23 MAGGIO 2012 – Vent’anni fa la Lega voleva risolvere il problema della mafia staccando il sud d’Italia dalla “padania”; Falcone e Borsellino volevano risolverlo rendendo più italiana la Sicilia. Centoncinquanta anni fa il Piemonte voleva annettere il resto dell’Italia attraverso una campagna di guerra condotta facendo abilmente tesoro del quadro internazionale per sfruttare i punti di debolezza delle Potenze che appoggiavano il Regno delle Due Sicilie: il Re Francesco II (che tra le prime cose concesse la Costituzione liberale) voleva unificare l’Italia senza usare le armi, e del resto l’errore che si attribuì a suo padre era quello di non aver approfittato della debolezza dello Stato pontificio per invaderlo.
Allora da che parte vengono gli uomini della legalità?
Il Sud anche venti anni fa ha dimostrato di volere l’Italia, di volerla governata da leggi e non dalla logica della forza di bande armate. Il sogno di Borsellino (“questa tornerà ad essere una terra bellissima”) era il sogno di un siciliano che vuole redimere la sua patria, per non lasciarla nel ghetto della illegalità, per consentirle di integrarsi nella società italiana della quale egli era uno dei più convinti servitori.
Al di là dei formali e scontati richiami al valore del loro sacrificio, il messaggio di Falcone e Borsellino sarebbe disatteso se si pensasse che quello della presenza mafiosa è un problema dei siciliani e che pertanto la Sicilia deve seguire il suo destino. Viceversa è un problema dell’Italia, che può essere risolto da italiani della Sicilia, come erano i tanti magistrati uccisi sul percorso della guerra di mafia.
La condizione di subalternità del Sud d’Italia, la stessa impostazione ideologica secondo la quale nel Mezzogiorno non si può fare altro che assecondare le lezioni di condotta civica e morale del Nord, contribuiscono a “far diventare meridionali” quella parte di italiani, come efficacemente è stato affermato nella più recente letteratura, e in particolare durante le celebrazioni dell’unificazione nazionale. La testimonianza di Falcone e Borsellino, se si vuole essere obiettivi, dimostra, invece, che uomini della legalità hanno trovato contrasti nell’apparato centrale dello Stato, da dove, cioè, dovevano venire appoggi, al punto che si sospetta che il sacrificio di Borsellino sia conseguenza di irriferibili accordi. C’è qualcosa, dunque, da rivedere quando si guarda il disegno del “flusso della legalità”, come se fosse consentito rappresentarlo in direzione unilaterale, come se, ancora dopo centocinquanta anni, queste terre fossero una colonia.