Nel periodo immediatamente anteriore alla trasmissione alla Squadra Mobile di Caltanissetta della suddetta nota del SISDE relativa allo Scarantino, quest’ultimo era stato destinatario di una intensa attività investigativa condotta dal Dott. Arnaldo La Barbera (il quale, peraltro, a sua volta, aveva intrattenuto un rapporto di collaborazione “esterna” con il SISDE dal 1986 al marzo 1988, con il nome in codice “Rutilius”, mentre dirigeva la Squadra Mobile di Venezia). Sulla base di tale attività investigativa, lo Scarantino era stato raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in data 26 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Caltanissetta per concorso nella strage di via D’Amelio e nei reati connessi. Gli elementi indiziari a suo carico erano costituiti dalle dichiarazioni rese da due soggetti che avevano indicato in lui la persona che aveva commissionato e ricevuto la Fiat 126 utilizzata per la strage. Si trattava, precisamente, delle dichiarazioni di Luciano Valenti e Salvatore Candura, nelle quali il Pubblico Ministero, nella sua memoria conclusiva, ha individuato «la scaturigine del depistaggio». Luciano Valenti e Salvatore Candura, insieme al fratello del primo, Roberto Valenti, erano stati sottoposti alla misura della custodia cautelare in carcere in esecuzione di un’ordinanza emessa il 2 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Palermo per i reati di violenza carnale e di rapina, commessi il 29/8/1992. I loro nominativi erano stati precedentemente posti all’attenzione degli inquirenti dalle conversazioni intercettate sull’utenza telefonica in uso a Valenti Pietrina, alla quale, come si è detto, era stata sottratta l’autovettura Fiat 126 utilizzata per la strage. Tra l’altro, la Valenti, nel corso della conversazione delle ore 23,14 del 30 luglio 1992, commentando le immagini televisive del luogo della strage di via D’Amelio con Sbigottiti Paola, moglie di Valenti Luciano, aveva pronunciato la frase: “ed in quel posto la mia macchina c’è….”. In una successiva telefonata delle ore 00,05 dell’1 agosto 1992, le due donne avevano esternato sospetti nei confronti di Salvatore, amico di Valenti Luciano, quale possibile autore del furto della Fiat 126. Tale soggetto venne identificato in Salvatore Candura. Quest’ultimo, quando era stato tratto in arresto in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare emessa il 2 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Palermo per i reati di violenza carnale e di rapina, ed era stato quindi condotto presso gli uffici della Squadra Mobile, aveva lamentato di aver ricevuto minacce e di essere preoccupato perché aveva avuto modo di notare persone sospette nei pressi della propria abitazione. Tale comportamento era apparso strano agli inquirenti, che lo avevano ricollegato all’atteggiamento tenuto dallo stesso Candura alcuni giorni prima, allorché, accompagnato presso una Caserma dei Carabinieri per essere denunciato per tentata rapina ai danni di un autotrasportatore, piangendo, aveva profferito la frase “…non li ho uccisi io…” (cfr. la informativa di reato del 19 ottobre 1992 della Squadra Mobile della Questura di Palermo). Il 12 settembre 1992 il Dott. Arnaldo La Barbera, nella qualità di Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, venne autorizzato dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Palermo ad effettuare un colloquio investigativo con i detenuti Candura Salvatore e Valenti Luciano. Il giorno successivo, 13 settembre 1992, Salvatore Candura fu interrogato dal Pubblico Ministero di Caltanissetta, al quale riferì che nei primi giorni del mese di luglio 1992 Luciano Valenti gli aveva comunicato che il loro comune amico Vincenzo Scarantino aveva commissionato allo stesso Valenti il furto di un’autovettura di piccola cilindrata, il quale avrebbe dovuto essere eseguito quella sera stessa, e per compensarlo gli aveva dato la somma di 150.000 lire; il Valenti aveva aggiunto che si sarebbe impossessato della Fiat 126 della propria sorella, Pietrina Valenti. Il Candura affermò di essere a conoscenza che l’autovettura, quella stessa sera, era stata trafugata e quindi parcheggiata in una strada nei pressi di Via Cavour, per essere poi consegnata alle persone che ne avevano bisogno. Il Candura riferì inoltre che cinque o sei giorni dopo la data del furto era stato contattato da Pietrina Valenti, la quale gli aveva detto che nella notte precedente le avevano rubato la sua autovettura Fiat 126. Alla discussione aveva assistito Luciano Valenti, che aveva invitato il Candura a uscire insieme a lui per cercare l’autovettura, ed aveva quindi finto di attivarsi in tal senso. Il Candura segnalò di avere avuto dei sospetti sulla possibilità che la suddetta Fiat 126 fosse stata utilizzata per la strage di Via D’Amelio, e di averne quindi parlato con Luciano Valenti, il quale però lo aveva rassicurato incitandolo a tenere un comportamento indifferente rispetto a questa circostanza. Egli inoltre sostenne di aver visto, qualche giorno prima del furto della Fiat 126, lo Scarantino parlare con uno dei fratelli Tagliavia, titolare di una rivendita di pesce in via Messina Marine. A sua volta, Luciano Valenti, dopo avere negato ogni propria responsabilità in data 17 settembre 1992 sia in sede di interrogatorio di garanzia, sia in sede di confronto con il Candura, in data 20 settembre 1992 finì per cedere alle pressioni di quest’ultimo e rese al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta un interrogatorio in cui affermava di avere sottratto l’autovettura su incarico di Vincenzo Scarantino, di avere ricevuto la somma di 150.000 lire come compenso, e di avere consegnato il veicolo nei pressi di Via Cavour. In data 26 settembre 1992 venne quindi emessa la suddetta ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico dello Scarantino, che nell’interrogatorio di garanzia del 30 settembre 1992 sostenne la propria innocenza, negando di conoscere Luciano Valenti e precisando di conoscere solo di vista Salvatore Candura, suo vicino di casa. Lo Scarantino venne quindi trasferito, in data 2 ottobre 1992, presso il carcere di Venezia, dove venne collocato nella stessa cella di Vincenzo Pipino, un trafficante di opere d’arte che il Dott. Arnaldo La Barbera aveva conosciuto nel periodo in cui aveva prestato servizio presso la Squadra Mobile di Venezia, e che aveva quindi pensato di utilizzare come una sorta di “agente provocatore” allo scopo di sollecitare e raccogliere le confidenze dello Scarantino. All’interno della cella dove si trovavano lo Scarantino e il Pipino venne anche attivato un servizio di intercettazione, che però non diede risultati significativi. A proposito delle conversazioni intercorse fra lo Scarantino e il Pipino, la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo c.d. “Borsellino uno” ha rilevato che «trattasi in prevalenza di lunghi soliloqui in quanto è soltanto il Pipino a parlare, mentre il suo interlocutore non profferisce parola o accenna solamente qualche frase, il più delle volte incomprensibile», e ha evidenziato che il tenore dei colloqui «tradisce all’evidenza che il Pipino è un confidente della Polizia che era stato collocato nella stessa cella dello Scarantino allo scopo di provocarne e raccoglierne le confidenze in merito ai fatti di strage per cui è processo. All’uopo, infatti, il Pipino si adopera, spiegando allo Scarantino le accuse elevate nei suoi confronti, le incongruenze delle discolpe da lui addotte, i rischi connessi alla sua attuale posizione processuale, cercando nel contempo di sollecitarne le confidenze, prospettandogli possibili e più valide strategie difensive». Nel frattempo, invece, il Candura modificava la propria versione dei fatti. Egli, nell’interrogatorio reso il 3 ottobre 1992 davanti al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta, sostenne di essersi reso autore, nei primi giorni del precedente mese di luglio, del furto della Fiat 126 di Pietrina Valenti, commissionatogli dello Scarantino, e aggiunse di aver tentato di far ricadere su Luciano Valenti la responsabilità del furto per paura delle gravi rappresaglie che lo Scarantino avrebbe potuto mettere in atto nei suoi confronti. Lo Scarantino, nell’incaricarlo di reperire un’autovettura di piccola cilindrata, non importava in quali condizioni, purché marciante, gli aveva consegnato uno “spadino” (chiave artificiosa per aprire la portiera) e la somma di lire 150.000 in acconto sul maggiore compenso promesso di lire 500.000. In effetti il Candura, profittando dei rapporti di buona conoscenza intercorrenti con Pietrina Valenti (sorella dell’amico Luciano Valenti), che sapeva essere in possesso di una autovettura del tipo richiesto dallo Scarantino, aveva sottratto la Fiat 126 della donna, consegnandola nella stessa serata allo Scarantino nelle vicinanze di Via Cavour, all’angolo tra via Roma e un’altra traversa. Il Candura inoltre affermò che, dopo avuto notizia dai giornali e dalla televisione dell’avvenuta utilizzazione di una Fiat 126 quale autobomba per la strage di Via D’Amelio, si era recato in più occasioni dallo Scarantino per essere rassicurato circa il fatto che l’autovettura da lui rubata non fosse servita per commettere il delitto, ma a tali richieste lo Scarantino si era visibilmente alterato, intimandogli di dimenticare tutto e di non parlarne con nessuno. Dopo tali incontri aveva ricevuto delle telefonate minatorie che avevano rafforzato il sospetto iniziale, tanto che si era nuovamente rivolto allo Scarantino, che riteneva essere l’autore delle telefonate, suscitandone però altre reazioni negative. trattava del primo interrogatorio reso dal Candura dopo che, in data 19 settembre 1992 il Dott. Vincenzo Ricciardi, della Squadra Mobile di Palermo, era stato autorizzato dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Palermo ad effettuare colloqui investigativi con lui. Anche a fronte di queste nuove dichiarazioni del Candura lo Scarantino continuò a protestare la propria innocenza, negando, negli interrogatori resi tra il 1992 e il 1993 davanti al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta, la veridicità delle accuse mossegli. Lo Scarantino in data 13/11/1992 venne trasferito dal carcere di Venezia alla Casa Circondariale di Busto Arsizio, dove rimase ristretto prima nella Sezione dove si trovavano i detenuti sottoposti al regime dell’art. 41 bis O.P., e poi in una cella singola, con regime di completo isolamento e di stretta sorveglianza; non gli era consentito neppure di vedere la televisione, e poteva effettuare un solo colloquio al mese con i propri familiari. Egli cadde quindi in uno stato di depressione, rendendosi protagonista di reiterati gesti di autolesionismo (cfr. la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo c.d. “Borsellino uno”). Nell’interrogatorio reso il 6 maggio 1993 al Pubblico Ministero di Caltanissetta, lo Scarantino, oltre a contestare le accuse mossegli, segnalava il proprio stato di prostrazione morale che lo aveva indotto a un tentativo di suicidio, esplicitava di non sopportare più lo stato di isolamento, e sottolineava che altri detenuti in particolare, un ex agente di custodia e il pentito Caravelli Roberto lo sollecitavano a confessare delitti da lui non commessi. Dal 3 giugno 1993, la cella contigua a quella dello Scarantino venne occupata da Francesco Andriotta, il quale rimase nel medesimo reparto del carcere di Busto Arsizio fino al 23 agosto successivo. In data 14 settembre 1993, Francesco Andriotta iniziò la propria “collaborazione” con l’Autorità Giudiziaria, che forma oggetto di specifica trattazione in altro capitolo. In questa sede, è sufficiente rammentare che già nell’interrogatorio reso nella suddetta data al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini, l’Andriotta iniziò a riferire su una serie di confidenze che lo Scarantino gli avrebbe fatto durante il periodo di comune detenzione. Secondo il racconto dell’Andriotta, lo Scarantino gli aveva confidato di avere effettivamente commissionato al Candura, su richiesta di un proprio parente (un cognato o fratello), il furto della Fiat 126 poi utilizzata nella strage di Via D’Amelio. L’autovettura da sottrarre doveva essere di colore bordeaux, perché anche sua sorella, Ignazia Scarantino, ne possedeva una dello stesso colore, e quindi, se qualcuno lo avesse visto durante gli spostamenti della vettura, non avrebbe nutrito alcun sospetto. Il Candura aveva sottratto la Fiat 126 di proprietà della sorella di Luciano Valenti, il quale la aveva portata nel posto stabilito, dove lo Scarantino la aveva presa in consegna, provvedendo a ricoverarla in un garage, diverso da quello dove la stessa era stata, successivamente, imbottita d’esplosivo. Infine, lo Scarantino aveva portato il veicolo dal garage alla via D’Amelio. A dire dell’Andriotta, lo Scarantino gli aveva altresì riferito «che l’auto non funzionava e che venne trainata fino al garage», che «l’auto venne quindi riparata così da renderla funzionante», che «furono cambiate le targhe con quelle di un altro 126», e che «avevano tardato a denunciare il furto dell’auto o delle targhe al lunedì successivo all’esplosione giustificando tale ritardo con il fatto che il garage era rimasto chiuso». Diversamente da tutto il resto del racconto dell’Andriotta, queste ultime circostanze corrispondono perfettamente alla realtà: come si è visto nel capitolo relativo alla ricostruzione della fase esecutiva della strage, è rimasto inequivocabilmente accertato, nel presente procedimento, che la Fiat 126 presentava problemi meccanici, che vi fu la necessità di trainarla subito dopo il furto, che si provvide alla sua riparazione e alla sostituzione delle targhe, che la denuncia del furto delle targhe venne effettuata nel lunedì successivo alla strage. Trattandosi di circostanze che mai lo Scarantino avrebbe potuto riferirgli, per la semplice ragione che non aveva avuto alcun ruolo nell’esecuzione della strage, deve necessariamente ammettersi una ricezione, da parte dell’Andriotta, di suggerimenti provenienti dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, avevano tratto le relative informazioni, almeno in parte, da altre fonti rimaste occulte. Tale inquinamento si era già realizzato al momento in cui ebbe inizio la “collaborazione” dell’Andriotta con la giustizia. Nei successivi interrogatori, l’Andriotta aggiunse ulteriori particolari, arricchendo progressivamente il contenuto delle confidenze che sosteneva di avere ricevuto dallo Scarantino. Ad esempio, nell’interrogatorio reso il 4 ottobre 1993 nel carcere di Milano Opera al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini, l’Andriotta sostenne di avere appreso dallo Scarantino che colui che gli aveva commissionato il furto dell’automobile da utilizzare per la strage era Salvatore Profeta, motivò l’iniziale reticenza, a tale riguardo, con la paura di menzionare un personaggio d’elevato spessore criminale, e specificò che il ritardo nella denuncia di furto al lunedì successivo la strage riguardava le targhe apposte alla Fiat 126. i n occasione dell’interrogatorio del 25 novembre 1993, inoltre, l’Andriotta affermò che nel momento in cui arrivava l’esplosivo o quando lo stesso veniva trasferito sulla Fiat 126 era presente anche Salvatore Profeta. In occasione dell’interrogatorio del 17 gennaio 1994, l’Andriotta aggiunse che, dopo la strage di via D’Amelio, il Candura aveva cercato, più volte, lo Scarantino, per sapere se l’autovettura utilizzata per l’attentato era proprio quella rubata da lui; ma lo Scarantino lo aveva trattato in malo modo, intimandogli di non fargli più domande sul punto, e facendogli fare anche una telefonata minatoria, vista l’insistenza del Candura. E’ dunque evidente, nelle dichiarazioni dell’Andriotta, un significativo adeguamento al racconto – parimenti falso – esposto dal Candura. Si noti, peraltro, che nella stessa data del suddetto interrogatorio, avvenuto il 17 gennaio 1994, l’Andriotta ebbe un colloquio investigativo con il Dott. Arnaldo La Barbera. Frattanto, anche lo Scarantino, trasferito presso la Casa Circondariale di Pianosa, ebbe in tale luogo una serie di colloqui investigativi: rispettivamente, il 20 dicembre 1993 con il Dott. Mario Bo’ (funzionario di polizia inserito nel gruppo “Falcone-Borsellino”), il 22 dicembre 1993 con il Dott. Arnaldo La Barbera, il 2 febbraio 1994 con il Dott. Mario Bo’ e il 24 giugno 1994 con il Dott. Arnaldo La Barbera. In quest’ultima data lo Scarantino (il quale fino all’interrogatorio reso il 28 febbraio 1994 alla Dott.ssa Boccassini aveva protestato la propria innocenza) iniziò la propria “collaborazione” con l’autorità giudiziaria, con le modalità già indicate, confermando largamente il falso contenuto delle dichiarazioni precedentemente rese dal Candura e dall’Andriotta, ed aggiungendo ulteriori tasselli al mosaico. A sua volta, l’Andriotta, negli interrogatori resi il 16 settembre ed il 28 ottobre 1994 nel carcere di Paliano (dove risultano documentati, nelle medesime date, altrettanti accessi del Dott. Mario Bo’), adeguandosi in gran parte alle dichiarazioni rese dallo Scarantino dopo la scelta “collaborativa”, riferì, per la prima volta, sulle confidenze fattegli da quest’ultimo sulla riunione di Villa Calascibetta, asseritamente taciute per timore sino ad allora. L’analisi che si è condotta sulla genesi della “collaborazione” con la giustizia del Candura, dell’Andriotta e dello Scarantino, lascia emergere una costante: in tutti e tre i casi, le dichiarazioni da essi rese, radicalmente false nel loro insieme, ricomprendevano alcune circostanze oggettivamente vere, che dovevano essere state suggerite loro dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte. Altrettanto significativa è la circolarità venutasi a creare tra il contributo dichiarativo dei tre “collaboranti”, ciascuno dei quali confermava il falso racconto dell’altro, conformandovi progressivamente anche la propria versione dei fatti. Per lo Scarantino e per il Candura, è rimasto documentalmente confermato che la falsa collaborazione con la giustizia fu preceduta da colloqui investigativi di entrambi con il Dott. La Barbera, e del primo anche con il Dott. Bo’. Un colloquio investigativo del Dott. La Barbera precedette anche un successivo interrogatorio dell’Andriotta contenente un significativo adeguamento al racconto – parimenti falso – esposto dal Candura. A sua volta, il Dott. Ricciardi effettuò un ulteriore colloquio investigativo che precedette un consistente mutamento del contributo dichiarativo offerto dal Candura. Dunque, anche a prescindere dalle affermazioni compiute dallo Scarantino nel corso del suo esame dibattimentale (la cui valenza probatoria può effettivamente reputarsi controversa, considerando le continue oscillazioni da cui è stato contrassegnato il suo contributo processuale nel corso del tempo), e dalle indicazioni (decisamente generiche, oltre che de relato) offerte da alcuni collaboratori di giustizia (come Gaspare Spatuzza e Giovanni Brusca) sulle torture subite a Pianosa dallo Scarantino, deve riconoscersi che gli elementi di prova raccolti valgono certamente a che il proposito di rendere dichiarazioni calunniose venne ingenerato in lui da una serie di attività compiute da soggetti, come i suddetti investigatori, che si trovavano in una situazione di supremazia idonea a creare una forte soggezione psicologica. Era questa senza alcun dubbio la posizione dello Scarantino, un soggetto psicologicamente debole che era rimasto per un lungo periodo di tempo (quasi un anno e nove mesi) in stato di custodia cautelare proprio a seguito delle false dichiarazioni rese dal Candura sul suo conto, ed era stato, frattanto, oggetto di ulteriori propalazioni, parimenti false, da parte dell’Andriotta, il quale millantava di avere ricevuto le sue confidenze durante la co-detenzione. Egli quindi, come ha evidenziato il Pubblico Ministero, aveva «maturato la convinzione che gli inquirenti lo avessero ormai “incastrato” sulla scorta di false prove». Dopo un lungo periodo nel quale lo Scarantino aveva professato inutilmente la propria innocenza, le sue residue capacità di reazione vennero infine meno a fronte dell’insorgenza di un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, i quali esercitarono in modo distorto i loro poteri con il compimento di una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte. Si tratta, pertanto, di una situazione nella quale è indubbiamente configurabile la circostanza attenuante dell’art. 114 comma terzo c.p., che, come chiarito dalla giurisprudenza, prevede una diminuzione di pena per il soggetto “determinato” a commettere il reato, proprio in forza dell’opera di condizionamento psicologico da lui subita di Attilio Bolzoni – La Repubblica