Palermo come Beirut e quei corpi straziati: l’orrore di via D’Amelio vissuto in prima persona

Storia di Massimo Norrito

Bum, bum. I boati furono due, probabilmente uno eco dell’altro. Poi una colonna di fumo con in cima il piccolo fungo che accompagna le esplosioni. Il 19 luglio di trentuno anni fa ero a casa dei miei genitori, in linea d’aria non troppo lontana da via D’Amelio. Del resto, quel fumo da lì a poco sarebbe stato visibile da gran parte della città. 

 

All’epoca lavoravo per una televisione privata regionale e il primo istinto fu di correre sul luogo dell’esplosione seguendo la colonna di fumo. Il problema era trovare subito un cameraman disponibile (i videomaker si chiamavano così tanti anni fa) e così dissi a mio fratello di prendere la telecamera amatoriale e di correre con me. 

Con lo scooter arrivammo pochi minuti dopo e, nonostante ciò che avevo visto il 23 maggio a Capaci, non ero assolutamente preparato alle scene di via D’Amelio. 

Quello che poteva sembrare l’esplosione di una bombola del gas era invece l’attentato che aveva trasformato Palermo in Beirut. Mio fratello fu fermato da un cordone di polizia. Io, grazie al tesserino di giornalista, riuscii a passare. 

Ricordo il suono continuo, quasi la colonna sonora di un film dell’orrore, degli antifurto delle auto e dei palazzi, che non la smettevano di “urlare”. Poi il frastuono degli elicotteri, le sirene delle ambulanze e delle auto delle forze dell’ordine. Il getto d’acqua degli idranti dei vigili del fuoco. 

Ma quanto si sentiva era nulla rispetto a ciò che si vedeva. Il corpo di Paolo Borsellino era nel giardino dell’abitazione della madre. Gonfio per l’esplosione, quasi viola per la combustione. Poco distante, sul muro del palazzo, c’era l’impronta lasciata dal corpo di Emanuela Loi prima di scivolare giù a terra. Il cadavere carbonizzato di un agente della scorta, probabilmente Agostino Catalano: era praticamente seduto, appoggiato a un palo della luce. L’unica cosa che aveva resistito al fuoco era una collanina d’oro che l’uomo portava al collo. 

Antonino Vullo, l’agente sopravvissuto, si aggirava spaesato e in stato confusionale tra le auto in fiamme prima che di lui si prendessero cura i medici e gli infermieri di un’ambulanza. Manfredi Borsellino, ventenne, venne bloccato dal pm del maxiprocesso Giuseppe Ayala che lo prese sottobraccio e lo allontanò dal luogo dell’attentato evitandogli lo strazio della scena.  

A poco a poco uscirono anche gli abitanti del palazzo di via D’Amelio. In lacrime, sconvolti. Sembravano le vittime di un bombardamento. Abbandonavano le case sventrate. Tra loro, in barella, l’anziana madre di Paolo Borsellino. 

Il corpo del magistrato, nel frattempo, era stato coperto da un lenzuolo. Stessa cosa per quelli delle altre vittime. Tutto intorno l’odore nauseante di carne bruciata, misto a quello del carburante e dell’acido delle batterie degli scheletri delle auto di scorta e delle altre vetture posteggiate nella strada. 

L’ultima immagine, quel giorno, fu un piede appartenuto a chissà chi. Troppo. Finito di lavorare, finite le dirette in tv che andarono avanti per tutta la notte, arrivato a casa mi spogliai, presi i vestiti e le scarpe con le quali avevo calpestato quel campo di battaglia e buttai tutto nella spazzatura. Non bastò, però, a eliminare quell’odore di morte insinuato nel naso. Me lo portai dentro ancora per molti giorni.