30 settembre 1992 «Le mie armi contro i clan sono 100 pentiti e la gente»

 
Il ministero degli Interni, con un ministro sempre democristiano. Un pomeriggio di estate residuale. Il ministro degli Interni Mancino è seduto nella sala umbertina del suo studio.
Faccia meridionale, accento avellinese, un passato fra le scartoffie e le correnti, un uomo d’apparato, di partito, un topo nel formaggio parlamentare, arrivato “al comando della sicurezza interna. E la fortuna (o il merito?) lo fanno apparire come un protagonista.
Non è soltanto la grande retata internazionale contro i narcotrafficanti a dargli lustro, ma la lunga serie di successi contro Cosa Nostra.
E in particolare il grosso colpo: l’arresto dell’artificiere di via D’Amelio.
Allora, ministro, che succede? Lo Stato si è deciso a farsi sentire? «Non so rispondere in termini astratti: i risultati ci sono, e questo è quel che conta». Un poliziotto di Palermo mi ha chiamato per dirmi: finalmente è arrivata la volontà politica.
E’ così? E’ arrivata? E prima dov’era? «Se si trattasse soltanto di una partita misteriosa fra apparati dello Stato e apparati criminali, si potrebbe dire una cosa del genere. In realtà c’è dell’altro».
C’è la gente, vuol dire? «Sta cambiando la gente, sì. Non si batte Cosa Nostra, o la camorra, soltanto con gli apparati. La gente deve partecipare…» Scendere in piazza… «Anche. A condizione che non finisca lì. Serve che i cittadini chiamino la polizia ogni volta che vedono qualcosa cft sospetto». La delazione. «Il civismo». I pentiti. «Anche».
Quanti sono? «Non posso dirglielo». Centinaia? «Ecco. Diciamo così. Protetti, ascoltati, ben curati, di ogni livello: dalla manovalanza alla cupola».
La voce che corre è che vi siate decisi a fare la faccia feroce perché tedeschi e americani sono stufi dell’infezione italiana. «Una voce stupida. Le mafie al mondo sono moltissime e i tedeschi hanno finalmente capito che si tratta di una questione un po’ più complicata e articolata di come l’ha raccontata lo “Spiegel”. E ci hanno chiesto il nostro ordinamento legislativo».
Quando avete messo le mani, o meglio gli occhi, sull’uomo che ha fabbricato la bomba di via D’Amelio? «Dieci giorni dopo l’attentato». Esiste una formula Mancino per combattere la mafia? «Sì. La formula è: combattere la mafia. Non è un gioco di parole: combattere significa avere l’iniziativa e passare all’attacco».
Lei ha detto che cerca di aizzare le cosche le une contro le altre affinché si distruggano… «Mai detto. Ho riflettuto sul fatto che se si agisce colpendo settore dopo settore, per forza di cose si creano fratture al loro interno. Che poi loro risolvano le fratture sparandosi, questo è il loro costume, non il mio».
Antonino Caponnetto in passato l’ha attaccata e adesso ha per lei parole di apprezzamento. Che effetto le fa? «Quando mi attaccava, stavo per rispondergli male, perché si trattava della storia di Gelli e dell’inchiesta sulle sue finanze… Beh, lasciamo perdere. Diciamo che oggi sono molto contento di riscuotere il suo apprezzamento e questo mi ripaga di vecchie amarezze».
Lei crede al pentito Spatola? Non è un personaggio ambiguo e sospetto? «Bah, diciamo che è uno che sa un po’ di cose, e per quel che sa vale quanto vale. Anche Falcone aveva maturato questa opinione».
Conta di abbattere Cosa Nostra, in tempi ragionevoli? «Il mio obiettivo è indebolirla. Tenga conto che Cosa Nostra è una struttura che viaggia dieci anni avanti alle altre organizzazioni criminali, per tecnica, esperienza…»
Ma lei non ha risposto alla prima domanda: perché oggi e non ieri? Che cosa è successo? «Il mondo è cambiato. La coscienza civile è cambiata…»
E nello Stato? «Nello Stato ha fatto fatica a crescere la percezione e la dimensione del pericolo». Incredibile. Con quella sequela di morti ammazzati, i cadaveri eccellenti, i poliziotti, i magistrati… «Sì, ma diluiti nel tempo. Poi c’è stata una accelerazione, un attacco allo Stato… Gli omicidi Falcone e Borsellino hanno rappresentato il momento più alto e sciagurato di questo attacco. E man mano sono stati perfezionati gli strumenti…»
Intanto la Dia non parte, è asfittica, nessuno la vuole… «Questo lo dice lei: la Dia decolla il 1° ottobre, con mille uomini delle tre polizie…»
Ma senza i Ros dei carabinieri, senza gli Sco della polizia… «Non è così: ci saranno dei rappresentanti di tutti questi gruppi, compresi i Gico della Finanza».
E così avremo la quarta polizia. «Beh! Ma quante ne volete? O protestate perché la Dia non parte, o perché diventerebbe la quarta polizia».
E la verità qua! è? «La verità è che non sarà una quarta polizia ma un corpo investigativo specializzato. E ogni polizia manterrà il suo nucleo anticrimine, visto che non esiste soltanto la mafia».
Lei considera questo governo in grado di condurre una lotta così impegnativa? «Mi sembra che sia quel che stiamo facendo». Ma le forze politiche che lo sostengono vengono delegittimate giorno dopo giorno. «Questo è un altro paio di maniche. Siamo nella crisi in cui siamo, ma questo non indebolisce la lotta anticrimine».
Non crede che anche lo strapotere criminale sia il frutto dello spappolamento politico e della crisi di credibilità? «Io credo in una buona e forte amministrazione che funzioni bene e che sappia agire indipendentemente dal governo politico. Secondo me il difetto sta tutto lì, e molto meno nelle istituzioni. Invece c’è questa illusione, che tutto si risolva passando, per esempio, al sistema unico uninominale. Col risultato che ogni politico pensa ormai soltanto a se stesso, come se già fossimo in un Paese riformato in quel senso».
Lei vede rischi per questa democrazia? «Sì, ne vedo. Ma non perché veda complotti, o la minaccia dell’uomo forte che non c’è. Vedo che le forze che nella guerra fredda rappresentavano lo schieramento che ha vinto, sono in crisi di indentità più ancora degli ex comunisti. C’è una furia, una voglia di emancipazione dai partiti che andava valutata e capita».
Il suo predecessore Scotti aveva formato una sorta di coppia operativa con il ministro Martelli. Si è riformata la coppia? «Io e Martelli andiamo abbastanza d’accordo..» Abbastanza? «Siamo diversi nell’approccio, talvolta, ma cerchiamo gli stessi risultati. Ed è quel che conta».
Nella sua lotta contro la mafia qual è l’osso più duro? «Le banche. Specialmente quelle dell’Europa centrale. Resistono tenacemente alla collaborazione, anche se non si rifiutano, perché sono ancora del parere che il denaro non puzza, pecunia non olet. Invece olet e come. Se accettano oggi il denaro maleodorante, domani dovranno accettare anche il crimine in casa. E’ dura da fargliela capire». Qual è la carta vincente? «La legislazione che abbiamo messo a punto ai tempi del terrorismo: leggi differenziate fra criminali comuni e criminali speciali, ieri i terroristi e oggi i mafiosi. Ma più di tutto la collaborazione, dei cittadini».
Vuole spiegare perché i servizi segreti finora non sono stati in grado di distruggere la mafia? «Perché si sono dedicati sempre al terrorismo».
momento più duro della sua vita da ministro? «Quello in cui mi sono trovato di fronte al corpo accartocciato, carbonizzato, devastato della povera ragazza Loi, uccisa con Borsellino».
Lei fu insultato in piazza e attaccato in Parlamento. «Sì, da Ayala, da Occhetto, da Pannella… Ero ministro da tre settimane e a Palermo mi gridavano “via Mancino, vattene…”. Ma noi avellinesi siamo gente di montagna, taciturni, testardi. Non che le cose non ci feriscano, ma non ci lasciamo davvero abbattere».
Auguri, ministro e cento di questi arresti. «Grazie, ne ho bisogno». Paolo Guzzanti LA STAMPA