CHIESTO IL PROCESSO
La sentenza della Corte d’appello non chiude il caso. La procura di Caltanissetta ha già chiesto un nuovo processo per il depistaggio istituzionale che ha tenuto lontana la verità dai veri responsabili della strage di via D’Amelio.
E, ancora una volta, sotto accusa ci sono quattro rappresentanti delle istituzioni, altri poliziotti che un tempo facevano parte del gruppo di indagine sulle stragi Falcone e Borsellino.
Proprio come quelli appena giudicati in appello.
Proprio come quelli appena giudicati in appello.
Ma questa volta, l’accusa è più pesante: non più calunnia nei confronti del falso pentito Vincenzo Scarantino, ma “𝒅𝒆𝒑𝒊𝒔𝒕𝒂𝒈𝒈𝒊𝒐”.
Il reato previsto dall’articolo 375 del codice penale viene contestato a 𝐌𝐚𝐮𝐫𝐢𝐳𝐢𝐨 𝐙𝐞𝐫𝐢𝐥𝐥𝐢, 𝐆𝐢𝐮𝐬𝐞𝐩𝐩𝐞 𝐃𝐢 𝐆𝐚𝐧𝐠𝐢, 𝐕𝐢𝐧𝐜𝐞𝐧𝐳𝐨 𝐌𝐚𝐧𝐢𝐬𝐜𝐚𝐥𝐝𝐢 e 𝐀𝐧𝐠𝐞𝐥𝐨 𝐓𝐞𝐝𝐞𝐬𝐜𝐨.
Il reato previsto dall’articolo 375 del codice penale viene contestato a 𝐌𝐚𝐮𝐫𝐢𝐳𝐢𝐨 𝐙𝐞𝐫𝐢𝐥𝐥𝐢, 𝐆𝐢𝐮𝐬𝐞𝐩𝐩𝐞 𝐃𝐢 𝐆𝐚𝐧𝐠𝐢, 𝐕𝐢𝐧𝐜𝐞𝐧𝐳𝐨 𝐌𝐚𝐧𝐢𝐬𝐜𝐚𝐥𝐝𝐢 e 𝐀𝐧𝐠𝐞𝐥𝐨 𝐓𝐞𝐝𝐞𝐬𝐜𝐨.
Il procuratore 𝐒𝐚𝐥𝐯𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐃𝐞 𝐋𝐮𝐜𝐚 e il sostituto 𝐌𝐚𝐮𝐫𝐢𝐳𝐢𝐨 𝐁𝐨𝐧𝐚𝐜𝐜𝐨𝐫𝐬𝐨 hanno già sollecitato il rinvio a giudizio, l’udienza preliminare si terrà l’11 luglio.
Un altro atto d’accusa pesantissimo contro un pezzo delle istituzioni che avrebbe dovuto cercare la verità. Sono stati i giudici del tribunale – quelli che hanno giudicato Mario Bo’, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo – a far scattare le nuove accuse, trasmettendo gli atti in procura. Zerilli, Di Gangi, Maniscaldi e Tedesco sono stati testimoni di quel processo, ma non hanno convinto. «L’ispettore Maurizio Zerilli ha detto 121 “non ricordo”, e non su circostanze di contorno», ha scritto il tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza che ha scavato nei misteri del falso pentito Vincenzo Scarantino, costruito ad arte dall’allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera.
Oltre cento i “non ricordo” di un altro ispettore, Angelo Tedesco. Ben 110 ne ha collezionati il suo collega Giuseppe Di Gangi. Il quarto ispettore del gruppo che avrebbe dovuto indagare sui misteri delle stragi, Vincenzo Maniscaldi, «non si è trincerato dietro ai “non ricordo”, ma si è spinto a riferire circostanze false», ha scritto il collegio presieduto da Francesco D’Arrigo. E così dopo la trasmissione dei verbali in procura, i quattro poliziotti sono finiti indagati per falsa testimonianza. Convocati dai pubblici ministeri nisseni, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Quindi, dopo un primo avviso di conclusione delle indagini, la procura ha modificato la contestazione in quella più grave di depistaggio.
Lo scenario è sempre lo stesso. Anche questi poliziotti sono accusati di aver commesso il reato per proteggere i misteri di quello che viene considerato il regista dell’operazione depistaggio l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera.
Il procuratore aggiunto Pasquale Pacifico e i sostituti Claudia Pasciuti, Nadia Caruso e Davide Spina scavano nella vita del super poliziotto, nelle indagini condotte a Palermo, a caccia di tracce della sua infedeltà. Indagine certo non facile per il tanto tempo trascorso. Ma in questa storia i colpi di scena sono sempre dietro l’angolo.
Dopo tanti anni, alcuni poliziotti che quel pomeriggio del 19 luglio 1992 erano in via D’Amelio si sono ricordati dettagli importanti. Questa è anche una storia di smemorati e di gente che ha riacquistato la memoria all’improvviso.
Il procuratore aggiunto Pasquale Pacifico e i sostituti Claudia Pasciuti, Nadia Caruso e Davide Spina scavano nella vita del super poliziotto, nelle indagini condotte a Palermo, a caccia di tracce della sua infedeltà. Indagine certo non facile per il tanto tempo trascorso. Ma in questa storia i colpi di scena sono sempre dietro l’angolo.
Dopo tanti anni, alcuni poliziotti che quel pomeriggio del 19 luglio 1992 erano in via D’Amelio si sono ricordati dettagli importanti. Questa è anche una storia di smemorati e di gente che ha riacquistato la memoria all’improvviso.
Ecco, dunque, l’ultimo ricordo, davvero importante per la ricostruzione dell’intera vicenda: alcuni poliziotti hanno confermato di aver preso in consegna la borsa di Paolo Borsellino dal capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, poco dopo la famosa foto del reporter Franco Lannino che lo immortala in via d’Amelio. «Perché la competenza delle indagini spettava alla polizia», hanno spiegato i testimoni.
E così la borsa di Paolo Borsellino finì nella stanza di Arnaldo La Barbera, senza alcuna relazione di servizio, che fu predisposta solo quattro mesi dopo da un sottufficiale.
Salvo Palazzolo su Repubblica-Palermo del 05/06/2024
20 febbraio 2024
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