21 luglio 1979 – Cosa nostra uccide BORIS GIULIANO. Fu il primo a capire i legami tra Cosa nostra e i poteri economico-politici

 


Nasce il MUSEO BORIS GIULIANO

Fotografie, cimeli e documenti per raccontare attraverso un “percorso della memoria” l’impegno dell’ex capo della Mobile e degli altri caduti per mano mafiosa. L’inaugurazione nei corridoi sotterranei del complesso di Santa Elisabetta alla presenza del capo della polizia Lamberto Giannini. La figlia Selima: “Vittime di Cosa nostra lasciate sole dallo Stato”

IMMAGINI del MUSEO

 

 

Nasce museo per Giuliano e gli altri poliziotti uccisi. Capo della polizia: “Così i giovani capiscono cosa è davvero la lotta alla mafia”


La Questura ha aperto al pubblico e metterà a disposizione dei visitatori un percorso memoriale, dedicato ai caduti per mano mafiosa, in servizio presso la Squadra Mobile di Palermo. Attraversi i corridoi del complesso S. Elisabetta, adiacente alla Squadra mobile di Palermo e ti imbatti nella riproduzione del 2018, della stanza di Giorgio Boris Giuliano, il capo della Mobile ucciso il 21 luglio 1979 in via Di Blasi all’interno del bar Lux.Puoi vedere un tavolo con i faldoni con i tanti documenti a sua firma e non puoi non notare il fatto che è vero è un commissario ma dietro quei baffi riconosci il sorriso di un padre con in braccio il figlio Alessandro(anche lui in polizia, attuale questore di Napoli). Poi via via puoi notare le gigantografie degli altri poliziotti uccisi per mano mafiosa. Un percorso emozionale che è stato inaugurato oggi alla presenza del capo della Polizia, Lamberto Giannini che ha dichiarato: “Innanzitutto voglio rendere onore ai nostri caduti. Dico sempre che con il loro esempio e con le loro storie vanno ricordati perchè continuano il loro servizio nei confronti delle future generazioni che capiscono cosa è davvero la lotta alla mafia”.Un percorso della memoria condiviso dal questore di Palermo, Leopoldo Laricchia:”Un’idea nata dalla Squadra mobile, luogo simbolo della lotta alla mafia. Il percorso realizzato ricorda funzionari e semplici agenti della Polizia e questo è un percorso di vera memoria. Un luogo che sarà aperto alle scolaresche. Vogliamo continuare questa esperienza di prossimità. Ci sarà una guida per i visitatori e degli orari concordati ma invitiamo tutta la cittadinanza a partecipare”. Prima di procedere alla benedizione da parte del cappellano della Polizia di Stato, Massimiliano Purpura e di procedere al taglio del nastro, ha preso la parola, il capo del Dac, il prefetto Francesco Messina. “Dobbiamo ricordare i pionieri – sottolinea il prefetto Messina-che hanno percorso una strada che ci hanno consentito i risultati di oggi. Siamo molto contenti di questa iniziativa e di aprire i nostri uffici alla gente con riproposizione degli ambienti di dove si è sviluppata l’attività di questi eroici colleghi. Voglio concludere il mio intervento con una frase di Sciascia: “Quando una collettività non perde la memoria vuol dire che non è disposta nemmeno a perdere la libertà”. Ciò esprime il valore di quanto sia importante ricordare e la memoria non dev’essere una terra straniera”.Subito dopo la signora Leotta (vedova Giuliano) insieme al Capo della Polizia hanno tagliato il nastro, presente anche la signora Laura Iacovoni (la vedova del vice questore Ninni Cassarà) così come i parenti degli altri poliziotti uccisi come la signora Montinaro (moglie del capo scorta di Falcone ucciso anche lui rimasto ucciso nella Strage di Capaci). Diverse le autorità presenti quali il prefetto Forlani, il presidente dell’Ars, Miccichè, la vicesindaca Varchi e i componenti delle altre Forze dell’Ordine e le alte cariche della magistratura. SICILIA NEWS 2022 di Ambra Drago


Un commissario a Palermo – FILM

 


OMICIDIO BORIS GIULIANO – documentazione



Boris Giuliano, il ricordo della figlia Emanuela: “Ci ha trasmesso forte senso del dovere”

Il ricordo della figlia di Boris Giuliano: “Lui sempre con noi”. E su Palermo: “Qualcosa oggi è cambiato, però la strada è ancora lunga”.
Era nato a Piazza Armerina il 22 ottobre 1930 quel poliziotto che tutti ricordano con quei baffoni che, ancora oggi, appaiono nella sua iconografia più diffusa. Arrivò alla Questura di Palermo nel 1963, subito dopo la strage di Ciaculli e poco dopo entrò nella Squadra Mobile, prima alla Sezione Omicidi, poi come vice-dirigente e infine, dall’ottobre del 1976, come dirigente. La vita professionale di Giuliano, che subito dopo il suo ingresso alla Squadra Mobile “perderà” il suo primo nome Giorgio per diventare semplicemente Boris Giuliano, seguirà la lunga linea di sangue che, a partire dalla scomparsa di Mauro De Mauro del 16 settembre 1970 arrivò alla mattina di quel 21 luglio 1979 quando, all’interno del bar Lux, Leoluca Bagarella gli sparò alle spalle.

Il 1979 “caldo” di Palermo

Quel 1979 era stato pieno di avvertimenti perché chi tocca i Corleonesi di Totò Riina, astro nascente della consorteria mafiosa, muore. Per primo capì che, per contrastare la mafia, era necessario seguire le tracce che lasciavano i soldi, “Follow the money”.
Come un vero segugio cominciò a fiutare l’odore del denaro, e a seguirlo. Il ritrovamento nel maggio 1978, nelle tasche di Giuseppe Di Cristina, membro di spicco della cosca mafiosa di Riesi, di diversi assegni, tutti dello stesso importo, e i cui beneficiari erano riconducibili a prestanome delle diverse famiglie mafiose, e il ritrovamento, nel giugno 1979, di una valigia contenente oltre mezzo milione di dollari lasciata abbandonata sui nastri di trasporto bagaglio dell’allora aeroporto di Punta Raisi, confermarono quello che lui aveva intuito.
Denaro, tanto denaro proveniente dal traffico di sostanze stupefacenti sulla rotta Palermo-New York. Troppo precisa la sua pista e, soprattutto, lo portava sempre più vicino al quadro che, sotto i suoi occhi, giorno dopo giorno, si stava completando. Identificò per primo i corleonesi, i loro iniziali rapporti con la mafia “borghese” che dominava la città e cominciò a intuire le possibili alleanze.

I legami tra Cosa nostra e poteri economico-politici

Giorgio Boris Giuliano, per primo, aveva capito quanti e quali fossero i legami tra Cosa nostra e i poteri economico-politici e, per primo, grazie alle sue competenze, fu accettato come investigatore dai suoi colleghi d’oltreoceano che, fino a quel momento, aveva snobbato le forze di Polizia che e non avevano mai voluto realizzare operazioni congiunte tra le due sponde dell’oceano Atlantico. Giuliano ci riuscì.
La mattina di quel 21 luglio si prevedeva una giornata calda. Succede spesso, nel mese di luglio a Palermo. La città era semideserta, quasi tutti erano andati nei villini delle località marittime che, a est e a ovest della città, si affacciano sul mare. Quella mattina, in via Alfieri, la sveglia suona qualche minuto prima. Giuliano, prima dell’arrivo dell’auto di servizio che lo deve portare alla Mobile, deve sbrigare un paio di faccende. Poi, un caffè al bar Lux, a un centinaio di metri da casa, in via Francesco Di Blasi, l’ultimo caffè. QdS ha intervistato Emanuela, la figlia di Giorgio Boris Giuliano.

“Notizia della morte fu doccia fredda” Torniamo indietro al quel 21 luglio del 1979…

“Avevo otto anni, nel 1979. In quei giorni non eravamo in città perché papà ci aveva accompagnato a Piedimonte Etneo per le vacanze. Avrebbe dovuto raggiungerci qualche giorno dopo. Avevamo la radio accesa, quella mattina. La notizia arrivò come una doccia fredda quando lo speaker, al termine del telegiornale, disse ‘Un ultima notizia giunta ora in redazione. È stato ucciso a Palermo il capo della Mobile’”.

Com’è cambiata la vostra vita?

“All’improvviso è cambiato tutto e tanto sarebbe cambiato ancora. Papà, proprio per il ruolo che ricopriva, nel tempo aveva ridotto le frequentazioni sue e nostre. Fin che era in vita, attorno a lui c’erano diverse persone, ma, dopo la sua morte, molti si allontanarono”.

“Ecco cosa ricordo di mio padre…”

A ottobre di quell’anno è ricominciata la scuola. Che ricordi hai, di quel periodo?

“Non ho ricordi nitidi di quel ritorno a scuola, forse è ricominciata come se niente fosse anche se, in realtà, non era così. Diversi anni dopo, una mia insegnante mi scrisse una lettera nella quale ricordava i miei occhi tristi. Li avevo davvero, gli occhi tristi”.

Nel tempo hai trovato la tua strada, sia umana sia professionale. Quanto è stato importante essere la figlia di Giorgio Boris Giuliano?

“Molto. Il pensiero di mio padre mi ricorda che è necessario andare avanti sempre e indipendentemente dalle difficoltà. Quello che sicuramente ha trasmesso a noi figli è il suo forte senso del dovere. È dentro di noi in maniera innata e ci porta a tenere sempre la barra dritta, ad agire nell’unico modo possibile, quello giusto e a non perdere mai la speranza che le cose possano cambiare”.

“A Palermo oggi c’è più coscienza civica”

Hai vissuto da adolescente la tragica Palermo degli anni ’80, poi la stagione delle stragi degli anni ’90. È cambiata, Palermo da allora?

“Sarebbe ingiusto e ingeneroso dire che, in questi quarantaquattro anni, la città non sia cambiata. C’è sicuramente una maggiore coscienza civica, c’è un maggiore ricordo di quanti, come mio padre ma non solo, hanno dato la vita per lo Stato, e non era così negli anni immediatamente successivi alla sua morte. L’uccisione di Falcone e Borsellino, e di quanti caddero con loro, è stata poi un ulteriore colpo per tutti noi. La mafia continuava a uccidere gli uomini dello Stato e a noi, per certi versi, sembrò che la morte di papà fosse stata vana, un sacrificio inutile, come se che quei tredici anni passati dall’omicidio di mio padre fossero trascorsi invano. In questa città, qualcosa oggi è cambiato, però la strada è ancora lunga. Si percepisce ancora una sorta d’indifferenza, ma abbiamo il diritto di pretendere di più, anche per onorare il sacrificio di quanti hanno dato la vita per lo Stato”. Quotidiano di Sicilia 22.72023

 

 


da “Il Capo dei Capi” di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo, pag. 148

 

Sapeva usare la testa. Boris Giuliano aveva capito una cosa essenziale: bisognava cercare i soldi. Una raffineria si poteva aprire e chiudere. Un chilo, venti chili di eroina potevano scomparire, il denaro no. I dollari lasciavano tracce.
Erano le impronte digitali che la mafia non poteva cancellare. I verdoni erano il filo che lo sbirro voleva seguire e stava seguendo. Come poteva, come sapeva. Da solo. Con una Colt cinque colpi infilata sotto l’ascella e con le informazioni che riusciva a strappare ai silenzi di Palermo.
Quei cinquecentomila dollari trovati nelle valigie di Punta Raisi avevano portato Boris Giuliano alla Cassa di risparmio per le province siciliane. 
Un tale Giglio aveva depositato trecentomila dollari in contanti. Chi era Giglio? Il poliziotto lo chiese a Francesco Lo Coco, il direttore dell’istituto di credito. «Non lo so, dottore» rispose. Francesco Lo Coco era cugino di primo grado di Stefano Bontate, ma Boris Giuliano non lo sapeva.
«Tom, ascoltami», disse Boris, «è troppo pericoloso stare dall’altra parte. In questa città anche i muri hanno le orecchie e i muri della questura, poi, hanno occhi, orecchie e bocca».
«Che mi stai dicendo… che hai una spia in questura?» chiese Tom, che cominciava a comprendere l’umore tetro di Boris.
«Non ne sono sicuro, ma mi sembra che abbiano scoperto il gioco. Sanno chi sei. Qualcuno ha parlato».
«Sai chi è?», domandò Tom Tripodi.
Giuliano abbassò la voce: «Non lo so, ma non mi fido di Bruno».
«Contrada? Il capo della squadra mobile? Il tuo capo?». 
«Sì, Contrada, il mio capo…».
«Se sanno di me, sanno anche di te?», Giuliano sorrise amaro: «Questo è certo, ma io sono la guardia, loro sono i ladri e questa è la vita».

da “Il Capo dei Capi” di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo, pag. 149

Erano gli ultimi giorni del giugno 1979. I poliziotti di Palermo tenevano d’occhio due mafiosi. Li videro entrare in un palazzone di via Pecori Giraldi, una traversa stretta del lungomare di Romagnolo. La mattina dopo, all’alba, piombarono nell’appartamento. 
Trovarono fucili a canne mozze, Magnum 357 che avrebbero abbattuto un bisonte, chili di munizioni. In un armadio c’erano otto sacchetti d’eroina da mezzo chilo. Intorno c’erano le tracce del proprietario di quel tesoro che – milione più, milione meno – valeva tre miliardi di lire. 
I documenti, gli effetti personali, il guardaroba dicevano che l’eroina apparteneva a Leoluca Bagarella, Luchino, uno dei sicari di Totò Riina. Era la prima volta che prendevano i Corleonesi con le mani nel sacco.
La telefonata arrivò il giorno dopo al centralino del 113.
«Dite a Giuliano che morirà presto».
Boris non prese sottogamba la minaccia e rispedì Tripodi in America. Mandò la famiglia in vacanza a Piazza Armerina.
Tre settimane dopo, lo sceriffo era morto.
Era il 21 luglio. Uscì prima del solito quella mattina e, contrariamente al solito, entrò in un bar a bere un caffè. Al Lux, sotto casa. Forse aveva appuntamento con qualcuno che conosceva. Il killer già lo stava aspettando. Leoluca Bagarella, Luchino, il cognato di Totò Riina, gli sparò alle spalle. Al corleonese tremavano le mani. Dovette premere il grilletto quattro volte.
C’erano molti motivi per uccidere Boris Giuliano.
«La minchia la scassa soltanto lui, gli altri o li abbiamo in mano o fanno i buoni o fanno finta di non capire. Astutamulu» avevano deciso in commissione. Furono tutti d’accordo – i Palermitani di Stefano Bontate e i Corleonesi di Totò Riina – a spegnere il poliziotto che aveva studiato a Quantico. Anche perché non c’era solo l’affare della droga. C’era dell’altro. A Palermo aspettavano visite, visite importanti.


 

Così il Dott. Paolo Borsellino ricorderà il Vice Questore Aggiunto Giorgio Boris Giuliano nell’ordinanza di rinvio a giudizio del maxi-processo:

 

“Deve […] ascriversi ad ennesimo riconoscimento della abilità investigativa di Giuliano se quanto è emerso faticosamente solo adesso, a seguito di indagini istruttorie complesse e defatiganti, era stato da lui esattamente intuito e inquadrato diversi anni prima. Senza che ciò voglia suonare critica alcuno, devesi riconoscere che se altri organismi statali avessero adeguatamente compreso e assecondato l’intelligente impegno investigativo del Giuliano, probabilmente le strutture organizzative della mafia non si sarebbero così enormemente potenziate e molti efferati assassini, compreso quello dello stesso Giuliano, non sarebbero stati consumati[…]”

 


Il fiuto e l’intelligenza investigativa di Boris Giuliano

 

Secondo le dichiarazioni di Buscetta, che sono da considerarsi pienamente attendibili, perchè riscontrate in generale da Contorno Salvatore e, in particolare, dalle numerose indagini sulla droga, fra i traffici più lucrosi di “Cosa nostra” vi era all’inizio, il contrabbando di tabacchi (anch’egli vi è stato coinvolto, con Giuseppe Savoca e Gaetano Scavone nel 1959. Ai vertici del contrabbando erano Nunzio La Mattina, Tommaso Spadaro e il napoletano Michele Zaza (Michele “o pazzo”), i quali agivano con proprie e distinte organizzazioni. In seguito, anche per i contrasti insorti tra costoro, e col pretesto di disciplinare il contrabbando di tabacchi in maniera più razionale, “Cosa nostra” si era praticamente impossessata del controllo del contrabbando di tabacchi, tanto che sia il La Mattina che Lo Spadaro erano divenuti “uomini d’onore” della “famiglia” di Pippo Calò (Porta Nuova), la stessa, cioè, del Buscetta in un secondo tempo, anche lo Zaza era divenuto “uomo d’onore”, alle dirette dipendenze di Michele Greco, capo della “commissione” di Palermo.
Nel contrabbando erano interessate tutte le “famiglie”, ivi compresa quella di Stefano Bontate, e quest’ultimo soleva ricordare al Buscetta, sorridendo, le astuzie dello Zaza al fine di eludere le regole dettate dalla “Commissione” per disciplinare il contrabbando, e, in particolare, lo sbarco nelle coste italiane.
Anche “Cosa nostra”, per altro, al pari degli organi statuali, aveva sottovalutato il fenomeno del contrabbando di tabacchi, non considerando cioè, che lo stesso avrebbe portato i germi per lo snaturamento di alcune caratteristiche essenziali di questa organizzazione.
E difatti, la possibilità per ciascun “uomo d’onore” di allearsi con chiunque, ivi compresi gli estranei a “Cosa nostra”, e gli ingenti guadagni derivanti dal contrabbando di tabacchi avevano prodotto, da un lato, il progressivo venir meno della rigida compartimentazione a livello gerarchico e della segretezza, che caratterizzavano la struttura delle “famiglie” sia pure coordinate tra loro attraverso la “commissione”, dall’altro, avevano determinato un’accentuata disponibilità di mezzi finanziari, che, unitamente a quelli provenienti da altre illecite attività, aveva spianato la strada per l’ingresso in grande stile nel mercato dell’eroina.
Entrambe queste conseguenze, a giudizio di Buscetta, hanno creato i presupposti per lo snaturamento di “Cosa nostra”, e sarebbero state ulteriormente aggravate dalla gestione del traffico di stupefacenti che aveva, sì, inondato la mafia di danaro, ma ne avrebbe, prima o poi, determinato la dissoluzione.
Quanto riferito da Buscetta, per averlo personalmente constatato nel periodo (secondo semestre 1980) trascorso a Palermo prima di espatriare nuovamente per il Brasile, si è rivelato estremamente preciso. Secondo il Buscetta, l’ingresso massiccio della organizzazione mafiosa nel mercato dell’eroina, in concomitanza col progressivo declino del contrabbando di tabacchi, sarebbe avvenuto nel 1978 e sarebbe stato propiziato, soprattutto, da Nunzio La Mattina, in virtù dei suoi contatti, determinati proprio dal contrabbando, con le fonti di produzione della droga.

In seguito, l’approvvigionamento della morfina-base per i laboratori siciliani era divenuto appannaggio esclusivo, oltre che del La Mattina, di Tommaso Spadaro e di Giuseppe Savoca, i quali, però, lavoravano ognuno per conto proprio e mantenevano gelosamente custodito il segreto sulle proprie organizzazioni. Successivamente, anche Antonino Rotolo era divenuto, secondo quanto riferitogli dal Bontate, un elemento-cardine per l’acquisizione della morfina-base.

Accanto ai soggetti che gestivano l’approvvigionamento della droga, altri ve n’erano che curavano la trasformazione della morfina base in laboratori clandestini, mentre altri ancora si occupavano del trasporto e dello smercio dell’eroina nei paesi consumatori.

Al riguardo, Buscetta ha fatto i nomi delle famiglie dei Cuntrera e dei Caruana per il Canada e, quale massimo esportatore di eroina per gli Usa, di Giuseppe Bono, il quale, mentre in un primo tempo curava direttamente anche il trasferimento dell’eroina, successivamente, divenuto il terminale negli Usa della droga esportata da “Cosa nostra”, ne curava la vendita in quel Paese tramite Ganci Filippo. In buona sostanza, dunque, all’interno di “Cosa nostra”, si sono create strutture autonome, ma funzionalmente collegate, addette alle varie fasi in cui si articola il complesso traffico di stupefacenti, mentre, gli “uomini d’onore” che non hanno responsabilità operative nel traffico, possono contribuirvi finanziariamente, condividendone, in varia misura, gli utili ed i rischi. Si è riprodotta, in sostanza, la stessa situazione del contrabbando di tabacchi, ma in misura molto maggiore e con profitti enormemente più alti.

Anzi, secondo il Buscetta, per chi partecipa solo finanziariamente al traffico di stupefacenti, vi è una duplice possibilità: o ritirare la propria quota del prodotto finito (eroina) e provvedere con i propri mezzi allo smercio della droga; o attendere che la stessa sia esportata negli Usa ed ottenere, quindi, un maggiore utile, partecipando, però, ai rischi di perdita del prodotto per effetto di sequestri da parte della Polizia.

Queste affermazioni del Buscetta hanno trovato riscontri notevolissimi e ricalcano quanto un fedele e sventurato servitore dello Stato ( il dirigente della Squadra Mobile di Palermo, dottor Giorgio Boris Giuliano) aveva già scritto diversi anni addietro.

Nell’ormai lontano 1979, il dottor Giuliano, in esito ad indagini accurate e fruttuose, aveva scritto, proprio in un rapporto di denunzia per traffico internazionale di stupefacenti contro Giuseppe Savoca ed altri, che “dal lavoro investigativo da cui è scaturito il presente rapporto è emerso, per come da tempo sospettato, che la mafia siciliana è rientrata nel traffico internazionale di stupefacenti con larga disponibilità di uomini e di mezzi, sfruttando, soprattutto, i canali delle grandi reti contrabbandiere di tabacchi lavorati esteri che operano nel sud-Italia e nelle isole sotto la ferrea guida di grossi nomi della mafia”.

Nel procedimento sorto a seguito del rapporto di denunzia del dottor Giuliano, sono stati condannati da questo Tribunale, 1’11.6.1985, perché colpevoli di traffico di stupefacenti, Savoca Giuseppe, Savoca Rosolino, Pirrone Giacomo ed alcuni greci, mentre Scavone Gaetano è stato assolto per insufficienza di prove.

Deve dunque ascriversi ad ennesimo riconoscimento dell’abilità investigativa di Boris Giuliano, se quanto è emerso faticosamente solo adesso, a seguito di indagini istruttorie complesse e defatiganti, era già stato da lui esattamente intuito ed inquadrato diversi anni prima.

L’indicazione, dunque, di Giuseppe Savoca trova riscontro nelle indagini di Boris Giuliano, da cui è emerso, appunto, un ruolo del Savoca nel traffico degli stupefacenti corrispondente a quello riferito dal Buscetta. Ma anche in ordine agli altri personaggi indicati da quest’ultimo, l’istruttoria consente di affermare che gli stessi sono coinvolti nel traffico di stupefacenti, nei termini riferiti dal loro accusatore.

Una parte di questa sentenza è dedicata al ruolo di Tommaso Spadaro nel contrabbando di tabacchi, prima, e nel traffico di stupefacenti, poi; e la fondatezza delle conclusioni raggiunte è stata autorevolmente riconosciuta dal Tribunale di Firenze, che ha condannato lo Spadaro per un episodio della fase di distribuzione, costituente soltanto un aspetto del più vasto traffico emerso nel corso del presente procedimento. DOMANI