FRANCO LANNINO: “La Strage di Via D’Amelio e i vetri rotti”

In questa foto scattata in via D’Amelio all’alba del 20 luglio 1992 sono ben visibili 128 imposte dei due palazzi raffigurati. Li era dove abitava la vecchia madre, la sorella e il cognato del giudice Paolo Borsellino. Come potete vedere non c’è una imposta integra, sono state tutte sventrate. E tenete conto che guardando la foto, a destra ci sono altri due stabili e di fronte, alle mie spalle rispetto alla fotografia che vedete ci sono altri quattro palazzi. Approssimativamante parliamo di circa 600 imposte. Ecco nessuna di esse rimase integra. Pensate che pure tutte le porte di ingresso degli appartamenti, circa 400, corazzate e non, erano state abbattute, nessuna è rimasta sui cardini. Nel raggio di 700 metri non è rimasto un vetro integro, tutti frantumati, a pezzi. Ancora oggi mi chiedo se la strage non fosse avvenuta un afoso pomeriggio domenicale di luglio, quando tutti sono al mare o a crecare un po’ di refrigerio, quanti morti avremmo contato in quel tratto di via D’Amelio oltre ai sette martiri falciati dalla maledetta mano mafiosa?

 

 

Franco Lannino, il fotoreporter che per primo mandò un’immagine da Capaci Il ricordo: “Non capivo che stavo fotografando”

VIDEO RAI NEWS

 


«Vi racconto gli orrori della mafia nella Macelleria Palermo». Così sono nate le foto che hanno segnato un’epoca

 

A Capaci nel 1992 i soccorritori portano via i resti dei corpi straziati degli agenti di scorta di Giovanni Falcone

 

Sempre con la usa inseparabile reflex al collo ha iniziato a scattare con l’agenzia Publifoto nel 1981 che aveva un rapporto privilegiato con il quotidiano L’Ora. Poi il grande salto avviene nel 1989: mettersi in proprio con un altro formidabile «cacciatore» di scoop fotografici Michele Naccari conosciuto nella stessa agenzia. Così nacque lo Studio Camera he ha raccontato uno spaccato di Sicilia attraverso carrellate di immagini «forti», spesso raccapriccianti, finite non solo in tutte le prime pagine dei giornali italiani ma anche sul New York Times, Der Spiegel, Stern, Clarin e Time. Per arrivare per primi sulle scene del crimine hanno vissuto per decenni attaccati a uno «scanner» radio (illegale ma tollerato all’epoca) da un lato e qualche imbeccata dalle forze dell’Ordine che gli consentiva di ascoltare le comunicazioni di polizia, carabinieri e vigili del fuoco.«Quando sentivamo agitazione o numeri in codice – racconta Lannino – partivamo a razzo con qualsiasi mezzo potesse portarci più velocemente possibile con il cuore in gola e l’adrenalina alle stelle. Alle volte chiamavamo noi i cronisti per avvertirli e poi garantirci la vendita del nostro servizio perché in questo mestiere il primo fotografo che arriva “mangia”, il resto digiuna». In un’epoca fatta di cellulari e social è tutto impensabile il metodo di lavoro di allora. «La foto del cadavere doveva essere scattata in pochi secondi – prosegue – perché poi si doveva correva indietro a sviluppare il rullino e a stampare il fotogramma. Una corsa contro l’orologio tale che alle volte neanche aspettavamo che la carta si asciugasse e la portavano ancora bagnata nelle redazioni. Doveva soddisfare il direttore e il giorno dopo il lettore che aveva diritto di vedere ed essere informato. Se a tutto questo aggiungevi la tua vena artistica anche per queste tristi occasioni, potevi considerarti un buon fotoreporter e un valido professionista».
Subito dopo l’attentato a Falcone si capì subito che il suo collega, amico ed erede Paolo Borsellino era nel mirino dei Corleonesi di Riina. «Il giorno della strage di via D’Amelio ero lì – spiega Lannino – e il chilometro che mi separava dal luogo dove avevo lasciato l’auto lo feci tutto di corsa. Anche in quel caso fui il primo fotografo ad arrivare sul luogo di quella strage e misi subito l’occhio nel mirino della mia fotocamera ero abituato a scene raccapriccianti e sapevo come fare per mantenere il sangue freddo, la mente lucida. Camminavo fra macerie in fumo e brandelli di corpo di Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Quasi subito però nel mirino vidi un ufficiale dei carabinieri che conoscevo bene, Giovanni Arcangioli, allontanarsi dal luogo dell’esplosione. Ci conoscevamo perché spesso ci vedevamo nei luoghi dei tanti omicidi di mafia che in quegli anni insanguinavano le strade di Palermo. Ci rispettavamo ognuno nei rispettivi  suoi ruoli. Lo fotografai più che altro perché mi colpì quel “fratino” (uno smanicato) azzurro. Mi sembrò troppo sgargiante in quella scena da guerra libanese e volevo regalargliela qualche giorno dopo per poterlo un po’ prendere in giro e dirgli: “perché indossavi quel fratino di quello strano colore così fuori contesto?”. Però fui subito rapito dalla realtà infernale che mi circondava. Il tanfo di morte si mischiava a quello pungente di bruciato e di gasolio. Mi scordai di quel capitano e mi gettai in apnea in quello che doveva essere un servizio fotografico molto professionale da offrire alle redazioni dei giornali. Quello feci, e lo feci meccanicamente ma lucidamente. Fotografare, registrare e documentare quell’orrore». Foto vendute a tutti i giornali del mondo: «Poi vennero gli anni duemila, cominciava a prendere piede la rivoluzione digitale. Si cominciava a scannerizzare tutti gli avvenimenti importanti degli anni precedenti e noi abbiamo tre milioni di scatti in archivio – spiega Lannino – e toccò anche ai fotogrammi più interessanti della strage di via d’Amelio. Con il lentino di ingrandimento guardavo quei vecchi fotogrammi, e lo vidi, anzi lo rividi quel capitano con quel fratino azzurro. Mi accorsi di un dettaglio: stringeva nella mano sinistra una borsa. Tutti in quegli anni cercavano l’agenda rossa che quella borsa avrebbe contenuto. Io avevo davanti un fotogramma che mi diceva chiaramente chi aveva preso quella borsa. “Arcangioli!” mi dissi. Lui prese la borsa. Bingo! Avevo uno scoop. Feci vedere quello scatto al mio socio, Michele Naccari, che rimase esterrefatto!». Da qui l’idea di vendere la foto: «Tramite colleghi fidati contattammo varie redazioni e proponemmo quello scoop a l’Espresso e  Panorama ma la voce arrivò alla procura della Repubblica e cinque agenti della Direzione investigativa antimafia bussarono alla porta di Studio Camera e gli consegnammo subito lo scatto». L’ufficiale, poi diventato generale, fu indagato ma fu assolto in tutti i gradi di giudizio perché il fatto non sussiste: «A oggi dell’agenda rossa non c’è nessuna traccia ma io attendo ancora di poter regalare a quell’ufficiale dei carabinieri quello scatto, e di consigliargli la prossima volta che deve andare per servizio sul luogo di una strage, di vestire in maniera più consona e discreta. Chissà, forse un giorno…».  CORRIERE DELLA SERA 17 maggio 2024

 

 

 

VIA D’AMELIO – L’attentato e le indagini