I due Maurizi
“… spingere l’attenzione su quel rapporto al riguardo della strage di via D’Amelio è come evocare la “pista palestinese” per la strage alla stazione di Bologna: semplicemente un modo per allontanarsi dalla verità.”
“anziché abbandonarsi a fantasie e sproloqui, i sostenitori dell’intenzione asserita di Paolo Borsellino di dedicarsi alle indagini sul “rapporto mafia-appalti” dovrebbero non dico spiegare ma anche solo ipotizzare come almeno Riina e Graviano ne ebbero eventualmente notizia, tanto da indursi a procedere immantinente all’uccisione del magistrato.”
di Fabio Repici 20
Adesso perfino i più disponibili al dogma di fede non hanno più appigli ai quali attaccarsi. Ora che anche Maurizio Avola e Maurizio Gasparri hanno ufficializzato con trasporto la loro adesione alla “pista palestinese sulla strage di via D’Amelio”, cioè alla balzana teoria, estranea ai radar di qualunque processo, secondo cui Paolo Borsellinosarebbe stato ucciso (o la sua progettata uccisione avrebbe avuto in ultimo una accelerazione) per impedirgli di indagare sul mitico (per non dire mitologico; per non dire famigerato) “rapporto mafia-appalti” dei carabinieri del Ros, ecco ora abbiamo la certificazione definitiva che, a esser buoni, la “pista palestinese sulla strage di via D’Amelio” è una bufala, e pure di dimensioni significative.
Maurizio Avola, il pentito catanese – arrivato, dopo trent’anni dall’inizio della prima, alla sua terza o quarta vita da collaboratore di giustizia – si è esibito, non propriamente al meglio della forma, il 25 e il 26 giugno scorsi, rendendo esame davanti al Gip di Caltanissetta in incidente probatorio e quindi nel contraddittorio fra le parti. E, lì, ha aggiunto il suo obolo dichiarativo alla causa. Infatti, in una sorta di siparietto dadaista, all’improvviso, quasi con nonchalance (quasi: il copione era difficile da recitare e Avola non è propriamente Vittorio Gassman), si è lasciato andare alla rivelazione: «Sinceramente l’ho capito ora che lui [Paolo Borsellino, nda] aveva capito. Perché? Sono uscite delle dichiarazioni un mese fa, non lo so, e io la prima cosa che gli ho detto al mio avvocato [Ugo Colonna, nda], ci dissi: “sta dicendo la verità”. Ora mi sembra che l’avvocato è qui [indicando l’avvocato Fabio Trizzino, presente in aula, nda], aveva fatto delle dichiarazioni sul dottore Borsellino, dove diceva che appalti, cose, aveva scoperto cose». Avola ha aggiunto di aver appreso dal mafioso catanese Marcello D’Agata che Borsellino, dopo la strage di Capaci, nelle sue indagini «stava imboccando all’epoca strade su Roma, appalti, magistra… imprenditori e tutte ‘ste cose» e che «gli appalti c’entrano», per poi concludere allusivo: «Diciamo che quando si parla di accelerazione…».
Sull’intero esame reso da Avola (la cui ricostruzione appare perfetta per demolire le rivelazioni di Gaspare Spatuzza, Fabio Tranchina e di tanti altri collaboratori di giustizia palermitani, convalidate con sentenza irrevocabile nel processo “Borsellino Quater”) e su cosa ci sia dietro ci sarebbe tanto altro da dire, ma sarà il caso di riferirne, di nuovo, in sede istituzionale prima di farne oggetto di dibattito pubblico.
Fatto è che Avola e i suoi danti causa, consapevolmente o meno, hanno rilanciato la “pista palestinese” (la strage di via D’Amelio fatta o accelerata per impedire a Borsellino di investigare col Ros su “mafia-appalti”) pochi giorni prima della notizia dell’indagine a carico dell’ex magistratoGioacchino Natoli e, poi, dell’ex magistrato Giuseppe Pignatone, entrambi nel 1992 in servizio alla Procura di Palermo e oggi indagati (insieme al generale Screpanti della Guardia di Finanza) per favoreggiamento aggravato.
E qui, come fosse un John Belushi redivivo, è entrato in gioco il secondo Maurizio, ovvero il senatore Gasparri. Che, esponente del partito fondato da un piduista e da un mafioso, sull’indagine riguardante Natoli e Pignatone si è prodotto in una dichiarazione non propriamente turbogarantista: «Inquietante ma non sorprendente la notizia che giunge da Caltanissetta su Pignatone, che sarebbe indagato addirittura, secondo quanto dicono alcuni siti, per favoreggiamento ai boss. Chi ha letto le carte storiche delle inchieste [quindi non lui, nda] sa benissimo come stanno le cose. Chi ha studiato l’inchiesta mafia-appalti sa quali sono i collegamenti e le parentele».
L’evocazione molto più che obliqua di imprecisate parentele al riguardo di Pignatone ha destato sconcerto ma non sorpresa. Anzi, ha dimostrato che l’ulteriore rilancio della “pista palestinese su via D’Amelio” è il sequel di quanto si era percepito alcuni anni fa prima in un processo del Tribunale di Avezzano che ha visto i giornalisti Piero Sansonetti e Damiano Aliprandi condannati per diffamazione (proprio in relazione alle loro teorie su “mafia-appalti”) ai danni degli ex magistrati palermitani Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte e poi nel processo a Caltanissetta a carico di tre poliziotti del gruppo investigativo Falcone-Borsellino al tempo guidato dal difficilmente dimenticabile Arnaldo La Barbera.
Nel primo processo, ora in attesa del giudizio di appello, i due imputati sono stati assistiti dall’avvocato Fabio Trizzino (insieme all’avvocata Simona Giannetti), mentre Scarpinato e Lo Forte, parti civili, sono stati assistiti dall’avvocato Ettore Zanoni. Per pura curiosità, sul sito web di Radio Radicale alla data odierna, nella pagina relativa all’udienza finale del giudizio di primo grado, l’avvocato Trizzino, anziché essere qualificato come difensore degli imputati, viene citato come «avvocato, parte civile famiglia Borsellino». La quale “famiglia Borsellino” (in tutte le sue possibili significazioni), come è evidente a tutti, è del tutto estranea a quel processo. Ma in quel processo l’avvocato Trizzino tirò fuori la vicenda relativa a una indagine su interessi imprenditoriali palermitani nelle cave di marmo che nel 1991 era pendente alla Procura della Repubblica di Massa, curata dal pubblico ministero Augusto Lama, dal quale partì una segnalazione alla Procura della Repubblica di Palermo al riguardo dei mafiosi palermitani Bonura e Buscemi e dei loro legami imprenditoriali con Raul Gardini e altri manager del gruppo Ferruzzi. Segnalazione della Procura di Lucca dalla quale partì autonoma indagine della Procura di Palermo affidata nel 1991 a Gioacchino Natoli e la cui gestione è oggetto dell’odierna inchiesta commentata, come sopra, dal senatore Gasparri.Nel processo nisseno sul cosiddetto depistaggio su via D’Amelio (uno dei tanti depistaggi, taluno ancora in corso), invece, l’avvocato Trizzino mostrò attenzione per l’indagine palermitana della quale fu titolare Natoli e in qualche modo interessato Pignatone allorché esaminò come testimoni lo stesso Pignatone, Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, il 26 novembre 2021.
In quell’occasione, sia l’avvocato Trizzino che il pubblico ministero Luciani (oggi non più a Caltanissetta) rivolsero domande ai tre testimoni, oltre che sul rapporto “mafia-appalti” e sull’indagine Sirap, su quel fascicolo iscritto a Palermo nel 1991 e archiviato dal pm Natoli nel 1992. A proposito della società Sirap, Trizzino aveva chiesto a Pignatone: «Questa società era stata … era controllata da … da un’altra … da due società, la Espi e la Fime, chi era il presidente della Espi?».
La risposta di Pignatone era stata ovvia, per chi conosceva i fatti, e diretta: «sì, era mio padre». E qui Trizzino aveva virato su una evenienza che, anche se vera, dalle informative del Ros dell’epoca ufficialmente non risultava: «lei ricorda se il colonnello … il capitano De Donno ebbe a informarla che nel corso di una conversazione intercettata veniva citato suo padre?».
Ecco spiegata l’esternazione sulle «parentele», ambigua ma quasi esplicitamente minacciosa, da parte di Gasparri, che quindi a quasi tre anni di distanza ha ripreso le “curiosità” dell’avvocato Trizzino, che evocavano un comportamento potenzialmente allusivo e minaccioso da parte del capitano De Donno al tempo delle indagini su “mafia-appalti”.
Infatti, un ufficiale di polizia giudiziaria che rinviene nelle indagini qualcosa di rilevante ha l’obbligo di segnalarlo per iscritto. Mentre sussurrare a voce a un pubblico ministero che in qualche conversazione intercettata si parla del padre del magistrato, se non deve ritenersi che fosse una confidenza amicale, induce a pensare a un avvertimento non esattamente affettuoso.Peraltro, in anni successivi, allorché gli ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu furono imputati di favoreggiamento per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, il dottor Pignatone rese una testimonianza non certo contraria agli interessi degli imputati e, anzi, in contrasto con l’impostazione dell’accusa, smentendo in parte le dichiarazioni del colonnello Michele Riccio. Il conflitto testimoniale Pignatone-Riccio portò erroneamente il Tribunale di Palermo a prediligere la tesi del magistrato testimone, anche perché distrattamente non si notò che la versione di Riccio trovava conferme in documenti aventi data certa e insuperabile.Per questo l’assalto, ora per allora, di questi tempi al dottor Pignatone desta considerevole sorpresa.
Non che egli non possa essere sottoposto a critiche per tante vicende delle sue esperienze prima alla Procura di Palermo e infine alla Procura di Roma. Ma la rabbiosità dell’assalto improvviso di oggi è davvero fuori dal normale. Peraltro, quella eventuale iniziativa di De Donno al tempo (con tutti i retropensieri ai quali poteva dar luogo la circostanza), oggetto della curiosità processuale dell’avvocato Trizzino nel 2021 e del senatore Gasparri oggi, confligge con l’assenza – nel rapporto del Ros di febbraio 1991, nel rapporto del Ros di settembre 1992 e nelle dichiarazioni pubbliche e non di De Donno e Mori di qualche decennio – perfino del nome di Francesco Pignatone, presidente dell’Espi nel 1992 e padre del magistrato Giuseppe.
Evidentemente per il Ros all’epoca quel nome, fatta eccezione per l’eventuale sussurro del capitano De Donno al dottor Pignatone già visto, non era meritevole di alcuna attenzione investigativa.
Cosicché a maggior ragione non se ne comprende il soprassalto di interesse oltre trent’anni dopo e pure la manifestazione di stupore di tanti, evidentemente digiuni di risultanze procedimentali e investigative.
Infatti, se i carabinieri del Ros mai avevano mostrato interesse investigativo per il nome di Francesco Pignatone, quel nome, a leggere la richiesta di archiviazione della Procura di Caltanissetta del 9 giugno 2003 (sulle stragi di Capaci e via D’Amelio), era emerso da un interrogatorio reso anni prima da Giovanni Brusca al pm Di Matteo, lì riportato: «Allora, io, come lavori grossi, sono io che vengo a conoscenza del… dell’ente “Sirap” e che tramite l’onorevole Lima riesco a fare finanziare e… li porto a bordo, a che prima non ci credeva nessuno, a che tutti… tutti ci vengono l’acquolina in bocca, perché i lavori “Sirap” non sono lavori da 2, 3, 4 miliardi, ma bensì sono lavori da 30, 40, 50 e con la prospettiva di un grosso… un grosso business nel futuro. Ma inizialmente sono quattro i lavori, poi ne vengono finanziati altri due, poi altri due, era una cosa a lungo andare. A un dato punto, quando questi lavori cominciano a spuntare, spunta l’interesse sia di Cosa Nostra, alcuni uomini, ma spunta anche l’interesse di Nicolo… cioè di Nicolosi, l’interesse di Salamone, che prima, quando ha visto finanziati questi lavori, ha cercato di ostacolarmi, cioè di ostacolarci, tramite l’onorevole Nicolosi, tant’è vero che io lo mandai a minacciare, una volta sola, no due volte per come qualcuno racconta, una sola volta. Quando io lo mandai a minacciare, dicendo che fino ad ora noi non l’abbiamo mai disturbato e questo è stato Giovanni Brusca, non è stato nessuno, lo mandai a minacciare dicendogli che fino ad ora nessuno lo aveva disturbato, che gentilmente mi lasci stare, che io non voglio essere disturbato. Con chi ci strumentalizzava? Ci strumentalizzava con i suoi uomini all’interno della Regione, uno che si chiama Pignatone, uno dei funzionari ed altri, per… ci contrastava l’iter burocratico».
E poi ci sarebbe l’informativa del Gico della Guardia di Finanza di Firenze del 3 aprile 1996, nella quale, a proposito di Francesco Pignatone, si riferiva di suoi contatti negli anni 1992-93 con personaggi molto più che vicini al mafioso barcellonese Rosario Cattafi.
Ma, appunto, essendo queste circostanze risalenti nel tempo e note da decenni, appare inspiegabile la beata meraviglia di oggi e l’ardore del senatore Gasparri e di altri.
Sembra quasi che oggi lo scalpo di Giuseppe Pignatone sia bramato per fini inconfessati ed estranei alla logica della storia. Sul punto, però, si potrebbe solo congetturare.
Quel che invece può senz’altro dirsi è che le intricate vicende del famigerato “rapporto mafia-appalti” e l’indagine di cui fu titolareGioacchino Natoli non c’entrano nulla con la strage di via D’Amelio. Anzi, può dirsi che il modo in cui certuni cercano di accostare quelle questioni all’uccisione di Paolo Borsellino è un ulteriore ammorbamento dell’aria nei difficili sforzi di ricerca di ulteriori tasselli di verità sulla strage di via D’Amelio.
Su quel delitto, com’è noto, ci sono alcune sentenze irrevocabili, la più importante delle quali è quella emessa il 20 aprile 2017 dalla Corte d’Assise di Caltanissetta presieduta dal dottor Antonio Balsamo, che ha certificato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», quello rappresentato dalle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e smontato grazie alla collaborazione con la giustizia di Gaspare Spatuzza. Si è potuto fare luce sulla catena esecutiva interna a Cosa Nostra, con il ruolo decisivo di Giuseppe Graviano e del gruppo di Brancaccio e Corso dei Mille alle sue direttive.
Ora, rispetto a quanto accertato nel processo Borsellino quater e in tutti gli altri processi, non è mai emerso nemmeno il più lasco collegamento fra i mafiosi Buscemi e Bonura (o altri della famiglia di Passo di Rigano), cioè quelli interessati al “rapporto mafia-appalti” e legati al gruppo Ferruzzi Gardini, e la squadra che, sotto la supervisione di Giuseppe Graviano, per conto di Cosa Nostra ha realizzato la strage di via D’Amelio.
Certo, Salvatore Buscemi, capo mandamento di Passo di Rigano, come il suo vice Michelangelo La Barbera, è stato condannato nel processo Borsellino ter, con sentenza emessa nel giudizio di rinvio dalla Corte d’Assise di appello di Catania. Ma – basta leggere quella sentenza – ciò è avvenuto per aver egli assecondato, dal carcere e tramite il suo sostituto, nel periodo fra novembre 1991 e marzo 1992, la decisione della Commissione provinciale di procedere alla uccisione dei nemici storici di Cosa Nostra, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e degli amici non più utili, come Salvo Lima e altri.
Ma, a parte questo, nel processo Borsellino quater e in qualunque altro non esiste traccia di alcun contatto fra Giuseppe Graviano, da una parte, e i fratelli Buscemi e Francesco Bonura, dall’altra, nel periodo intercorrente fra la deliberazione e la fase esecutiva della strage (con l’intervenuta accelerazione nella realizzazione della stessa). E questo porta già da solo a escludere qualunque incidenza fra le vicende che interessarono i Buscemi e Bonura e la strage di via D’Amelio.
Del resto, anziché abbandonarsi a fantasie e sproloqui, i sostenitori dell’intenzione asserita di Paolo Borsellino di dedicarsi alle indagini sul “rapporto mafia-appalti” dovrebbero non dico spiegare ma anche solo ipotizzare come almeno Riina e Graviano ne ebbero eventualmente notizia, tanto da indursi a procedere immantinente all’uccisione del magistrato. Secondo i corifei di Mori e De Donno, Borsellino il 25 giugno 1992 li avrebbe incontrati in gran segreto per comunicare solo a loro questa sua premura investigativa. Ora, le uniche persone a conoscenza di quell’incontro furono il magistrato ucciso di lì a poco, i due ufficiali del Ros e l’allora maresciallo Carmelo Canale, principale collaboratore di Borsellino. Chi sarebbe stata la talpa? Mistero. Senza tacere due cose.
La prima: secondo Carmelo Canale quell’incontro fu voluto da Borsellino non perché interessato al “dossier mafia-appalti” ma perché interessato al clamoroso documento anonimo del cosiddetto “Corvo bis” di pochi giorni prima, autore del quale era sospettato essere proprio il capitano De Donno. La seconda: fosse stato vero che Borsellino volle incontrare Mori e De Donno per concordare con loro segretissime indagini sul “rapporto mafia-appalti” e a questo si dovrebbe la strage di via D’Amelio, il silenzio che su quella vicenda fu serbato da Mori e De Donno (che erano due alti ufficiali del Ros peraltro nell’esercizio delle funzioni, non certo due soci del dopolavoro ferroviario) per oltre cinque anni si tradurrebbe in gravi reati: come minimo omessa denuncia e favoreggiamento. Si sa, infatti, che di quell’incontro del 25 giugno 1992 e dei conflitti con i pubblici ministeri di Palermo per il “rapporto mafia-appalti” essi iniziarono a parlare solo dall’ottobre 1997. Per l’esattezza dopo che il 13 ottobre 1997 il capitano De Donno fu letteralmente torchiato dai pm Michele Prestipino Giarritta e Maurizio De Lucia (non esattamente due magistrati complottisti-trattativisti) al riguardo delle rivelazioni rese poco prima dal neo collaboratore di giustizia Angelo Siino sulle fughe di notizie sul “rapporto mafia-appalti” attribuite a uomini del Ros. Si trattò, dunque, di un riverbero di memoria per esigenze difensive proprie, a tutela delle quali De Donno si rivolse all’allora Procuratore della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra.
Il battage propagandistico sull’indagine in corso a Caltanissetta a carico di Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone ha, però, prodotto inattese faglie nel fronte compatto che per anni ha fatto da tifoseria più che accanita in favore di Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. È così accaduto che l’emerito professor Fiandaca, lasciatosi andare a commenti critici su quest’ultima indagine della Procura nissena, sia incappato in un furioso cazziatone riservatogli dal giornalista Damiano Aliprandi, quello stesso che ad Avezzano in primo grado, assistito dall’avvocato Trizzino, è stato condannato per diffamazione su “mafia-appalti” ai danni di Scarpinato e Lo Forte.
Nell’occasione, Aliprandi, dismessi anche lui i panni da turbogarantista, ha indossato foggia da sacro inquisitore contro i magistrati un tempo alla Procura di Palermo. Cosicché si è ricevuta una lezione su certo turbogarantismo all’italiana: vale sempre per gli amici e per gli imputati potenti; un po’ meno quando non ci si trovi davanti a indagati amici oppure quando gli indagati o imputati siano carne da macello.
Ora, sull’attuale operato della Procura di Caltanissetta è bene essere chiari. È giusto che quei pubblici ministeri procedano, come stanno facendo, a ogni sforzo per cercare di acquisire ulteriori frammenti di verità sulla strage di via D’Amelio. Quindi, sarebbe ingeneroso muovere critiche per l’avvio di una indagine (quest’ultima a carico di Natoli e Pignatone) che, seppure nella contestazione non c’entri nulla con l’uccisione di Borsellino, tutti sanno che è nata dalle sollecitazioni non proprio soft a loro rivolte da più parti. E pazienza se le contestazioni, che obiettivamente appaiono davvero inverosimili, siano nate da interpretazioni un po’ forzate di conversazioni intercettate. Si sa che gli stessi pubblici ministeri nisseni, che si sono pronunciati, correttissimamente, per la falsità delle ultime dichiarazioni del fantapentito Maurizio Avola, in relazione al procedimento nato dalle balle di Avola sono stati denunciati. Cosicché è ben comprensibile come essi tutto vogliano dare mostra di fare tranne che sottovalutare perfino la “pista palestinese” sulla strage di via D’Amelio. E questo anche se loro per primi sanno che l’indagine a carico di Natoli e Pignatone, che mai potrebbe avere alcuno sviluppo per quanto è infondata, a maggior ragione troverebbe un ostacolo insormontabile nella prescrizione.
Sapendo i pubblici ministeri, cosa che pare sfuggita all’emerito professor Fiandaca, che, tanto più alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 41 dell’11 marzo 2024, la prescrizione non potrà mai essere oggetto di rinuncia da parte degli ex magistrati indagati.
Piuttosto, coloro che, pasolinianamente, vogliano mettere «insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico», per ristabilire «la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero», è bene dedichino il loro sguardo non alle attività in corso da parte dei pubblici ministeri (salvo permetterci soltanto di chiedere ogni sforzo possibile sulla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, crimine che non è il pallino intimista di Salvatore Borsellino ma il più grosso vulnus che accompagna la cosiddetta seconda repubblica dalla sua genesi) ma alle mosse degli agit prop che ammorbano il dibattito pubblico.
E quindi vengo a Maurizio Gasparri. Se ha sorpreso (forse) il suo assalto all’arma bianca contro il dottor Pignatone, nessuno può essersi sorpreso per il fatto che egli abbia brandito come una clava la “pista palestinese” o che egli inneggi a Mario Mori e Giuseppe De Donno come a degli eroi della sua repubblica (confesso: evidentemente diversa dalla mia). Tanto meno può sorprendersene chi ha memoria di certe intercettazioni del procedimento sulla trattativa Stato-mafia. Correvano i primi mesi dell’anno 2012.
Fra le altre, furono intercettate conversazioni fra Mori e De Donno. E qui già risultò evidente una cosa: i due ufficiali, anche parlando di Borsellino e della strage di via D’Amelio, mai fra loro evocarono l’incontro del 25 giugno 1992 col magistrato poi ucciso né citarono in alcun modo il “rapporto mafia-appalti”. Non lo citarono né in relazione al supposto interesse di Borsellino per quel documento né quale fattore causale della strage di via D’Amelio. E qualcosa questo vorrà pur dire.
Poi, ad aprile 2012, furono intercettate alcune conversazioni fra De Donno e un magistrato, Paolo Mancuso, autentica “toga rossa”, storico esponente di Magistratura Democratica. Una prima volta De Donno chiamò Mancuso per chiedergli di partecipare alla presentazione di un libro del generale Mori (“Ad alto rischio”, scritto con Giovanni Fasanella) insieme a Emanuele Macaluso, Marco Minniti e Marcello Pera o Maurizio Gasparri. Il magistrato, però, gli segnalò l’inopportunità del momento, per una sua partecipazione a una iniziativa del genere, trovando la piena comprensione di De Donno: «Detto fra me e voi è meglio che fate il Procuratore a Napoli, piuttosto che andare a fare la presentazione del libro». Infatti in quel momento Mancuso era in lizza al CSM per la nomina quale capo della Procura di Napoli. Ed ecco che il 12 aprile di quell’anno Mancuso telefonò a De Donno per chiedergli una «chiacchierata … con Maurizio», intendendo proprio Gasparri, perché al CSM era presente in quel momento un ex presidente della Corte Costituzionale, che «è molto vicino a lui». Solerte, De Donno contattò subito il generale Mori, invocandone l’intervento in modo esplicito: «la disturbavo per una cosa molto semplice, mi ha chiamato il dottor Mancuso … Mi diceva che in questo momento, siamo un po’ praticamente giunti alle battute finali … e una persona che potrebbe rivelarsi determinante in questa situazione è una persona che in Consiglio è molto vicina a Gasparri … che ancora diciamo è uno che probabilmente ha qualche riserva su di lui, anche se, diciamo così, ormai lui già è in pole position … chiedeva». Mori comprese fulmineamente e subito si rese disponibile: «senta un po’ … facciamo in tempo lunedì? … E allora magari ci sentiamo, così mi spiega tutto, il nome, tutto quanto e facciamo una puntata sull’uomo». Gli investigatori chiosarono puntigliosamente anche un messaggio di De Donno a Mori sullo stesso tema: «si precisa che sulla scorta del contenuto delle telefonate intercettate … le lettere “M.G.” riportate nel sms corrispondono alle iniziali del Senatore del P.D.L. Maurizio Gasparri, mentre il “Marini” si identifica per Marini Annibale … attuale membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura, già Presidente della Corte Costituzionale». Il testo del messaggio era in realtà ben comprensibile: «Occorre x mercoledì passaggio di M G sul suo rappresentante in CSM Marini. Si combatte sul singolo voto. Si può fare?».
Ora, magari quelle di De Donno e Mori furono mere millanterie, delle quali fu vittima il magistrato Paolo Mancuso, che tuttavia l’intervento di De Donno e Mori aveva effettivamente richiesto attribuendo loro la possibilità di intercedere su Maurizio Gasparri. Dodici anni dopo, è Maurizio Gasparri a intervenire con grande trasporto nell’opera di “santificazione” degli ufficiali del Ros, imputati e infine assolti nel processo sulla trattativa Stato-mafia.
A leggere oggi quelle intercettazioni si capiscono tante cose. Prima di tutto si capisce che l’ira furente di certa destra contro alcuni magistrati identificati come “toghe rosse” va intesa in modo oculato, Per Gasparri et similia magistrati come Antonino Di Matteo o Roberto Scarpinato (ora senatore) non sono “toghe rosse” per ideologia sinistrorsa, ma perché magistrati inclini a svolgere la loro attività in indagini e processi senza compiacenze ossequiose per indagati e imputati potenti. In secondo luogo si capisce che l’attuale tentativo di riscrivere la storia, anche intorno alla strage di via D’Amelio, ha radici antiche e molto ramificate. E quindi quanto più si appalesa infondata la “pista palestinese” sulla strage di via D’Amelio, ossia la teoria che riconduce l’uccisione di Paolo Borsellino all’obiettivo di impedirgli di prendere in mano le indagini sul “rapporto mafia-appalti”, tanto più i tanti Maurizi vi insisteranno con dedizione irrefrenabile.
E questo anche se i dati obiettivi della storia imporrebbero di indirizzare l’impegno per la ricerca della verità in tutt’altra direzione.
I Graviano non avevano legami e cointeressenze con i Buscemi, Bonura o il gruppo Ferruzzi-Gardini. Semmai, secondo Spatuzza li avevano con Berlusconi e Dell’Utri e secondo Nino Giuffré erano subentrati alla famiglia Madonia nella gestione dei rapporti con esponenti di apparati di polizia e servizi segreti.
L’investigatore che Paolo Borsellino ambiva avere al suo fianco non era del Ros, ma il vicequestore della Polizia di Stato Rino Germanà. Proprio il funzionario di polizia che sfuggì a un clamoroso attentato compiuto a settembre 1992 a Mazara del Vallo dai boss Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro, cioè i tre capimafia più attivi nel progetto politico di Sicilia Libera, prima di abbracciare le sorti di Forza Italia. E Germanà fu proprio quell’investigatore che destò la reazione dell’allora vicecapo della polizia Luigi Rossi, allorché depositò una informativa sui legami fra mafia e massoneria in relazione al tentato aggiustamento del processo sull’omicidio del capitano Basile. Quell’informativa era stata destinata ai magistrati Alessandra Camassa e Massimo Russo, proprio i due allievi ai quali, probabilmente in relazione all’oggetto delle indagini affidate a Germanà, Paolo Borsellino nella seconda metà di giugno 1992 parlò dell’«amico che lo aveva tradito» e del palazzo di giustizia di Palermo come nido di vipere.
Nelle carte repertate dopo la strage di via D’Amelio a casa di Paolo Borsellino e nel suo ufficio non c’era il “rapporto mafia-appalti”. Segno, anche questo, che quel rapporto non era esattamente il pallino del magistrato nell’imminenza della sua uccisione. D’altro canto, il giornalista Gianluca Di Feo, che incontrò Borsellino a casa nella prima mattina del 30 giugno 1992, ha dichiarato, anche di recente, che il magistrato palermitano, parlando di riciclaggio dei denari mafiosi, gli fece il nome di Silvio Berlusconi, non quello di Gardini o di altri collegati al “rapporto mafia-appalti”.
Per questo spingere l’attenzione su quel rapporto al riguardo della strage di via D’Amelio è come evocare la “pista palestinese” per la strage alla stazione di Bologna: semplicemente un modo per allontanarsi dalla verità.
D’altro canto, c’è una circostanza così plateale che non si comprende come sfugga ai più. Ma se Mori e De Donno furono davvero i testimoni privilegiati dell’interesse di Borsellino per il “rapporto mafia-appalti”, come mai nessuno ha preteso che, oltre a divulgare a piacimento racconti di propaganda in libri e dichiarazioni spontanee senza contraddittorio, i due ex ufficiali del Ros testimoniassero davanti alla Commissione antimafia e alla Procura di Caltanissetta, sottoponendosi a domande non di comodo?
Forse perché, se la memoria tardiva di Mori e De Donno su quella storia fu azionata da banali interessi difensivi, il tentativo odierno di riscrittura della storia con la strumentalizzazione della vacua “pista palestinese” per qualcuno è affare parecchio meno bagatellare: raggiungere definitivamente l’oblio sui concorrenti esterni alle stragi di mafia. In fondo, l’obiettivo da sempre, fin dall’indottrinamento del pupo Scarantino, di ogni depistaggio.