Entrambi hanno testimoniato al processo che vede imputati il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu con l’accusa di favoreggiamento nei confronti del boss Bernardo Provenzano.
Una deposizione drammatica. “Io e il collega Massimo Russo restammo sorpresi, imbarazzati – ha raccontato la Camassa -. Eravamo andati a trovarlo per parlare di alcune indagini, ma all’improvviso Borsellino cambiò discorso. Dopo quello sfogo non abbiamo avuto la forza di chiedergli nulla. Ho avuto la la sensazione che Paolo avesse ricevuto da poco una notizia che l’aveva sconvolto”. Nessun riferimento, però, sull’identità del traditore.
Dopo di lei è stata la volta di Russo, assessore regionale alla Sanità. C’era anche lui quel giorno nella stanza di Borsellino. “Mi parlò di una cena con ufficiali dei carabinieri a Roma, poi all’improvviso disse che qualcuno lo aveva tradito. Quasi per sdrammatizzare io gli chiesi come andava in Procura. E lui rispose che era un nido di vipere”. L’incontro raccontato da Russo e dalla Camassa sarebbe avvenuto a fine giugno del ’92, quando andarono a trovare l’ex capo che nel frattempo era stato trasferito da Marsala a Palermo, dove ricopriva il ruolo di procuratore aggiunto.
Ma perché ha parlato di questi particolari solo a distanza di tanti anni? “Non c’è stata una richiesta in tal senso”, ha risposto alla domanda del legale di Mario Mori, l’avvocato Basilio Milio. “Uno aspetta di essere chiamato per dire una cosa così importante?”, ha aggiunto il presidente del Tribunale, Mario Fontana: “Mai e poi mai in quel periodo – ha spiegato Russo – potevo immaginare che questa vicenda si collocava in una questione più ampia”.
Tornando alla deposizione della Camassa, il giudice ha riferito di una confidenza che gli avrebbe fatto l’allora maresciallo Carmelo Canale, stretto collaboratore del giudice Borsellino, coinvolto in un calvario giudizio conclusosi con l’assoluzione: ”Nel giugno 1992, Canale mi disse di parlare con Borsellino. Canale riteneva che Borsellino si fidasse troppo dei vertici del Ros. L’aveva messo in guardia. Io non dissi niente a Borsellino, sapevo quale rapporto di grande confidenza aveva con i carabinieri”.
“Ricorda se Canale le fece dei nomi parlando del Ros?”, le ha chiesto il pubblico ministero Antonino Di Matteo che con Antonio Ingroia rappresenta l’accusa al dibattimento. La Camassa ha fatto i nomi degli ufficiali Mori e Subranni, aggiungendo, però, di non potere avere certezza dei suoi ricordi.
Riccardo Lo Verso LIVE SICILIA 4.5.2012
MASSIMO RUSSO – Magistrato già collega di Borsellino
– “Marsala è stata la mia prima sede, dopo avere terminato l’uditorato a Firenze. Lì ho fatto il giudice per due anni, successivamente sono stato trasferito alla Procura allora retta da Paolo Borsellino con il quale lavorai solo alcuni mesi, poiché nel marzo del 92 egli ritornò a Palermo per assumere l’incarico di procuratore aggiunto. Ma il rapporto umano iniziò da subito. Paolo Borsellino, per la comunità dei giovani magistrati del Palazzo di Giustizia di Marsala – molti, come me, di prima nomina- era un imprescindibile punto di riferimento umano e professionale. Paolo si imponeva per la sua esperienza, per il suo carisma e per il suo tratto umano: era un uomo semplice, un padre di famiglia, simpatico, dalla battuta sempre pronta, ironico e col sorriso stampato in faccia, appena smorzato dalla perenne sigaretta tra le labbra. Sempre disponibile a venirci incontro e a misurarsi con le nostre difficoltà di giovani magistrati già alle prese con indagini complesse, anche di mafia: all’epoca, prima dell’istituzione delle Direzioni Distrettuali Antimafia, la Procura di Marsala si stava infatti occupando di diversi e importanti procedimenti contro Cosa Nostra. Ricordo la sua battuta con la quale sintetizzò l’atteggiamento che dovevamo avere nei confronti dei mafiosi: “pugno di acciaio in un guanto di velluto”. Un’altra volta, quando si rese conto che mi aveva assegnato un’indagine in cui erano coinvolti soggetti di Mazara del Vallo -che è la mia città natale dove all’epoca vivevo – mi chiamò e dissimulando la sua reale preoccupazione mi disse sorridendo: “Adesso ti occupi anche dei tuoi concittadini?”. Poi più seriamente aggiunse: “Forse non è opportuno che tu lo faccia perché prima o poi te la faranno pagare”. Pur comprendendo il suo atteggiamento protettivo, di rincalzo e con la sua stessa ironia, gli risposi: “Scusa Paolo, ma tu di dove sei?”. “Di Palermo”, rispose. “E finora che hai fatto? Di cosa ti sei occupato?” E lui, messo alle strette: “Della mafia palermitana”. Ed io: “E allora che vuoi?”. “Comunque stai attento”, concluse”. Qual è l‘immagine più bella che lei ha di Paolo Borsellino? “Quella sorridente del felice periodo marsalese di quando, per esempio, insieme agli altri colleghi, ci ritrovavamo a pranzo con lui sul lungomare di Marsala continuando a discutere e parlare delle nostre indagini, tra le sue battute divertenti e i suoi aneddoti. Un’immagine ben diversa da quella che Paolo Borsellino ci diede dopo il 23 maggio, quella di un uomo distrutto dalla tragedia di Capaci, gravato dalla consapevolezza della morte che si annunciava anche per lui..”Ma Falcone e Borsellino sono stati molto di più che due grandissimi magistrati: con la loro costante dedizione al lavoro, con la loro incrollabile fiducia nelle Istituzioni, con le loro azioni giudiziarie, hanno dato risposta ad un forte bisogno di identificazione collettiva da parte della società sana, di quella parte che ha sempre creduto che il riscatto della Sicilia e del meridione passasse innanzitutto attraverso la lotta al potere mafioso. Così, sono divenuti l’emblema della lotta alla mafia e in molti si sono riconosciuti nel loro esempio, da imitare piuttosto che ammirare Cose di Cosa Nostra nei ricordi di un magistrato antimafia. Dall’intervista di Enzo Guidotto a Massimo Russo – 7 Luglio 2016
7.3.2023 “Su Messina Denaro non sto con i complottisti, un ritorno in politica? Quel virus non ha vaccini”
Massimo Russo è nato a Mazara del Vallo, venti chilometri da Castelvetrano, dove cresce il coetaneo Matteo Messina Denaro, figlio di don Ciccio, allora capo mafia locale. Forse Massimo e Matteo da ragazzi si saranno incrociati in qualche partita di pallone o in discoteca, ma le strade che prenderanno sono opposte: il primo si iscrive a giurisprudenza, il secondo inizia ad ammazzare e a scalare i vertici di Cosa Nostra.
Dopo la laurea a Firenze e le prime esperienze in magistratura, Russo torna in Sicilia e diventa discepolo di Paolo Borsellino alla procura di Marsala. Toccherà a lui occuparsi, dopo le stragi del ’92, delle indagini sul latitante Messina Denaro, che verrà catturato dallo Stato solo trent’anni dopo, quando viveva malato ma indisturbato a Campobello di Mazara, paese più vicino a Castelvetrano, nonostante quel nome. Intanto Russo, mentre dava la caccia a “‘u siccu” nei primi tredici anni della sua latitanza, era riuscito a far condannare Messina Denaro all’ergastolo; ad un certo punto stava per catturarlo, ma il lavoro di Russo fu tradito proprio da chi avrebbe dovuto lavorare per lo Stato.
Dopo una parentesi al ministero di Roma, Russo mise da parte la toga per raccogliere un’altra sfida: assessore alla Sanità della Regione Sicilia, governo Lombardo. Dopo quell’impegno politico, è tornato nella magistratura senza usufruire di scorciatoie: dopo alcuni anni a Napoli, è ora sostituto procuratore al Tribunale per i minorenni di Palermo.
Conosciamo bene Massimo Russo, siamo della stessa città. In questa lunga intervista senza freni, l’esperto magistrato della “scuola” di Borsellino mette a nudo la figura di Matteo Messina Denaro al di là di alcune “hollywoodiane” ricostruzioni giornalistiche. Inoltre, nel rispondere alle domande, Russo sottolinea certi aspetti fondamentali della storia della mafia in Sicilia e dei rapporti di Cosa Nostra con lo Stato italiano, dall’unità ad oggi.
Matteo Messina Denaro: 30 anni di latitanza. Lei fu tra i primi magistrati a dargli la caccia. Lo aveva scovato, trovando l’appartamento dove si incontrava con una delle sue amanti. Ma non riuscì a catturarlo. Chi aiutò il mafioso in quell’occasione? E’ stato punito?
“Fu l’unica volta in cui fummo ad un passo dalla sua cattura. Sviluppando le criptiche informazioni di alcuni pizzini sequestrati nel 1996 a due soggetti, proprio a Campobello di Mazara dove è stato catturato il 16 gennaio scorso, individuammo ad Aspra, una località a pochi chilometri da Palermo, un appartamento nel quale il latitante si incontrava con una donna, Maria Mesi che stavamo investigando nella massima segretezza. Ad un certo punto ci rendemmo conto, però, che il covo non era più frequentato e decidemmo nel giugno del 2000 di perquisirlo. Vi trovammo tracce del sicuro passaggio di Matteo Messina Denaro.
Altri mafiosi il cui covo era stato trovato, sfuggirono in quegli anni alla cattura. Uno su tutti, il capo dei capi Bernardo Provenzano che poteva essere arrestato ben 11 anni prima della cattura poi avvenuta nel 2006. Solo sfortuna?
“Nessuna sfortuna. Le circostanze dell’arresto di Totò Riina, la ritardata perquisizione della sua abitazione, le mancate occasioni della cattura di Bernardo Provenzano negli anni 90, la libertà di cui ha goduto un ricercato come Messina Denaro, costituiscono la parte più opaca se non torbida della storia dell’azione di contrasto dello Stato a Cosa Nostra. Ci saranno stati pure errori, inefficienze, valutazioni sbagliate ma, purtroppo, rimane il dato della inammissibile quanto vergognosa latitanza ultradecennale dei capi di Cosa Nostra che trova diretta spiegazione, innanzitutto, nel tradimento del giuramento di fedeltà allo Stato da parte di vari soggetti pubblici ( forze di polizia, magistratura, funzionari, amministratori, politici) e nel largo consenso e comunque compiacenza di cui la mafia, purtroppo, ha goduto e continua a godere in larghi strati della popolazione. E’ stato tutto ciò, prima ancora che indicibili patti o trattative, pur fondatamente ipotizzabili ed in effetti ipotizzate, che in realtà ha reso permeabile e più debole l’apparato statale.Rimane comunque un dato incontestabile: i capi di cosa nostra, e molti accoliti, hanno concluso la loro vita nelle patrie galere. E sarà anche questa la prospettiva per Messina Denaro Matteo”.
Il senatore Antonio D’Alì, a Palazzo Madama per un quarto di Secolo, fu nominato sottosegretario agli Interni nel governo di Silvio Berlusconi, quando era ben noto in provincia di Trapani che don Ciccio Messina Denaro, capo mafia padre del latitante Matteo, era stato “alle dipendenze” dei D’Alì e “protetto” i suoi terreni. Come è stata possibile una nomina in un posto così nevralgico del governo (sottosegretario agli Interni con delega ai trasferimenti di questori e prefetti) dal 2001 al 2006, non facesse scandalo? Matteo Messina Denaro era già allora il ricercato numero uno.
“La soglia dello scandalo e dell’indignazione in Italia è molto alta….! La storia dei rapporti tra la famiglia dei D’Ali e dei Messina Denaro ci riporta alle origini del fenomeno mafioso, nel rapporto tra campierato e proprietari terrieri, progressivamente evolutosi con l’urbanizzazione della mafia con conseguente trasformazione dell’originaria relazione fiduciaria tra mafioso e benestante in un rapporto o di assoggettamento o di contiguità. La sentenza di condanna di Antonio D’Alì per concorso esterno nel reato di associazione mafiosa conclama la sua contiguità a Messina Denaro Matteo e ad altri mafiosi del mandamento di Trapani . Ma di tale illecita vicinanza, oltre che dell’originario rapporto di campierato con il padre Francesco, non si sono evidentemente accorti, innanzitutto, gli elettori che gli hanno tributato una gran massa di voti quando lo hanno eletto al Senato della Repubblica e neppure il governo che lo ha nominato sottosegretario con delega di delicate funzioni che in concreto ha esercitato per sollecitare il trasferimento in un’altra provincia del Prefetto di Trapani Sodano, reo, ai suoi occhi e a quelli di imprenditori collusi con la mafia, di fare gli interessi dello Stato adempiendo fedelmente ai suoi doveri. La morale di questa storia è che fino a quando la lotta alla mafia e alle sue nauseabonde collusioni sarà demandata esclusivamente alla magistratura sarà difficile “sentire la bellezza del fresco profumo di libertà” di cui parlava Paolo Borsellino”.
D’Alì, condannato con sentenza definitiva a 6 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è entrato in un carcere di Milano un mese prima della cattura di Messina Denaro: solo una coincidenza?
“Non so se si tratti di una fortuita coincidenza, anche se, in generale, nelle vicende di mafia le coincidenze hanno sempre altre spiegazioni rispetto al mero dato temporale; in questo caso la singolare corrispondenza degli avvenimenti evoca, metaforicamente, il messaggio di una comune discesa dopo una comune ascesa: simul stabunt vel simul cadent, verrebbe da dire!”
Messina Denaro latitante c’è rimasto per trent’anni, e in tutti questi anni al governo non c’è stato solo il partito in cui militava D’Alì, ma anche e più spesso, il governo di centrosinistra: perché faceva paura la cattura di Matteo Messina Denaro? Che segreti sa il mafioso di Castelvetrano?
“Egli non è il mero detentore di informazioni segrete; Messina Denaro è il portatore di esperienze dirette essendo tra i protagonisti principali di gravissime vicende criminali che hanno attraversato la storia dell’Italia e dei suoi governi come le stragi del 92 e quelle del 93 che hanno fatto fibrillare la nostra democrazia. Vicende, queste, nelle quali è ancora processualmente irrisolto il nodo di eventuali mandanti esterni come quello delle relazioni istituzionali cui prima si è fatto cenno che potrebbe essere dipanato ove mai Messina Denaro decidesse di collaborare. In tale evenienza sarebbero in molti a fibrillare, a prescindere dalle appartenenze e dai colori politici”.
“Mi sembra irrilevante se sappia o no; egli sa certamente molto di più di ciò che Borsellino ha appuntato nell’agenda misteriosamente scomparsa in via D’Amelio”.
La malattia: secondo lei, se Messina Denaro non si fosse ammalato, sarebbe stato preso?
“Penso che Messina Denaro non si sia consegnato allo Stato, come qualcuno ha maliziosamente insinuato, ma si è arreso alla sua grave malattia che lo ha costretto a cambiare stile di vita. Egli era consapevole di essere maggiormente esposto, dovendo necessariamente ricorrere a cure salvavita, e forse anche per questo, con un atteggiamento di sfida agli investigatori, ha condotto negli ultimi due anni una vita quasi normale nel territorio nel quale esercitava il suo potere, circondato e protetto dai sui fiancheggiatori.
Matteo Messina Denaro sembra essere una persona lontana dal clichè del mafioso al quale eravamo abituati con Riina e Provenzano; tenore di vita molto alto contrassegnato da abiti griffati, orologi costosi, viaggi, relazioni con diverse donne. Chi è veramente?
“Dopo l’arresto i media si sono molto soffermati sugli aspetti della sua personalità sganciandola però dal suo preciso profilo criminale quale emerge dalle diverse sentenze con le quali è stato condannato anche all’ergastolo. Si sta correndo il rischio, a mio avviso, di attivare una perversa fascinazione fornendo l’immagine di un boss che veste bene, seducente, latin lover che personifica nella realtà la figura cinematografica del Padrino, di cui peraltro sono stati rinvenuti nella sua abitazione i magneti che la riproducevano. Un’immagine quasi incompatibile con le atrocità e i misfatti di cui si è reso responsabile, con la conseguenza di suscitare in chi elabora superficialmente le informazioni, il dubbio che egli ne sia davvero l’autore. Matteo Messina Denaro è in realtà ciò che ci raccontano i delitti che ha commesso, perché di questo ci stiamo occupando e per questo lo abbiamo ricercato per 30 anni .E,’ innanzitutto, l’acido che ha dissolto il corpicino del povero Giuseppe Di Matteo, già martoriato dopo 2 anni di terribile prigionia; è il boato di Capaci, di Palermo, di Firenze di Milano che ha ridotto a brandelli i corpi di donne, uomini, bambini, di giudici, poliziotti e comuni cittadini; è lo sguardo terrorizzato della moglie di Giuseppe Montalto, l’agente di polizia penitenziaria ucciso davanti a lei, incinta, e alla loro figlioletta per fare un regalo di Natale ai mafiosi detenuti al 41 bis; è la vita sconquassata della famiglia di Rosario Sciacca falcidiato da colpi di fucile, rivoltella e kalashnikov mentre si trovava al lavoro con il vero bersaglio dell’azione punitiva; è il sogno spezzato di Nicola Consales ucciso per avere corteggiato inconsapevolmente la donna del boss; sono i sibili velenosi degli spari del kalashnikov all’indirizzo del mio amico Rino Germanà, funzionario di Polizia, salvatosi miracolosamente ; è il dolore acuto e perenne dei congiunti delle tante vittime di cui ha decretato la morte con le quali si vantava spavaldamente di potere riempire un intero cimitero. Questo è veramente Matteo Messina Denaro e a questo dobbiamo fare sempre rifermento quando parliamo di lui. Per rispetto delle verità, delle sue vittime e del dolore dei loro congiunti”.
Se avesse la possibilità di interrogare Matteo Messina Denaro, che cosa gli chiederebbe? Crede alla possibilità che il boss si penta prima di morire rivelando i suoi segreti?
“Dopo avere diretto le indagini sui crimini da lui commessi, averlo fatto condannare a diversi ergastoli, averlo ricercato per 13 anni, insomma dopo averlo in tal modo conosciuto profondamente, non posso negare che avrei voluto essere nuovamente nella “mia” Procura di Palermo per potere incontrarlo e interrogarlo, magari per cercare, nel rispetto della dignità che si deve ad ogni uomo, quel barlume di (disumana) umanità che per me rimane il fondamento di ogni collaborazione, anche se interessata. Lo faranno, e bene, il Procuratore Maurizio De Lucia e l’aggiunto Paolo Guido al quale lasciai il testimone delle indagini su Messina Denaro Matteo, nel luglio del 2007 allorquando cambiai funzioni. Se deciderà di collaborare secondo tutti i crismi previsti dalla normativa in tema di collaborazione con la giustizia, sarà di sicuro una grande occasione per perseguire verità sinora irraggiungibili mentre temo eventuali ed occasionali dichiarazioni spontanee che, invece, potrebbero avvelenare ed intorbidire lo scivoloso terreno della ricostruzione delle storie criminali della mafia e delle sue relazioni esterne. Potrebbe essere l’ultimo, devastante, colpo di coda che un criminale del suo calibro assesta allo Stato”.
Castelvetrano, centro nevralgico del potere mafioso: il primo pentito di mafia, il medico Melchiorre Allegra – le sue confessioni alla polizia fascista del 1937, vengono scoperte e pubblicate sul quotidiano L’Ora nel 1962 dal giornalista Mauro De Mauro, poi fatto scomparire dalla mafia – operava da Castelvetrano. Nel 1950, la “messa in scena” della morte di Salvatore Giuliano avviene proprio in un cortile di Castelvetrano… Insomma, è solo un caso che il corleonese Totò Riina scelga l’allora giovane figlio dello zu’ Ciccio Messina Denaro, come suo delfino? E’ solo una coincidenza il fatto che nel paese del trapanese famoso per le olive, i carciofi e i templi di Selinunte, ci sia anche un concentrato di “massoneria”?
“Esattamente un centro nevralgico, come lo è stata l’intera provincia di Trapani, vera roccaforte di Cosa Nostra corleonese. Basta rileggere le decine di pagine delle dichiarazioni resa dal dott. Melchiorre Allegra, una sorta di protopentito, per capire come la realtà mafiosa in quel territorio fosse ampiamente radicata – anche nelle sue relazioni con quella che oggi viene indicata, a mio avviso, riduttivamente, come la borghesia mafiosa – già ad inizio del secolo scorso. Passando anche dalle dichiarazioni rese nel 1958 da Luppino Giuseppe, un mafioso di Campobello di Mazara, ucciso pochi giorni dopo la sua confessione, ed arrivando ai mafiosi del trapanese che hanno collaborato con la giustizia soltanto a partire dal 1995, il quadro che si delinea è quello di un territorio in cui è stato presente una sorta di “stato” mafioso che ha convissuto con quello ufficiale, lo stato liberale, quello fascista e, infine, quello repubblicano. E la massoneria, ovviamente nella sua accezione deviata rispetto ai suoi nobili fini, ha costituito – anche per una certa affinità organizzativa con cosa nostra derivante dal vincolo di fratellanza, dal rito iniziatico, dalla segretezza – una specie di terra di mezzo in cui gli esponenti dei due stati, quello mafioso e quello ufficiale, si sono nel tempo, relazionati, confrontati, aiutati o contrastati, ora convivendo ora facendosi la guerra, come diceva Paolo Borsellino. E i Messina Denaro, prima il padre, dopo il figlio Matteo, sono stati almeno sin dagli anni 80, al vertice di quello stato mafioso e come tali sono stati ossequiati e riconosciuti anche da larga parte della comunità. Pronta ad aiutare e supportare il loro capo in difficoltà, come stanno svelando le indagini sui fiancheggiatori di Messina Denaro Matteo”.
Le “relazioni d’interessi” tra crimine organizzato e istituzioni, erano state già messe in mostra da Diego Tajani,ex procuratore generale di Palermo e poi deputato al Parlamento, che in un famoso discorso pubblico del 1875 (1875!) ben riportato dai giornali dell’epoca accusa il governo dicendo che “la mafia non è invincibile di per sè, ma lo sarà fino a quando resta ‘strumento di governo locale”. Sono passati 150 anni: cosa è cambiato?
“Molto è cambiato. Le stragi del 92 di Capaci e di via D’Amelio, l’uccisione di due magistrati come Falcone e Borsellino, hanno fatto comprendere con quale mostro conviveva il nostro paese. Vi è stata una presa di distanza generazionale dalla mafia e finalmente un’opera repressiva costante, articolata e ragionata accompagnata da un diverso “sentire” dei cittadini. Ma rimane ancora valida quell’espressione soprattutto in quei territori dove è ancora forte la cultura mafiosa che spinge i cittadini a chiedere ed ad ottenere più alla organizzazione mafiosa che allo stato che, però, spesso non dà. In tal modo si legittima chi strumentalmente si avvale di un vero a proprio apparato di welfare che si traduce inevitabilmente in consenso da riversare, al momento del voto, nel “giusto” candidato da eleggere nelle varie istituzioni democratiche, comune, regione, parlamento. Un circolo vizioso che solo lo stato può spezzare governando efficacemente i territori e, soprattutto, corrispondendo prontamente ai bisogni dei cittadini. Del nord come quelli del sud dell’Italia. Più Stato dove ci sono le mafie, con esponenti dal volto pulito e trasparente, ecco quello che ci vuole. Non vedo altre ricette”.
E’ stato stabilito una volta per tutte perché muore Falcone a Palermo e in quel modo invece che a Roma dove sarebbe stato molto più semplice? Perché poi deve morire Borsellino e sempre in quel modo così eclatante? Tutto frutto della sola megalomania criminale di Totò Riina? E tutti gli vanno sempre dietro, ubbidendo senza avere dubbi, incluso Matteo Messina Denaro?
“Queste domande appartengono a quei nodi ancora processualmente non sciolti mentre appare evidente la natura eversiva e terroristica delle nuove modalità imposte da Riina per la strage di Capaci e il perseguimento di ulteriori finalità con l’accelerazione dell’esecuzione dell’’attentato in via D’Amelio. Una strategia di attacco allo Stato per piegarlo alle pretese di cosa nostra. E’ certo che non fu (solo) la megalomania del suo capo indiscusso; ma chi lo assecondò? E con quali altri fini? Fu spinto surrettiziamente ad utilizzare quelle modalità affinchè si determinassero i presupposti per legittimare finalmente l’adozione di efficaci misure di repressione? Sostenerlo per sbarazzarsene? Da parte di chi? Solo soggetti nazionali? Domande, legittime, alle quali tuttora non corrispondono risposte giudiziarie. Ma i giudici non scrivono la storia e le sentenze ne costituiscono solo una parte, e nemmeno la maggiore”.
Questa fase dei primi anni Novanta di Riina è stata chiamata “stragista”, come se prima la mafia queste cose non le facesse… A parte la strage di Ciaculli del 1963, nel pieno centro a Palermo nel 1983 esplode l’autobomba che uccide il giudice Rocco Chinnici, la scorta e il portiere del suo stabile, attentato molto simile a quello in cui morì Borsellino. Perché dovettero passare tanti altri anni e il sacrificio di tanti altri magistrati e poliziotti prima che lo Stato arresta la mafia?
“Infatti, le stragi appartengono storicamente all’armamentario della mafia ma anche dell’eversione terroristica di destra, un connotato di particolari settori della criminalità che ha contrassegnato la nostra storia repubblicana. Le stragi di cosa nostra degli anni 90 presentano, tuttavia, una connotazione terroristica eversiva del tutto peculiare che alza, come si è detto, il livello dello scontro con lo Stato che reagisce come mai era avvenuto prima. Ma le stragi precedenti mostravano già in nuce ciò di cui era ulteriormente capace cosa nostra, ciò che avrebbe potuto fare e che concretamente ha fatto. Nella colpevole sottovalutazione dello Stato”.
Dott. Russo, anni fa ha dichiarato in una intervista pubblicata sul nostro giornale: “Va detto che il progetto della Direzione Nazionale Antimafia pensato da Falcone era ben diverso da quello effettivamente realizzato…”. Sarebbe forse cambiata la storia degli ultimi 30 anni di lotta alla mafia? Siamo ancora in tempo per una DNA come voleva Falcone?
“Non abbiamo la prova del contrario. Penso che l’assetto attuale, diverso da quello originariamente concepito da Falcone, abbia dato in ogni caso una buona prova. Sono state, infatti, proprio le direzioni distrettuali antimafia, collocate presso le procure dei capoluoghi dei distretti giudiziari, ad avere conseguito in questi 30 anni risultati eccellenti nell’azione di contrasto e di repressione del fenomeno mafioso. Un merito indubbio dello stato e della magistratura”.
In una intervista con “America Oggi” della fine degli anni Novanta, ci raccontò che l’allora boss mafioso di Mazara del Vallo, Mariano Agate, dopo essere uscito di galera, veniva salutato e riverito passeggiando nel corso della sua città mentre con lei, suo concittadino e magistrato che aveva indagato e processato Agate, in pochissimi si fermavano per salutarlo. E’ ancora così?
“Sono cambiate molte cose da allora e credo che una scena come quella difficilmente possa ripetersi. Sicuramente, non in pubblico, in modo così ostentato; chissà, magari in un luogo privato…”
La mafia, diceva Falcone, “è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Questa fine, dopo la cattura dell’ultimo grande latitante, è finalmente vicina?
“In questo momento in cui non mancano i dietrologisti che già paventano chissà quale trattativa sottostante a quella che, allo stato, sulla base dei fatti, costituisce una brillante operazione dei Carabinieri, è bene ribadire che la cattura di Messina Denaro Matteo costituisce un grande risultato dello Stato, dei tanti uomini delle forze di polizia e della magistratura impegnati da anni nelle sue ricerche. Una vittoria dello Stato contro cosa nostra, contro l’ala stragista della mafia rappresentata dall’ultimo dei grandi latitanti di mafia. Se si riuscirà a trasformarla anche in una vittoria contro quella parte delle istituzioni rappresentata da soggetti collusi con la mafia, la fine dell’organizzazione mafiosa sarà più vicina. Lo dobbiamo alle tante vittime, ai loro congiunti; lo dobbiamo a noi stessi e a tutti quelli che hanno subito la violenza e i condizionamenti di cosa nostra e non si sono piegati, nel nome del dovere e dello Stato. Io rimango fiducioso”.
L’AVVOCATO NIPOTE del BOSS
4.2.2023 Matteo Messina Denaro: perché la nomina della nipote avvocato “è un problema molto serio”
L’ex pm Massimo Russo, già sostituto procuratore quando Borsellino era a capo della Procura di Marsala, a Fanpage.it dopo la cattura di Matteo Messina Denaro parla di una falla nell’ordinamento giuridico.
Sono tante le persone che il 16 gennaio scorso hanno gioito per la cattura di Matteo Messina Denaro essendo stata considerata una vittoria ma allo stesso modo, con un giusto realismo, stanno affrontando la questione ponendo anche alcune importanti riflessioni all’attenzione non solo dei cittadini ma anche degli addetti ai lavori.
Tra questi vi è l’ex pm Massimo Russo, già sostituto procuratore quando Borsellino era a capo della Procura di Marsala. “In merito alla cattura si chiude un ciclo storico della lotta alla mafia stragista. Lo Stato lo ha trovato dove era razionale che fosse, un capo sta nel proprio territorio e Campobello era certamente il territorio della famiglia mafiosa di Castelvetrano che lui insieme a suo padre ha governato da decenni”, queste le prime parole di Russo ai microfoni di Fanpage.it.
“Una grande vittoria dello Stato contro Cosa nostra ma il mio augurio è che possa essere una vittoria anche contro quelle parti deviate dello Stato che hanno avuto relazioni con la mafia”, ha aggiunto subito dopo Russo.
In questi giorni il magistrato Russo ha posto al centro dell’attenzione un problema a cui molti hanno pensato: può una parente come Lorenza Guttadauro, nipote del boss, tra l’altro con il marito e parte della famiglia condannati per mafia, difenderlo in tribunale e ovviare così alle restrizioni del 41bis?
Si tratta di una vicenda assolutamente peculiare che probabilmente non è stata neanche prevista dal legislatore il quale ha predisposto la disciplina del “carcere duro” che è finalizzato ad impedire che detenuti per reati gravi possano mantenere collegamenti con l’esterno proprio come accaduto in episodi passati quando i mafiosi dal carcere continuavano a dettare ordini.
“Così l’ordinamento giuridico evita il collegamento con l’esterno consentendo i colloqui solo ai familiari fino al quarto grado attraverso un vetro divisorio e registrando tutto ciò che avviene. Se si presenta un normale nipote subisce tutte queste restrizioni – afferma Russo – ma se si presenta con la toga ovvero esercitando la sacrosanta funzione difensiva le restrizioni non ci sono eludendo le precauzioni atte ad evitare il collegamento con l’esterno. È un problema molto serio nell’ordinamento italiano perché bisogna trovare un equilibrio tra l’esigenza di tutelare la collettività e dall’altro consentire l’esercizio della funzione difensiva”.
In questi giorni il 41bis è sui tavoli di tutte le più importanti istituzioni e al centro dell’opinione pubblica visto che si pensa possa essere stato, in passato ma anche adesso nel presente, argomento della trattativa Stato-mafia. Anche su questo Massimo Russo è molto deciso: “Io non sono mai stato un magistrato ‘trattativista’, mi limito a registrare i fatti e quest’ultimi dimostrano che il 41bis è sempre stato a cuore dei mafiosi sin dall’arresto di Riina. Mentre io facevo il processo contro le cosche del trapanese, Leoluca Bagarella lanciò quel famoso appello contestando ai politici che avevano trattato i detenuti come merce di scambio. La mia preoccupazione è che Cospito costituisca il ‘cavallo di Troia’ per mettere mano nuovamente al 41bis questa volta a favore dei mafiosi. È fondamentale affinché non si presentino più episodi che tutti vorremmo dimenticare”.
Per Russo Messina Denaro “non ha ancora provveduto a nominare un successore, magari lo nominerà dal carcere. Secondo me ci sono dei papabili”. Questi ultimi però non sono stati dichiarati ai microfoni di Fanpage.it. “Per me ed altri colleghi Messina Denaro non è mai stato il successore di Riina ma sicuramente è stato il capo indiscusso di Trapani. Una cosa tengo a dire, il problema serio da affrontare è che ancora, la latitanza ce lo dimostra, c’è una parte sociale e culturale che favorisce la mafia e non le istituzioni. Su quella bisogna lavorare perché i boss lo Stato alla fine li ha sempre catturati”. Roberto Marrone FANPAGE
La latitanza trentennale di Matteo Messina Denaro
ARCHIVIO
BORSELLINO: “Nei confronti dei mafiosi: pugno di acciaio in un guanto di velluto”
A cura dell’Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso, intervista al magistrato Massimo Russo, allievo di Paolo Borsellino
L’Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso, presieduto dal professor Enzo Guidotto, si occupa da tanti anni di ricerca, documentazione e studio del fenomeno mafioso nelle sue molteplici manifestazioni, svolgendo – attraverso conferenze e convegni, anche nelle scuole – attività di approfondimento culturale e di sensibilizzazione civica sulla pericolosità che le organizzazioni che lo alimentano esercitano per la società, l’economia, la democrazia e le pubbliche istituzioni e si distingue da altre associazioni di impegno civico per la costante solidarietà nei confronti dei magistrati che operano in trincea.
Nel quadro di queste iniziative l’Osservatorio, che si avvale della collaborazione di persone che rivelano particolare attenzione per la divulgazione delle conoscenze in materia, ha ritenuto opportuno intervistare il dottor Massimo Russo – attualmente Giudice presso il Tribunale di sorveglianza a Napoli – che in passato si è occupato, dal 1991 al 2007, di criminalità organizzata, svolgendo funzioni di Pubblico Ministero prima a Marsala, quando il Procuratore capo era Paolo Borsellino, e dal 1994 a Palermo lavorando anche alla Direzione Distrettuale Antimafia: svolgendo inchieste soprattutto sulla mafia del Trapanese ha maturato una profonda conoscenza su “Cosa Nostra” di quella provincia.
Lo ringraziamo per la sua preziosa testimonianza nella convinzione che la conoscenza di fatti passati aiuti a comprendere meglio gli avvenimenti del presente e ad ipotizzarne gli sviluppi futuri.
Queste sono le risposte del magistrato Massimo Russo alle nostre domande.
Osservatorio: Lei arriva a Marsala nell’ottobre 1989 e nel novembre 1991 viene trasferito alla Procura. All’epoca il Procuratore Capo a Marsala era il dott. Borsellino, con il quale stabilì un forte rapporto umano oltre che professionale.
Russo: “Marsala è stata la mia prima sede, dopo avere terminato l’uditorato a Firenze. Lì ho fatto il giudice per due anni, successivamente sono stato trasferito alla Procura allora retta da Paolo Borsellino con il quale lavorai solo alcuni mesi, poiché nel marzo del 92 egli ritornò a Palermo per assumere l’incarico di procuratore aggiunto. Ma il rapporto umano iniziò da subito. Paolo Borsellino, per la comunità dei giovani magistrati del Palazzo di Giustizia di Marsala – molti, come me, di prima nomina- era un imprescindibile punto di riferimentoumano e professionale. Paolo si imponeva per la sua esperienza, per il suo carisma e per il suo tratto umano: era un uomo semplice, un padre di famiglia, simpatico, dalla battuta sempre pronta, ironico e col sorriso stampato in faccia, appena smorzato dalla perenne sigaretta tra le labbra. Sempre disponibile a venirci incontro e a misurarsi con le nostre difficoltà di giovani magistrati già alle prese con indagini complesse, anche di mafia: all’epoca, prima dell’istituzione delle Direzioni Distrettuali Antimafia, la Procura di Marsala si stava infatti occupando di diversi e importanti procedimenti contro Cosa Nostra. Ricordo la sua battuta con la quale sintetizzò l’atteggiamento che dovevamo avere nei confronti dei mafiosi: “pugno di acciaio in un guanto di velluto”. Un’altra volta,quando si rese conto che mi aveva assegnato un’indagine in cui erano coinvolti soggetti di Mazara del Vallo -che è la mia città natale dove all’epoca vivevo – mi chiamò e dissimulando la sua reale preoccupazione mi disse sorridendo: “Adesso ti occupi anche dei tuoi concittadini?”. Poi più seriamente aggiunse: “Forse non è opportuno che tu lo faccia perché prima o poi te la faranno pagare”. Pur comprendendo il suo atteggiamento protettivo, di rincalzo e con la sua stessa ironia,gli risposi: “Scusa Paolo, ma tu di dove sei?”. “Di Palermo”, rispose.“E finora che hai fatto? Di cosa ti sei occupato?” E lui, messo alle strette: “Della mafia palermitana”. Ed io: “E allora che vuoi?”. “Comunque stai attento”, concluse”.
Abbiamo notato che i giudici e gli investigatori, che più facilmente comprendono o sono riusciti a comprendere il linguaggio di Cosa Nostra, sono proprio coloro che sono siciliani e hanno vissuto da quelle parti.
“E’ inevitabile che un siciliano meglio di altri riesca a decodificare, a decifrare aspetti molto significativi e rilevanti dell’organizzazione mafiosa, non soltanto del suo aspetto squisitamente criminale ma soprattutto del suo atteggiarsi quotidiano all’interno della comunità in cui agisce e nella quale, purtroppo, riesce a catturare anche il consenso della gente. C’è infatti una dimensione di normalità, di quotidiana normalità mafiosa, mai abbastanza analizzata e contrastata, che un siciliano vive e avverte come nessun altro perché la mafia non è soltanto la temibile e terribile organizzazione criminale che adesso tutti conoscono ma è soprattutto una forma di sottocultura ben radicata in molte fasce sociali. Quindi, chi meglio di un siciliano può capire tutto ciò? Io stesso, nel corso della mia esperienza professionale proseguita successivamente a Palermo, alla Direzione Distrettuale Antimafia, occupandomi della mafia del Trapanese, mi sono imbattuto in persone che conoscevo e con alcune delle quali da giovane avevo anche giocato a pallone o avevo preso un caffè al bar, gente che oggi è detenuta con condanna all’ergastolo per omicidi di mafia.
Proprio la profonda conoscenza ed esperienza della fenomenologia mafiosa, coniugata con le capacità tecniche, ha reso particolarmente efficace l’azione di molti investigatori siciliani che, anche per questo, hanno pagato con la vita l’impegno per l’affermazione della legalità che è la vera essenza della lotta alla mafia.
Qualche altro è riuscito a salvarsi. Penso al mio amico Rino Germanà, collaboratore di Borsellino prima e successivamente anche mio, che con un trasferimento quantomeno anomalo, fu rimandato a dirigere il Commissariato di Mazara del Vallo dove nel settembre del 92 scampò miracolosamente all’attentato perpetratogli da Bagarella, Graviano e Messina Denaro su ordine di Riina: il “capo dei capi”, nella strategia stragista di quell’anno, aveva deciso di eliminare anche quel giovane e brillante funzionario di Polizia che aveva capito troppe cose su Cosa Nostra e sulle complicità delle quali godeva a diversi livelli.
Germanà, grandissimo investigatore e profondo conoscitore della mafia del Trapanese è l’esempio, per fortuna vivente, della vera antimafia: antieroe, serio, riservato, senza etichette, che non ha“spettacolarizzato” né mai strumentalizzato la sua vicenda umana e professionale e che non ha mai chiesto nulla: e che dallo Stato e da tutti noi ha ricevuto meno, molto meno di quello che meritava. Una vera icona, a dispetto – specialmente di questi tempi – di certa antimafia farlocca, folcloristica, parolaia, di auto blu a sirene spiegate, costruttrice di carriere, di interessi e relazioni se non anche di affari, che ha strumentalizzato storie e dolori, che cerca la vetrina, che parla di eroi per costruire le proprie fortune,che ha fatto e continua a fare tanti danni. Ma nessuno alla mafia.
Perché non basta la celebrazione dei morti ammazzati dalla mafia se poi tutto ciò non si traduce in comportamenti virtuosi, coerenti, nella vita di tutti i giorni, perché l’antimafia non è una stella da appendersi al petto ma è fatta innanzitutto di azioni quotidiane, di sacrifici e di rinunce, di scelte spesso pesanti, di prezzi da pagare, di coraggio e di passione, di un credo smisurato nelle istituzioni e nella legalità. Penso agli insegnanti che, senza clamori, investono su cultura e conoscenza quale arma micidiale per recidere i vincoli perversi della suggestione del potere mafioso, agli imprenditori e ai commercianti che rifiutano di pagare il pizzo e che coraggiosamente denunciano, alle forze dell’ordine che con sacrificio assicurano le condizioni basilari del nostro vivere civile e ai tanti cittadini anonimi che silenziosamente assolvono ai loro doveri e si battono ogni giorno per la crescita democratica del nostro paese facendo la loro parte, piccola o grande che sia.
La mafia è sempre pericolosa, esiste, c’è, ma è pur vero che lo Stato e la società hanno vinto battaglie impensabili che l’hanno fiaccata,anche se non bisogna mai abbassare la guardia. Le stragi,mostrando a tutti, platealmente, il volto mostruoso della mafia, hanno costituito il propellente per una reazione collettiva che ha consentito di sviluppare nel tempo una vera cultura antimafiosa, specialmente nelle scuole”.
Spesso sentiamo dire, soprattutto da chi lavora nell’ambito giudiziario, giudici e non, che “come Borsellino e Falcone non ne esistono più, ci sono bravissimi giudici competenti, onesti e preparati ma come loro non ne nascono più”. Perché erano speciali?
“Loro hanno operato in anni diversi, quando erano in pochi a parlare di mafia e pochissimi ad occuparsene davvero. Sono stati tra i primi ad avere capito quanto ampio e radicato fosse il fenomeno mafioso e nonostante ciò lo hanno davvero combattuto con strumenti molto più limitati rispetto a quelli che poi abbiamo avuto noi, proprio grazie al loro sacrificio. Ma Falcone e Borsellino sono stati molto di più che due grandissimi magistrati: con la loro costante dedizione al lavoro, con la loro incrollabile fiducia nelle Istituzioni, con le loro azioni giudiziarie, hanno dato risposta ad un forte bisogno di identificazione collettiva da parte della società sana, di quella parte che ha sempre creduto che il riscatto della Sicilia e del meridione passasse innanzitutto attraverso la lotta al potere mafioso. Così, sono divenuti l’emblema della lotta alla mafia e in molti si sono riconosciuti nel loro esempio, da imitare piuttosto che ammirare retoricamente”.
Lei è intervenuto alla presentazione del libro di Rosario Indelicato, L’inferno di Pianosa.Questo libro ha riaperto riflessioni profonde sul fenomeno dei collaboratori che venivano chiamati pentiti negli anni 80. Giovanni Falcone, nelle valutazioni probatorie relative al pentitismo, si esprimeva così: “Le rivelazioni dei pentiti devono essere valutate per quello che sono, spesso chiamate in correità o notizie apprese de relato, ma se non assistite da riscontri estrinseci restano un mero, equivoco indizio e non vi sono ostacoli giuridici all’utilizzazione di indizi come mezzi di prova. Il problema è valutare l’attendibilità con saggezza e oculatezza. Ma va puntualizzato che bisogna sempre adoperarsi per cercare riscontri obiettivi a tali dichiarazioni”. Questi principi espressi dal dottoreFalcone nel 1986 sono ancora attuali? Si applicano ancora oggi?
“Basta leggere le più recenti massime della Corte di Cassazione per capire non solo quanto sono attuali ma soprattutto quanto innovativo fosse il pensiero di Falcone. D’altra parte egli aveva ben capito quanto fosse importante lo strumento dei collaboratori di giustizia per disarticolare Cosa Nostra, organizzazione segreta per antonomasia che fa della segretezza uno dei suoi maggiori punti di forza. Ma era al contempo perfettamente consapevole che si trattava di un’arma delicata e pericolosa, da maneggiare con cura e molta attenzione. Il tema riguarda innanzitutto la verifica, da farsi con estremo rigore,della credibilità del soggetto che rende dichiarazioni accusatorie, soprattutto se legittimamente dettate dall’interesse personale ad ottenere vantaggi e benefici (processuali, sconti di pena, economici, programma di protezione).
Si è oramai sedimentato nella giurisprudenza il percorso necessario per la loro utilizzabilità probatoria, imperniato giustamente su canoni di estremo rigore. Se un soggetto riferisce notizie riguardanti l’organizzazione mafiosa e i suoi appartenenti è regola di buon senso, prima ancora che regola giuridica, dimostrare innanzitutto che egli stesso abbia fatto parte del sodalizio o che fosse in rapporti tali con soggetti mafiosi da consentire tali confidenze. Insomma, si deve accertare se conosce effettivamente o é stato davvero nelle condizioni di potere conoscere ciò di cui parla.
Ma anche i contenuti della sua narrazione devono essere sottoposti a verifica per avere dignità di prova, attraverso il riscontro di elementi esterni idonei a confermare l’attendibilità della dichiarazione. La valutazione deve essere unitaria, dovendosi accertare insieme credibilità soggettiva e attendibilità oggettiva ma la Cassazione ha sempre ammesso che è possibile la valutazione “frazionata” delle dichiarazioni accusatorie,purché la parte della dichiarazione da valorizzare sia assistita da riscontri esterni e obiettivi mentre quella non riscontrata non deve essere tale da inficiare e compromettere la credibilità stessa del soggetto. Insomma, nelle sue dichiarazioni il soggetto può incorrere in qualche errore ma errori o dimenticanze non possono essere così macroscopici da pregiudicare la coerenza logica dello stesso racconto e con esso la credibilità del dichiarante. Se si osservano rigorosamente questi basilari canoni interpretativi si riduce il rischio di utilizzare dichiarazioni mendaci come purtroppo è accaduto, specialmente nel passato.
Un esempio: nel processo che si sta celebrando a Caltanissetta per la strage di via D’Amelio, sono emerse lacune gravi dal punto di vista investigativo e nella valutazione delle dichiarazioni rese dall’ex collaboratore Scarantino: quest’ultimo aveva accusato soggetti, poi condannati all’ergastolo e successivamente scarcerati in seguito alle dichiarazioni rese da un altro collaboratore di giustizia, Spatuzza,di ben altro spessore e attendibilità, che hanno dato vita al processo di revisione. E questo purtroppo non è un caso isolato”.
All’epoca della sua permanenza a Marsala, e anche dopo, ha avuto la possibilità di ascoltare alcuni collaboratori di giustizia: ha mai avuto dubbi su alcuni di essi, e se sì perché?
“Li ho avuti e, come era mio dovere, sono stato consequenziale. Mi riferisco in particolare a due soggetti,Vincenzo Calcara e Pietro Scavuzzo, che nei primi anni ’90 hanno reso dichiarazioni riguardanti Cosa Nostra in provincia di Trapani. Bisogna però fare un’importante premessa per capire cronologicamente alcuni fatti. Sino a quella data soltanto Tommaso Buscetta e pochi altri avevano parlato dell’organizzazione mafiosa ma le loro dichiarazioni avevano riguardato per lo più l’articolazione palermitana di Cosa Nostra. Nella provincia di Trapani non c’era stato mai nessun dichiarante se non negli anni ’30, Melchiorre Allegra, un medico di Castelvetrano, e negli anni ’50, taleLuppino, che avevano dato qualche scarna notizia sulla presenza di famiglie mafiose sul quel territorio. Sul finire degli anni ’80 alcuni valentissimi investigatori della Polizia di Stato e dei Carabinieri, tra cui Rino Germanà, avevano delineato con le loro indagini il contesto mafioso in cui operavano alcuni soggetti ritenuti appartenenti alle locali famiglie, oggetto di denuncia con memorabili rapporti giudiziari.
Soltanto nel 1996 Antonio Patti, uomo d’onore della famiglia di Marsala, si apre alla collaborazione con la Giustizia accusandosi di oltre 40 omicidi, facendo per la prima volta l’organigramma e tracciando uno spaccato criminale inedito della potente mafia della provincia di Trapani. Quando Calcara e Scavuzzo rendono le loro dichiarazioni il quadro delle conoscenze su Cosa Nostra trapanese era molto limitato, sicché le loro accuse nei confronti di soggetti già denunciati alla autorità giudiziaria si configuravano quali straordinarie conferme, da una parte alle felici intuizioni degli investigatori e dall’altra alla loro stessa credibilità. Parallelamente, le chiamate di correo nei confronti di altri soggetti mai emersi prima nel panorama investigativo risultavano difficilmente confutabili ma non per questo meno credibili tanto più che, ad onore del vero, altre parti deiloro racconti erano stati puntualmente riscontrati.
Così quando ad un certo punto Scavuzzo, che diceva di essere un uomo d’onore della famiglia di Vita, comincia a parlare di Vincenzo Sinacori quale appartenente all’organizzazione mafiosa ead alzare il tiro riferendo alcuni fatti riguardanti, se non ricordo male, i rapporti che questiavrebbe intrattenutocon un importante politico nazionale, le sue dichiarazioni apparirono credibili proprio perché Sinacori era stato denunciato perché indiziato di essere una pedina di rilievo del sodalizio mafioso di Mazara del Vallo. Però Sinacori, quando viene catturato e comincia a collaborare con la Giustizia, alle nostre contestazioni mosse sulla base delle dichiarazioni rese da Scavuzzo, risponde in modo tranciante: “Guardate che io Scavuzzo non lo conosco, non l’ho mai incontrato, non ci ho mai avuto rapporti. E vi dico di più, non solo non lo conosco, ma non è nemmeno uomo d’onore, non è nessuno. Noi mafiosi non lo conosciamo”.
Siccome queste affermazioni provenivano da un capo mafioso, reggente del potente mandamentodi Mazara del Vallo in cui era compresa la famiglia di Vita, l’unico atto che poteva dirimere il radicale contrasto tra le due dichiarazioni, consentendoci di capire chi mentiva, era quello di procedere ad un confronto faccia a faccia tra i due, con il cosiddetto confronto all’americana. Purtroppo quell’atto non è stato ripreso dalle telecamere ma mi è rimasto impresso nella memoria perché si capì subito chi era il vero mafioso e chi aveva mentito spudoratamente. Sinacori confermò le sue dichiarazioni, ribadendo di non conoscerlo; subito dopo fu fatto entrare Scavuzzo al quale leggemmo le dichiarazioni rese in precedenza, chiedendogli di confermarle. Prima che arrivasse la sua risposta, Sinacori, intimandogli di guardarlo negli occhi, lo fulminò domandogli: “Sig. Scavuzzo, ma nuiautri ni canuscemu?” [“ma noi ci conosciamo?”]E Scavuzzo, mantenendo la testa abbassata: “No, no, forsemi sono sbagliato”. Non provò nemmeno ad abbozzare altre risposte, rimase zitto. Inesorabilmente zittito, prima ancora che dalla tranciante domanda di Sinacori, dall’eloquentepotenza rivelatrice di quell’incontro,all’evidenza il primo!
Ancora più singolare la vicenda di Vincenzo Calcara che nel novembre del 1991 dichiara di volere collaborare con la Giustizia. Si autoaccusa di fare parte della famiglia mafiosa di Castelvetrano, di essere stato “punciuto” da Francesco Messina Denaro; accusa tanti altri soggetti di essere appartenenti all’organizzazione. Alcuni, in primis lo stesso Messina Denaro, già noti alle forze dell’ordine e alla magistratura per essere stati denunciati proprio per il reato di cui all’art.416 bis; altri, del tutto sconosciuti, almeno quali soggetti inseriti o gravitanti nel locale contesto mafioso, come per esempio Tonino Vaccarino, accusato di essere tra i capi della famiglia mafiosa castelvetranese, di essere implicato nell’omicidio dell’ ex sindaco di Castelvetrano Vito Lipari e addirittura di essere il mandante di un attentato al dott. Borsellino che avrebbe dovuto eseguire lo stesso Calcara.
Però, alcuni anni dopo, quando cominciano a collaborare con la giustizia i mafiosi “veri” (i Patti, Sinacori, Ferro, Milazzo, tutti della provincia di Trapani, o i palermitani come Brusca ed altri che avevano rapporti strettissimi con i trapanesi), interrogati sui fatti narrati da Calcara e sulle sue accuse, ma tutti all’unisono ci dicono: “Scusate, ma di che state parlando? Ma Calcara non è assolutamente nessuno, nulla sa né può sapere di cose di mafia”. Realizziamo, quindi, che Calcara non solo aveva riferito cose non vere ma soprattutto emerge subito tutta la sua profonda ignoranza – e dunque il suo mendacio – su cose essenziali riguardanti proprio l’assetto organizzativo di Cosa Nostra e cioè su informazioni basilari per uno che dichiarava di esserne un appartenente.
Un passo particolarmente significativo della sentenza,(N°9/98),per l’omicidio di Ciaccio Montalto dal Tribunale di Caltanissetta, che motiva la sua inattendibilità soggettiva, scolpisce lapidariamente proprio questo aspetto: Calcara non è in grado di dare informazioni minimali sull’organizzazione mafiosa, non sa parlare dei mandamenti e delle famiglie mafiose della provincia di Trapani nè addirittura del suo stesso mandamento di appartenenza, Castelvetrano, dimostrando di non conoscere quali altre famiglie ne fanno parte. Ricordo che lo stesso Sinacori, quasi a volere spazzare via ogni dubbio sulla figura di Calcara, considerato ancora mafioso e conoscitore di cose di mafia, in una pausa di uno dei suoi primi interrogatori mi fa:“Scusi Dr. Russo, lei che ormai da tempo è il magistrato che meglio conosce le dinamiche di cosa nostra trapanese sa chi è il vero capo, e non soltantoquello operativo, in provincia?”E io: “Si, ovviamente, Matteo Messina Denaro”. E Sinacori:“Bene, e le risulta che Calcara sino ad adesso ne abbiamai parlato?”. Con una battuta, Sinacori mise a nudo la credibilità di Calcara che, in effetti, non aveva mai parlato della persona certamente più importante e di rilievo nel panorama mafioso trapanese. Era la prova che Calcara non aveva proprio idea di chi fosse Messina Denaro Matteo e quale ruolo avesse in Cosa Nostra come emerso anche di recente nell’ambito delle intercettazioni nel carcere di Opera allorquando Riina parla di Matteo Messina Denaro come di un suo pupillo a lui affidato dal padre Francesco per farlo “crescere”, in una specie distage formativo mafioso! Calcara, dunque, sedicente mafioso, ha retto la parte del mafioso pentito, sapendo di non poter essere smentito da nessuno, sino a quando non sono stati i veri mafiosi a sbugiardarlo e poi qualche sentenza a demolirne la credibilità. Forse non era stato previsto che anche nella roccaforte mafiosa della provincia di Trapani arrivassero iveri pentiti a chiarire come stavano effettivamente le cose!
Tutto questo, insieme ad altre cose, mi ha portato ad imputare Calcara di autocalunnia, per essersifalsamente accusato di fare parte di Cosa Nostra con l’aggravante di averla agevolata avendo,secondo l’ipotesi accusatoria, impedito o comunque ritardato con le sue false dichiarazioni – da accertarsi quanto “farina del suo sacco” e quanto eventualmente ispirato o sollecitato da altri e da chi- le indagini nei confronti dei veri appartenenti a Cosa Nostra. Successivamente non mi sono più occupato della vicenda Calcara e se non ricordo male quel processo non si celebrò in quanto frattanto maturò la prescrizione del reato”.
Lei quando ha testimoniato al Borsellino Quater ha parlato di questo attentato a Borsellino, di cui riporta la notizia perfino il Calcara e che teoricamente era stato commissionato dal Vaccarino che è stato assolto per il reato416bis.
“Devo aggiungere innanzitutto che l’imputazione nei confronti di Calcara riguarda anche il reato di calunnia nei confronti di Antonio Vaccarino che era stato assolto dal reato di cui all’art.416 bis nel processo nato dalle sue dichiarazioni accusatorie. Calcara, all’inizio della sua collaborazione, verso la fine del 1991, ad un certo punto riferisce che aveva avuto l’incarico da Vaccarino di uccidere Paolo Borsellino con un fucile di precisione. Ora, rileggendo quelle dichiarazioni con la nuova chiave interpretativa della sua inattendibilità soggettiva e delle ulteriori conoscenze investigative e processuali successivamente acquisite, il riferimento di Calcara all‘attentato al dott. Borsellino – purtroppo realmente eseguito appena pochi mesi dopo, nel luglio successivo, ma con ben altre modalità e in un contesto totalmente diverso da quello da lui evocato – appare singolare se non proprio inquietante tanto più che Patti, Sinacori e qualche altro, successivamente, hanno riferito che inizialmente l’attentato al dott. Borsellino doveva essere fatto proprio a Marsala.
All’esecuzione di questo progetto criminale, voluto direttamente da Riina, si opposero però D’Amico e Craparotta, capi della famiglia mafiosa marsalese, che nel gennaio del 1992 vennero uccisi, sempre su volere di Totò Riina che comunicò tale sua decisione ai vertici di Cosa Nostra trapanese nel corso di un pranzo durante le festività natalizie del 91. Probabilmente la ragione della loro eliminazione sta proprio nel loro rifiuto di eseguire l’attentato sul territorio marsalese.
Dunque Calcara, che non è un mafioso, dà notizie di un attentato mafioso a Borsellino, attentato effettivamente programmato dapprima a Marsala e poi realmente eseguito a Palermo ma da parte del gotha di Cosa Nostra e non certo da Vaccarino che però riemerge, investigativamente, nei primi anni del 2000 quale soggetto legato ai servizi segreti in quanto coinvolto in un’azione di intelligence per “stanare “Matteo Messina Denaro, ancora oggilatitante, con il quale intrattiene un contatto epistolare con lo pseudonimo di “Svetonio”.
Dunque, Calcara ha mosso accuse, in parte infondate, a Vaccarino ma non anche a Matteo Messina Denaro; successivamente si accerterà che questi, con lo pseudonimo di “Alessio”, si scambierà alcune lettere con “Svetonio” Vaccarino; le lettere di “Alessio”,seppure “ideologicamente” a lui riferibili, non risultano però manoscritte da Matteo Messina Denaro e si accerterà che sono grafologicamente riferibili alla stessa persona che con il medesimo pseudonimo di “Alessio” scrive a Provenzano nel cui covo sono state rinvenute al momento della cattura di questi.
Io credo che su questa vicenda e su quella riferita da Calcara, così come su altre sue dichiarazioni riguardanti cose oggettivamente molto più grandi di lui, per esempio l’attentato a Papa Wojtyla,prima o poi bisognerà riaccendere i riflettori”.
Ma questa sentenza su Ciaccio Montalto di Caltanissetta, la n°9 del 1998 (che viene ammessa agli atti, per quanto riguarda il Calcara, anche nelle motivazioni del processo Rostagno, sentenza del giugno 2014), ha un altro punto notevole, dove si fa riferimento ad una deposizione del Dr. Borsellino al CSM fatta nel dicembre ’91, in cui il magistrato parla del suo convincimento su Spatola, altro pentito dell’epoca. Borsellino aveva serissimi dubbi su di lui; e poi c’è un passaggio molto importante dove i giudici scrivono che “la fuga di notizie sulle dichiarazioni dello Spatola costituiva una splendida occasione per chi, come il Calcara, voleva riferire di circostanze a lui non note”.
“Quelle giornate le ho vissute! Spatola iniziò a fare delle dichiarazioni al dott.Taurisano, all’epoca sostituto alla Procura di Trapani, e accadde che prima ancora che le stesse fossero trasmesse alle Procure competenti per territorio (Marsala e credo Sciacca) i relativi verbali furono pubblicati sul settimanale “Epoca”. Spatola aveva vissuto nel sottobosco delinquenziale dove probabilmente era entrato in contatto con qualche mafioso ma Borsellino capì che le sue dichiarazioni su Cosa Nostra, specialmente quelle riferibili alla politica, non erano credibili e ne fece oggetto di una pubblica denuncia”.
Ad un certo punto, nel 1994, lei si è trasferito a Palermo e poi alla Direzione Distrettuale Antimafia. Con l’introduzione della Direzione Nazionale Antimafia, tanto voluta dal Dr. Falcone, quanto è migliorato il lavoro per combattere la criminalità?
“E’ stato certamente uno strumento importante per centralizzare le informazioni e per avere una gestione unitaria delle stesse. Però va detto che il progetto della Direzione Nazionale Antimafia pensato da Falcone era ben diverso da quello effettivamente realizzato, perché prevedeva un ruolo attivo del nuovo organismo nello svolgimento delle indagini per rendere più penetranti ed efficaci le investigazioni contro le organizzazioni mafiose, avendo profeticamente intuito che le loro attività criminali erano sempre più proiettate in una dimensione nazionale ed internazionale. Da qui la necessità di un’azione di contrasto unitaria da parte di una struttura giudiziaria accentrata, ove fossero canalizzate tutte le informazioni investigative, adeguata in termini organizzativi, dotata diappropriate risorse e professionalità: una sorta di grande pool antimafia capace di intervenire senza vincoli legati alla competenza per territorio”.
Dopo 28 anni in Magistratura ha qualche rimpianto? C’è qualche indagine che le ha fatto pensare “ma chi me l’ha fatto fare?”
“No, il “chi me l’ha fatto fare” non mi è mai passato per la testa, perché è stato un impegno civile, oltre che professionale, quello di tornare nella mia terra, dopo l’università e l’uditorato a Firenze. Il destino ha poi voluto che Falcone e Borsellino lasciassero a noi, giovanissimi magistrati, il testimone ideale di questo impegno difficile ma decisivo se vogliamo restituire alla nostra terra una dimensione civile oltre che più umana. Un impegno che si nutre non solo di coraggio ma specialmente di serietà, rigore, sacrificio ma anche di rispetto delle ragioni dell’altro, dell’imputato, della dignità del detenuto e della consapevolezza che uno stato democratico non deve scendere mai a compromessi con la mafia e che deve essere ed apparire sempre più forte ma soprattutto più giusto”.
C’è scritto in vari libri che Borsellino fosse cosciente che dopo Falcone sarebbe toccato a lui. Perché c’era questa consapevolezza?
“Perché loro costituivano la punta di diamante della lotta alla mafia e dopo il colpo sferrato allo Stato con la strage di Capaci, manifestando una potenza e una ferocia inaudita, Borsellino capì perfettamente che Cosa Nostra non lo avrebbe risparmiato. Con questa consapevolezza, in piena solitudine, andò eroicamente incontro alla morte in quel tragico pomeriggio del 19 luglio in via D’Amelio”.
Secondo lei Paolo Borsellino si poteva salvare se ci fossero state meno omissioni dello Stato?
“E’ difficile rispondere. Con il senno di poi, sulla base di ciò che abbiamo appreso, probabilmente sì. E’ importante però capire quello che è successo veramente nel nostro paese tra il 92 e il 93, quando la nostra democrazia ha fibrillato ed è stata messa a dura prova da un vero e proprio progetto terroristico di destabilizzazione. E bisogna farlo ricostruendo rigorosamente gli accadimenti, per individuare le responsabilità penali senza fare voli pindarici, mettendoli rigorosamente in fila e soprattutto dimostrandoli perché una cosa sono le ipotesi e ben altra sono i processi nei quali ciò che conta sono esclusivamente le prove. Un magistrato non si deve innamorare mai delle ipotesi e meno che mai delle proprie convinzioni personali, dovendo avere sempre come bussola del suo agire professionale il processo che è l’unico luogo istituzionale e costituzionale dell’accertamento della verità processuale che si consacra nella sentenza. Che non ha surrogati né negli avvisi di garanzia né nelle misure cautelari né in altri atti delle indagini troppo spesso sbandierati sulla stampa con la pretesa di raccontare la verità, spesso una verità di comodo se non addirittura interessata!”
Qual è l‘immagine più bella che lei ha di Paolo Borsellino?
“Quella sorridente del felice periodo marsalese di quando, per esempio, insieme agli altri colleghi, ci ritrovavamo a pranzo con lui sul lungomare di Marsala continuando a discutere e parlare delle nostre indagini, tra le sue battute divertenti e i suoi aneddoti. Un’immagine ben diversa da quella che Paolo Borsellino ci diede dopo il 23 maggio, quella di un uomo distrutto dalla tragedia di Capaci, gravato dalla consapevolezza della morte che si annunciava anche per lui”.
Grazie Dr. Russo, è stata una conversazione molto istruttiva e interessante. E buon lavoro.
“Grazie a lei. E a presto”.
Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso 22.2.2016 LA VOCE DI NEW YORK