prima volta ad Agrigento, durante un dibattito che avemmo insieme. Disse che ormai la lotta alla mafia stava facendo dei drammatici passi indietro e dimostrò che il nuovo consigliere istruttore aveva vanificato le indagini antimafia, poi confermò tutto nelle due interviste a Repubblica e all’Unità. A quel punto venne sottoposto ad una specie di processo da parte del Csm e il ministero della Giustizia mandò in Sicilia l’ispettore generale, con il mandato di valutare se le accuse di Paolo fossero fondate. L’esito fu che effettivamente Borsellino aveva ragione: la lotta si era fermata, perché non venivano più favorite le indagini unitarie su Cosa nostra, lasciando che che ciascun tribunale siciliano si occupasse delle proprie, senza un quadro unitario.

E’ vero, come per Falcone, che Borsellino è stato lasciato solo in vita, quanto è stato osannato dopo la strage di via d’Amelio? Falcone e Borsellino furono oggetto di una contesa, in cui alcuni erano dalla loro parte e altri no. Il tema di fondo era: è compatibile o no la presenza della mafia in uno stato democratico? Loro ritenevano che non fosse compatibile e che bisognasse andare fino in fondo nella lotta, ovvero arrivare alle connessioni della mafia con la politica. Altri invece ritenevano che bisognasse combattere, ma con moderazione. Ricordo che, quando ero presidente della commissione antimafia, chiesi all’alto commissario Emanuele De Francesco come andava e lui rispose: “A fisarmonica, quando loro colpiscono noi rispondiamo”. Io ribattei che alla mafia andava dato il primo e non il secondo colpo. Ecco, Falcone e Borsellino avevano in mente il primo colpo. Altri invece pensavano fosse meglio una sorta di armistizio, una coabitazione tra mafia e Stato, ritenendo che il secondo colpo fosse sufficiente: bastava rispondere, senza impegnarsi a colpire per primi.

E in questa lotta tra opposti che cosa provocò la morte di Borsellino? Per capirlo bisogna tornare indietro: prima ci fu l’omicidio di Salvo Lima, che teneva i legami tra mafia e politica; poi le stragi di Falcone e Borsellino e infine l’uccisione di Ignazio Salvo, l’esattore che teneva i rapporti economici della mafia. Nell’arco di pochi anni vennero liquidati gli antichi legami tra mafia e mondo della legalità e furono uccisi i due che potevano indicare le nuove strade che la mafia avrebbe scelto.

Si ripristinò un equilibrio, quindi? Per comprendere meglio, le racconto un aneddoto: quando fu ucciso Giangiacomo Ciaccio Montalto, Carlo Palermo – un magistrato che prima lavorava a Bolzano – chiese di andare a Trapani. Io, che avevo sostenuto questo trasferimento, durante un viaggio in aereo ebbi una strana conversazione con un importante uomo politico siciliano, il quale mi disse che con quella mossa avevamo fatto un errore: “Questo sconquassa tutti gli equilibri, non capite che cosa può succedere”. Consideri che era un uomo non legato alla mafia ma di lungo corso politico e temeva proprio la rottura dell’equilibrio. L’idea di fondo era dunque quella di mantenere un equilibrio nel rapporto tra mafia e Stato.

Proprio il rapporto tra mafia e politica è stato al centro del processo sulla cosiddetta trattativa Stato- mafia. Trattativa c’è stata, secondo lei? L’ho detto pubblicamente quando sono stato interrogato dalla Corte d’Assise di Palermo durante quel processo: io credo che i magistrati inquirenti abbiano commesso un errore. L’indagine ha confuso quella che potrebbe essere stata una trattativa di polizia – tipica dei casi in cui non c’erano pentiti e non esistevano ancora le intercettazioni, in cui i poliziotti trattavano con i confidenti, facendo loro piccoli favori al fine di avere notizie – con una trattativa di carattere politico, che a mio avviso non c’è mai stata. Del resto Mannino, che doveva essere il vertice, è stato assolto e Mori, che doveva essere l’esecutore, è stato assolto due volte. Ingroia se n’è andato e anche Di Matteo sta lasciando.

Un processo fondato su presupposti errati, dunque? Posso sbagliarmi, ma ho seguito il processo con una certa attenzione e credo che sia stato sovrapposto alla realtà un preciso modello ideologico, secondo il quale lo Stato avrebbe trattato con la mafia, che però non aveva nulla a che fare con i fatti.

L’eredità di Borsellino è stata correttamente raccolta da chi lo ha seguito? Io credo di sì: tutti i capi mafia sono stati presi, tranne Messina Denaro. Dopo le stragi l’azione messa in campo dalla magistratura e dalle forze di polizia e’ stata di grande efficacia. Lo ha detto correttamente Giuseppe Pignatone in un editoriale sul Corriere della Sera: ora bisogna lavorare nello stesso modo anche nella lotta alla ‘ ndrangheta, nella quale siamo ancora indietro.

Sarebbe irrealistico, però, parlare di sconfitta della mafia. Ma certo, la lotta non è finita. Dobbiamo però essere grati a quelli che hanno smantellato un’organizzazione che sembrava invincibile. Ora il problema è la cultura mafiosa: le leggi e le punizioni servono ma non bastano.

E cosa serve, invece? Se da un terreno sassoso togliamo i sassi ma non concimiamo e coltiviamo, il terreno continuerà a non dare frutti. Alla Sicilia servono politiche sociali e di crescita culturale e il nuovo strumento dell’antimafia deve essere un governo sano ed efficace nella regione. La repressione serve a riequilibrare, certo, ma non risolve i problemi: può farlo solo il buon governo, ma purtroppo la Sicilia sembra essere ancora all’anno zero. E questo non riguarda certo i giudici, ma soprattutto la politica, soprattutto quella locale. GIULIA MERLO IL DUBBIO 19 luglio 2017


Luciano Violante: «La verità su Falcone e Borsellino? La mafia stava cambiando strategia e aveva paura di loro»

 

Intervista a tutto campo con l’ex presidente della Camera: «Sciatteria nella protezione a Borsellino? La Sicilia non è terra di distratti. Le intercettazioni Consip? Un uso immorale della questione morale»

Giovanni Falcone muore esattamente 24 anni fa, ucciso con cinque quintali di tritolo dalla mafia insieme a sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Sulla sua morte e su quella di Paolo Borsellino sappiamo molto, ma certamente non sappiamo tutto. Così è anche per molte vicende degli anni di piombo, a cominciare dal caso Moro.
Se c’è una persona cui chiedere se siamo una Repubblica dei Misteri questa persona è Luciano Violante: «Non userei quella espressione – spiega a Linkiesta – Anche se va detto che su alcuni episodi drammatici della nostra storia ci manca la verità. Penso, in particolare, a tre vicende, cioè l’omicidio di Aldo Moro, le stragi di piazza Fontana a Milano e di piazza della Loggia a Brescia. Vale per molte altre tragedie come ad esempio l’omicidio Kennedy e quello di Lee Oswald accusato di aver ucciso il presidente degli Stati Uniti. Aggiungo che noi siamo l’unico Paese d’Europa che ha riconosciuto ai terroristi la dissociazione, prendere le distanze dal terrorismo senza accusare altri. Nicolò Amato (allora a capo delle carceri italiane, ndr) ci propose di creare le aree omogenee fra detenuti. La Dc si rimise alle nostre decisioni, del gruppo dirigente del Pci. Ne discutemmo e alla fine molti si convinsero. Introducemmo questa importante novità e ottenemmo la dissociazione di molti brigatisti. Possibile perché di fronte c’è uno Stato che accetta la loro ammissione di avere sbagliato rispettando la volontà di non collaborare con la giustizia. Quella è una prova di democrazia che altri Paesi, dalla Spagna alla Germania alla Gran Bretagna, non hanno osato sostenere.

 

Torniamo a Falcone. La Repubblica è venuta a patti con la mafia? Abbiamo capito cosa è successo davvero?
La trattativa politica, a mio avviso, non c’è mai stata. C’è che la mafia considera intollerabili le proprie sconfitte e uccide chi “esagera”, chi colpisce troppo o troppo a lungo. Chi turba gli equilibri non può essere tollerato a lungo. Falcone, Borsellino, Chinnici, Livatino, La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa rompevano gli equilibri mafiosi e la antica convivenza tra mafia e poteri pubblici. Perciò sono uccisi.

La coincidenza tra stragi mafiose (’92-’93) e fine della Prima Repubblica è casuale?
La caduta del muro di Berlino cambia radicalmente gli equilibri internazionali e muta altrettanto radicalmente il ruolo dell’Italia. I partiti non reggono l’urto, in particolare non reggono Dc e Pci. La mafia avverte che il mondo sta cambiando e capisce anche che i suoi referenti storici non sono più in grado di garantirli. Falcone e Borsellino capiscono che Cosa Nostra si avvia a cambiare strategie e interlocutori e per questo vengono uccisi. Perciò dietro quei due omicidi c’è un’intelligenza “politica”, ancorché messa al servizio della criminalità organizzata. Non a caso nella stessa stagione vengono assassinati anche Lima e Salvo. Cosa Nostra fa fuori il garante dei contatti politici e il garante dei contatti finanziari, insieme ai due magistrati più capaci e coraggiosi. Così la mafia taglia i ponti con il passato, preparandosi alla Seconda Repubblica. La mafia si occupa sempre del futuro, non del passato.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono ammazzati a meno di due mesi di distanza l’uno dall’altro. Poteva andare diversamente?
Rispondo con gli occhi di chi guarda tanti anni dopo a quelle drammatiche settimane. E debbo purtroppo dire che avevano ragione loro quando dicevano, con impressionante lucidità, “siamo due morti che camminano”. Ero amico di Giovanni Falcone; lo sono diventato di Paolo Borsellino dopo Capaci. L’idea della morte, un’idea tutta siciliana della morte, era spesso presente nei loro ragionamenti.

Il 23 maggio del 1992 muore Falcone. Come è possibile che non riusciamo a salvare almeno Paolo Borsellino? A quel punto l’evidenza del pericolo non ha certo bisogno di altri elementi.
Ma se non fu disposto nemmeno il divieto di parcheggio sotto casa della madre? Tutti sapevano che la domenica andava lì. Mi torna alla mente un episodio. Borsellino viene a trovarmi a Roma, dopo la morte di Falcone. In quel momento telefona Piero Vigna, Procuratore della Repubblica a Firenze. Gli dico che c’è Paolo e gli passò la cornetta per un saluto. Vigna non era certo tenero con le parole e infatti si lamenta subito con Borsellino, dicendogli che invece di girare a fare comizi nelle scuole dovrebbe leggere i fax che lui gli manda. Borsellino cade dalle nuvole e allora Vigna gli rivela che c’è a Firenze un pentito di nome Mutolo (Gaspare Mutolo, sarà di lì a poco la voce più importante tra i pentiti di Cosa Nostra a sostenere le forti contiguità tra mafie e esponenti di spicco dello Stato, ndr) a che vuole parlare con lui. Ma Borsellino non ne sa nulla perchè il suo capo, il dottor Giammanco, non lo ha informato. Inizia così una defatigante trattativa, perché Borsellino viene autorizzato ad incontrare il pentito ma soltanto in presenza di altri magistrati della Procura di Palermo. Ma il pentito vuole parlare solo con lui. La mattina del 19 luglio 1992, domenica, alle sette, ha riferito Agnese Borsellino alla Corte d’Assise di Caltanissetta, mio marito ricevette a casa una telefonata del procuratore Giammanco che gli comunicava di aver deciso di affidargli le inchieste sulla mafia a Palermo. “Così la partita é chiusa”, dice il procuratore Giammanco. “Così la partita è aperta “ risponde Paolo Borsellino. Verrà ucciso nel pomeriggio dello stesso giorno.

Insomma non poteva andare diversamente, anche se è molto doloroso ammetterlo. Ma il parcheggio libero consentito davanti a casa della madre, dove Borsellino si reca ogni domenica, è solo un caso di sciatteria, una falla nel sistema di protezione?
La mia opinione è che non c’è sciatteria da quelle parti su temi così importanti. Conosco Palermo, ho lavorato per vent’anni laggiù. Non è terra né di stupidi né di distratti. «L’ultimo venerdì prima di morire Paolo interroga ancora Mutolo e ne esce sconvolto, come racconterà sua moglie Agnese. Dà appuntamento al pentito per il lunedì successivo, ma proprio quella domenica lo ammazzano. Il tema di quel colloquio mai avvenuto sarebbe stato proprio sui rapporti tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato»

 

Tra politica e giustizia ci sarà mai pace?
Il punto di fondo riguarda il modo di condurre la lotta politica e come funziona l’informazione. Prendiamo il caso Consip. È molto grave se, come assai probabile, un funzionario pubblico di qualsiasi tipo passa a un giornalista materiale che deve restare riservato. Ma non meno grave è come la politica usa tutto ciò nei propri dibattiti, perché questo finisce per essere un uso immorale della questione morale, tema che riguarda anche i media, sia chiaro. Per abbattere l’avversario vale tutto ormai. Si prenda la telefonata tra Renzi e il padre. A un certo punto dice “non fare il nome di mamma”: qui i casi sono due. O la telefonata era organizzata sapendo di essere intercettati, ma allora non si capisce quel riferimento, che diventa un autogol. Oppure la telefonata è una telefonata e basta, ma allora non si può dire che è stata confezionata ad arte. Non possiamo continuare ad usare tutto contro tutti anche nel modo più scorretto. Così non se la cava nessuno. Ricordiamoci che le democrazie muoiono sempre per suicidio, mai per omicidio.

In Italia abbiamo esagerato nell’utilizzo delle intercettazioni?
E l’uso nella battaglia politica che é incivile. Campagne di stampa di giorni e giorni sono assolutamente fuori da ogni logica democratica, che fa scivolare l’informazione verso la diffamazione. E sia chiaro, non è questione di norme. Come diceva Machiavelli, le leggi funzionano se ci sono buoni costumi. Roberto Arditti 23 maggio 2017 LINKIESTA  intervista integrale