20.4.1996 ARCHIVIO 🟧 Riina ordinò: uccidete i bambini

 
«Voleva sterminare le famiglie dei pentiti» assassino spietato, che voleva ammazzare i bambini dai sei anni in su; Riina sempre informato di ciò che avveniva «nello Stato»; Riina che dopo l’assassinio di Giovanni Falcone rassicura i picciotti e dice: «La responsabilità è mia». Salvatore Cancemi, già capomandamento della famiglia mafiosa di Porta Nuova, dipinge così il «boss dei boss», il dittatore di Cosa Nostra.
E lui, Riina, a pochi metri di distanza, ascolta impassibile le accuse lanciate dal pentito che – racconta – si consegnò ai carabinieri per salvarsi la vita.
Al processo per la strage di Capaci è il turno delle rivelazioni di Cancemi, il quale ipotizza scenari inquietanti sulla morte del giudice Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, degli uomini della scorta. Prima dell’attentato – racconta il pentito – Riina incontrò «persone importanti» esterne all’organizzazione.
Glielo disse un altro «uomo d’onore», Raffele Ganci, che partecipò con lui alle riunioni in cui venne decisa la strage.
«Ganci mi disse che zio Totuccio si era incontrato con persone importanti. Evidentemente persone esterne a Cosa Nostra, dato che Riina era la più importante nell’organizzazione».
Nell’aula-bunker di Rebibbia, Cancemi spiega le ragioni del suo «pentimento»: «Io ho deciso di abbandonare Cosa Nostra, quando ho sentito dire da Totò Riina di voler sterminare le famiglie dei pentiti fino alla ventesima generazione, a cominciare dai bambini di sei anni. Disse proprio così, che quando compivano sei anni si dovevano ammazzare».
Già un altro pentito, Gioacchino La Barbera, raccontò che a Riina non importava di uccidere i bambini, e diceva: «A Sarajevo ne muoiono tanti, perché noi ci dobbiamo preoccupare?».
Allora il boss non replicò alle dichiarazioni di La Barbera; oggi, dopo aver sentito Cancemi, dalla sua gabbia commenta: «Sono solo pazzie dette da lui».
Ma Salvatore Cancemi, protetto dal solito paravento e da un nugolo di carabinieri che lo circonda in ogni spostamento, continua coi suoi racconti sul funzionamento della Cosa Nostra di Riina.
«Lui aveva i suoi informatori nello Stato – dice -, e a volte per giustificare una serie di misure di sicurezza. «Cioè?», chiede il pubblico ministero. «Cioè movimenti di polizia e carabinieri», risponde il pentito.
Soffiate sulle operazioni delle forze dell’ordine, insomma. E le «talpe» non avvertivano solo Riina, ma a volte anche lui. «Nell’ottobre del ’92 – dice Cancemi – ho saputo da una persona del tribunale, ma non posso dire di più perché sono in corso indagini, che erano pronti i mandati di cattura per l’omicidio di Salvo Lima».
Pochi giorni prima dell’assassinio dell’europarlamentare racconta ancora il pentito, Riina disse: «Ci dobbiamo rompere le corna a questo Lima».
E il 12 marzo 1992 il «fedelissimo» di Andreotti venne ucciso dai killer mafiosi. Fu la risposta del boss alla sentenza della Cassazione che confermò l’impianto del maxi processo voluto da Giovanni Falcone. E che portò, due mesi dopo, alla strage di Capaci. «Falcone – dice Cancemi – doveva morire per l’esito del maxi processo e perché, insieme al ministro della Giustizia Martelli, era intervenuto per evitare che Carnevale si occupasse del processo in Cassazione».
Non è la prima volta che il pentito fa il nome del giudice soprannominato «ammazzasentenze», e adesso aggiunge: «In seguito abbiamo saputo che Carnevale aveva fatto sapere a Riina di provare a far arrivare il processo alle sezioni unite della Cassazione, dove lui avrebbe avuto la possibilità di partecipare».
Qualche giorno prima della strage di Capaci, Cancemi vide i bidoni pronti con l’esplosivo. Ma quando il tritolo fu sistemato sotto l’autostrada – a differenza di quanto ha raccontato l’altro pentito Di Matteo – lui non c’era.
Falcone e le altre vittime saltarono in aria il 23 maggio ’92. Perché proprio quel giorno? «Secondo me perché era un momento delicato per il Paese – risponde Cancemi -, e per dare una botta ad Andreotti.
Per Cosa Nostra Lima e Andreotti erano la stessa cosa». Dopo la strage ci fu l’ormai famoso brindisi tra gli «uomini d’onore», ma qualcuno si disse preoccupato per la possibile reazione dello Stato. Riina lo tranquillizzò: «Faluzzo, la responsabilità di questa cosa è mia. E’ meglio che sia andata così, e vai a comprare una bottiglia di champagne». Giovanni Bianconi  LA STAMPA
 

TOTÒ RIINA, la belva