Ieri pomeriggio, la Commissione Parlamentare Antimafia ha ospitato la dirompente audizione di Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino (fratello di Paolo Borsellino e fondatore del Movimento delle Agende Rosse), coda di un primo appuntamento andato in scena lo scorso 18 ottobre. Il legale dell’attivista, riallineando le scottanti vicende collegate alla morte del magistrato Paolo Borsellino, ucciso il 19 luglio 1992 in via D’Amelio, ha apertamente contestato le ricostruzioni effettuate nella medesima sede dal legale dei figli del giudice, Fabio Trizzino. Quest’ultimo, nelle scorse settimane, aveva voluto sgombrare il campo dalle riflessioni sulle presunte compartecipazioni esterne a Cosa Nostra di apparati deviati delle istituzioni negli attentati e sull’incidenza che la “Trattativa Stato-mafia”, inaugurata dal Ros dei Carabinieri tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, potrebbe aver avuto dietro l’omicidio Borsellino. Secondo Trizzino, infatti, il movente del delitto perpetrato il 19 luglio 1992 sarebbe l’interessamento mostrato da Borsellino verso il rapporto “mafia-appalti”, partorito dallo stesso Ros, poco prima della sua morte. Nel corso dell’audizione, Repici ha provveduto a dimostrare le numerose contraddizioni interne a tale ricostruzione, fornendo preziosi spunti sulle modalità con cui vennero effettuati gli attentati nella cornice del “biennio nero”, sui colpevoli ritardi di cui si sarebbe resa partecipe negli anni la procura di Caltanissetta, deputata a indagare sull’eccidio, e sulle contraddizioni che avrebbero caratterizzato le tesi attraverso cui i Ros hanno pubblicamente difeso la loro azione.
Le “ombre” nere e istituzionali
Già nel corso della precedente sessione, Repici aveva voluto mettere i puntini sulle i, sostenendo che, per cercare davvero la verità, la strage di via D’Amelio debba essere considerata «in un quadro ampio», sottraendosi a quel «fenomeno di negazionismo-revisionismo» che vorrebbe parcellizzare la lettura dei delitti eccellenti e delle stragi che hanno insanguinato lo Stivale dalla fine degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta negando la presenza di apporti esterni ai mafiosi di Cosa Nostra. L’avvocato Repici ha dunque ripercorso tappe di storia fondamentali per giostrarsi negli angusti meandri dei retroscena delle stragi, facendo ad esempio riferimento al fallito attentato all’Addaura il 21 giugno 1989 ai danni di Giovanni Falcone, il quale per la prima volta parlò di “menti raffinatissime” che sarebbero state capaci di orientare la mafia dall’esterno. E, come testimoniato da alcuni collaboratori o diretti conoscenti del giudice, tra cui il giornalista Saverio Lodato, Falcone avrebbe parlato espressamente della figura di Bruno Contrada, allora numero 2 del Sisde, poi arrestato e condannato in via definitiva a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa (ma successivamente “salvato” dalla Cedu, che annullò gli effetti penali della condanna – non entrando nel merito delle condotte di Contrada, accertate dai giudici – perché, a suo parere, all’epoca il reato di concorso esterno non sarebbe stato adeguatamente codificato).
Repici ha poi fatto riferimento a un altro condannato per concorso esterno, Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi e poi senatore di Forza Italia. Nello specifico, il legale ha ricostruito un tassello ormai accertato della storia recente italiana che riguarda le strategie politiche di Cosa Nostra dopo lo scoppio di Tangentopoli, quando la mafia decise di promuovere la nascita di un nuovo soggetto politico, “Sicilia Libera”, una forza di stampo meridionalista che Cosa Nostra, scevra dei suoi referenti politici tradizionali caduti sotto i colpi degli arresti e delle indagini del pool di Antonio Di Pietro, voleva utilizzare come “trampolino” per «passare tra gli equilibri della prima repubblica a quelli della seconda repubblica» attraverso la costituzione di una fedele rappresentanza in parlamento. Tale progetto politico sarebbe stato poi messo da parte dai vertici della mafia, che grazie ai pregressi rapporti con Dell’Utri avrebbero infine deciso di dare pieno appoggio a Forza Italia, che poi vinse le elezioni del ’94.
Repici ha evidenziato come gli «artefici» del progetto politico “Sicilia Libera”, poi naufragato, furono «Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella». Proprio questi tre elementi formarono il commando omicida che nel settembre 1992 avrebbero dovuto mettere al tappeto l’allora questore Calogero Germanà, che si salvò miracolosamente dall’attentato. Lo stesso Germanà che, insieme a Borsellino, si era occupato di uno dei maggiori esponenti della massoneria in Italia: quel Luigi Savonache un importante infiltrato, Luigi Ilardo, aveva indicato come il personaggio che «aveva curato l’ingresso della massoneria in Cosa Nostra» e il soggetto che aveva avviato l’indirizzo di Cosa Nostra verso una strategia stragista in contatto con esponenti di apparati istituzionali e esponenti del mondo massonico». Tutti elementi «confermati dai successivi accertamenti giudiziari». Un’altra figura rilevante nella narrazione di Repici è poi quella di Pietro Rampulla, l’esperto artificiere di Cosa Nostra, esponente della mafia messinese direttamente collegato ai Santapaola di Catania, «che si occupò di imbottire di esplosivo il canale sotto la autostrada a Capaci» in vista dell’attentato in cui, il 23 maggio 1992, venne ucciso Giovanni Falcone. E Pietro Rampulla non fu solo un mafioso, ma anche un militante di Ordine Nuovo, organizzazione dell’estrema destra extraparlamentare protagonista della “Strategia della tensione” negli anni Settanta.
Le parole di Agnese Borsellino
Altro importante passaggio ha riguardato le rivelazioni fatte da Agnese Borsellino, moglie di Paolo, alcuni anni dopo la morte del marito ai magistrati in riferimento a una circostanza collocata temporalmente al 15 luglio ’92 (quattro giorni prima della strage), in cui il giudice le avrebbe confidato di aver «visto la mafia in diretta» e che una fonte terza gli aveva riferito che il capo del Ros Antonio Subranni fosse «punciuto», ovvero affiliato alla mafia.
L’avvocato dei figli di Borsellino, Fabio Trizzino, aveva cercato di sviare il significato di quelle parole in Commissione Antimafia, sostenendo che la frase di Borsellino debba essere in realtà letta come «Ho visto la mafia in diretta PERCHÈ mi hanno detto che Subranni è punciutu». Insomma, secondo Trizzino la fonte delle preoccupazioni del giudice sarebbe da ricondurre non alla presunta contiguità a Cosa Nostra di Subranni, ma alle trame anti-Ros a cui la fonte del giudice (rimasta ignota) avrebbe in quel frangente preso parte. Repici, però, ha riallineato sapientemente i fatti, ricordando come Subranni, in un’intervista resa al Corriere della Sera successivamente all’uscita delle rivelazioni di Agnese Borsellino, «ebbe l’ardire di riferire che bisognava prestare poca credibilitàalle dichiarazioni di Agnese Borsellino perché “si sa che è malata di alzheimer”».
Consapevole, dunque, che fosse proprio lui il “bersaglio” di quelle parole. Pochi giorni dopo la pubblicazione di quell’intervista, come ricordato da Repici, Agnese Borsellino «disse pubblicamente che le parole di Subranni non meritavano commento». A demolire la ricostruzione di Trizzino, insomma, sarebbero state secondo Repici le stesse parole di Agnese.
L’agenda rossa
Tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, come ci hanno raccontato i suoi congiunti e i suoi più stretti collaboratori, Paolo Borsellino utilizzòincessantemente un’agenda rossa, da cui non si separava mai, per mettere nero su bianco i suoi spunti investigativi più importanti. Un’agenda che fu trafugata dal perimetro della strage di Via D’Amelio lo stesso pomeriggio della morte del giudice e dei suoi agenti di scorta. Soffermandosi sul furto dell’agenda rossa, Repici l’ha definito la «frazione degli accertamenti della strage più vittima di trascuratezza e omissioni da parte degli uffici giudiziari». Mentre da un lato si proscioglieva in udienza preliminare sull’imputazione per furto dell’agenda rossa Giovanni Arcangioli – il carabiniere che una fotografia risalente al pomeriggio del 19 luglio ’92 ritrae con la borsa di cuoio del giudice in mano, intento ad allontanarsi dal luogo della strage – senza quindi avere un accertamento processuale dei fatti tramite una verifica dibattimentale, «non ha avuto analogo sviluppo in sede istituzionale» il grande lavoro fatto negli ultimi anni da un esponente delle Agende Rosse, Angelo Garavaglia, il quale era riuscito a ricostruire parte dei movimenti dell’agenda dopo aver raccolto documenti video che gli vennero rilasciati da una serie di operatori dell’informazione presenti sul posto. Infatti, ha detto Repici, l’autorità giudiziaria non ha successivamente provveduto a effettuare «un’acquisizione di tutta la documentazione in archivio» relativa ai video «raffiguranti i minuti e le ore successivi alla strage».
Il furto dell’agenda rossa rappresenta solo il primo tassello del depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio, completato dal finto pentimento di Vincenzo Scarantino, il “balordo di quartiere” che, costretto con la forza dalla polizia ad andare davanti ai magistrati ad ammettere di aver effettuato una strage in cui in realtà non ebbe alcun ruolo, contribuì allo sviamento delle indagini. Tale azione depistante fu disinnescata solo dal 2008 in avanti, quando il vero esecutore materiale di quell’attentato, Gaspare Spatuzza (uomo dei fratelli Graviano, capi del mandamento di Brancaccio), decise di pentirsi e di smentire ufficialmente la ricostruzione di Scarantino. La sentenza “Borsellino-Quater”, nel 2017, ha sancito che ad avere un ruolo importante in entrambi i punti del depistaggio fu Arnaldo La Barbera, allora questore di Palermo. «Il 5 novembre del 1992 – ha spiegato Repici – l’autorità giudiziaria di Caltanissetta fece un’attività formale con la quale fu repertato il contenuto della borsa di Borsellino, scomparsa dall’auto il 19 luglio ’92 e rinvenuta, non si capisce bene come, nei giorni precedenti nell’ufficio di Arnaldo La Barbera». Rivolgendosi alla Commissione, Repici ha detto: «Potreste essere voi la prima istituzione del Paese a riuscire a raccogliere in modo integrale tutta la documentazione video di quanto accadde in via D’Amelio».
Il rapporto “mafia-appalti”
L’audizione di Repici, anche e soprattutto in relazione a quanto avvenuto nelle scorse settimane in Commissione Antimafia, si è fatta esplosiva quando si è toccata l’annosa questione del rapporto “mafia-appalti”, l’informativa depositata dal Ros nel febbraio 1991 che si proponeva di fare luce sulle connessioni tra Cosa nostra e le forze politico-imprenditoriali dello Stivale. E che, ai tempi, fu oggetto di aspri veleni e incredibili fughe di notizie, nonché epicentro dello scontro tra gli uomini del Ros e la Procura di Palermo. Questa pista è considerata dall’avvocato dei figli di Borsellino come la causa scatenante della strage di Via D’Amelio. E non è un mistero che anche la Presidente della Commissione Antimafia Chiara Colosimo (Fdi), che come Trizzino ha affermato di non aver «mai creduto» alla possibile pista sulla trattativa Stato-mafia – inaugurata proprio dal Ros dei Carabinieri tra il maggio e il giugno del 1992 sfruttando come intermediario per arrivare ai vertici mafiosi Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo –, la ritenga tale. Di tutt’altro avviso è invece Fabio Repici, che la giudica una vera e propria «menzogna»: «La causale mafia-appalti possiamo chiamarla una ‘pista palestinese’ su via D’Amelio», ha detto il legale, ricordando che «si è potuto apprendere dalle dichiarazioni pubbliche» di Mario Mori e Giuseppe De Donno (allora ai vertici del Ros) «il loro convincimento che quell’attività sia stata causa principale della strage di via D’Amelio», ma niente di tutto ciò è avvenuto «in sede processuale». Questo perché, ha detto Repici, «nelle varie occasioni in cui si sono ritrovati imputati, chiamati a rendere esame davanti ai giudici, come era loro legittima facoltà, si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere». Dunque, «se davvero quei due ufficiali il 20 luglio 1992 pensarono che la strage appena avvenuta in via d’Amelio fosse stata causata dall’interessamento di Paolo Borsellino alle loro attività di indagine, noi siamo davanti a una omissione in atti d’ufficio perpetuata dal 1992 almeno fino al 1997-1998», in quanto i due avrebbero «tenuta nascosta quella circostanza che solo a loro, nella loro versione, risultava, rifiutando di mettere al corrente l’autorità giudiziaria che procedeva sulla strage di via d’Amelio, cioè la procura di Caltanissetta, con la quale pure i due ufficiali, ai tempi in cui a guidarla era il Dott. Tinebra, ebbero eccellenti rapporti». Secondo Repici, insomma, «pensare che un generale e un tenente colonnello dei carabinieri si siano tenuti questo segreto fino al 1998 è una cosa inenarrabile».
Ma c’è di più. Repici ne è certo: quando Mori e De Donno «tirarono fuori il discorso delle indagini mafia-appalti» non lo fecero «spontaneamente», ma per «legittimi interessi difensivi propri». Infatti, il 13 ottobre 1997, quando ancora mai nessuno aveva parlato all’autorità giudiziaria della questione “mafia-appalti”, Mori e De Donno vennero convocati come testimoni dalla Procura di Palermo. «De Donno – ricostruisce l’avvocato – venne sentito a sommarie informazioni» dai magistrati Caselli, Prestipino e De Lucia, che gli posero domande sulle «possibilità che anche per iniziativa di personaggi a loro vicini quelle indicazioni fossero state conosciute da esponenti di Cosa Nostra». In quell’occasione, «a 5 anni e due mesi circa dopo la strage di via d’Amelio», i magistrati «a brutto muso contestano al colonnello De Donno le circostanze a loro riferite dal collaboratore di giustizia Angelo Siino», esponente di Cosa Nostra che gestiva il sistema illegale degli appalti in Sicilia, che dopo aver deciso di pentirsi aveva «cominciato a parlare dei suoi rapporti con esponenti del Ros», da un lato delle connessioni con «alcuni sottufficiali grazie all’operato dei quali Cosa Nostra aveva conosciuto il contenuto di quelle investigazioni» e dei legami che Siino aveva avuto come confidente proprio con gli ufficiali del Ros che quelle indagini avevano curato». «Non mi si dica che è un caso: solo una settimana dopo, il 20 ottobre 1997, il colonnello De Donno scrive una nota al Procuratore Tinebra – dice ancora il legale di Salvatore Borsellino -, al quale segnala che ha circostanze da mettere a conoscenza della Procura per competenza motivata in relazione a condotte asseritamente illecite di magistrati della Procura di Palermo». Repici dà quindi la stoccata: «Se fosse vero ciò che egli riferì, poiché quelle circostanze erano note al colonnello de donno nel 1992 e negli anni successivi e poiché c’è un articolo del codice penale che punisce il pubblico ufficiale che avendone avuto notizia omette o ritarda di denunciare un fatto di reato, quella condotta del colonnello De Donno è la confessione del reato di cui all’art. 361 del codice penale». Insomma, per l’avvocato «mente chi ha il coraggio di dire che non c’è una diretta correlazione tra la convocazione di De Donno alla Procura di Palermo e la sua segnalazione alla Procura di Caltanissetta». In questo modo, rispetto a quanto raccontato dai Ros e da Trizzino, il quadro si ribalta.
L’appello di Salvatore Borsellino
Oltre all’avvocato Repici, che ha parlato davanti ai commissari per circa 2 ore e mezza, all’audizione ha preso parte anche Salvatore Borsellino, che già il 18 ottobre aveva tenuto un lungo intervento. Ieri Borsellino ha voluto lanciare un appello alle istituzioni, affermando che «una vera verità e giustizia sulle stragi che hanno insanguinato la storia del nostro Paese non può prescindere dal fatto che vengano messi in luce quali apparati hanno sottratto l’agenda rossa di Paolo Borsellino, hanno cancellato il contenuto dei dischi del database di Falcone e hanno sottratto i documenti contenuti nella cassaforte di Carlo Alberto Dalla Chiesa». Secondo il fratello del giudice Paolo, infatti, da questo spaccato occorre partire «se davvero si vuole una vera verità e una vera giustizia e non una verità di comodo, confezionata per nascondere all’opinione pubblica altre terribili veritàche mancano alla storia del nostro Paese o per l’esigenza di ripulire la storia del nostro Paese a vantaggio dell’una o dell’altra parte politica». Ciò che è certo è che, stando a quanto sta accadendo in queste settimane, la Commissione Antimafia resterà l’agone in cui si giocherà una delle partite più importanti – anche a livello politico – per la ricerca della verità sulla morte di uno dei più illustri simboli della battaglia contro Cosa Nostra. Su cui, a 31 anni di distanza, mancano ancora gli elementi fondamentali.
[di Stefano Baudino]
La battaglia per la verità di Salvatore Borsellino in Commissione Antimafia
«Ho chiesto di essere audito da questa Commissione, insieme con il mio avvocato, difensore di parte civile, Fabio Repici, per fare sentire anche la mia voce di fratello di Paolo dopo quella dei figli di mio fratello». È iniziata con queste parole l’audizione tenuta da Salvatore Borsellino – fratello minore del giudice Paolo Borsellino e fondatore del Movimento delle Agende Rosse – davanti alla Commissione Antimafia. Un incipit con cui l’attivista ha immediatamente voluto sottolineare quanta distanza intercorre tra le tesi di cui è portatore e quelle dei figli del giudice, di cui ad inizio ottobre si era fatto portavoce il loro legale, Fabio Trizzino, sempre davanti alla Commissione. Borsellino, un vero e proprio fiume in piena, ha presentato ai commissari quelli che, a suo parere, sono i tasselli fondamentali per comprendere i retroscena della strage di via D’Amelio e di molti altri attentati attribuiti alla mafia che, almeno dagli anni Ottanta, hanno insanguinato lo Stivale: il ruolo dei servizi segreti deviati, i piani dell’eversione nera, le condotte opache e depistanti di alti esponenti delle forze di polizia e della magistratura. Nonché quella “improvvida” Trattativa Stato-mafia inaugurata dal Ros dei carabinieri che, come attestano numerose sentenze definitive, al posto di fermare le stragi ne produsse altre. Il tutto, secondo Borsellino e il suo legale, va studiato in una visione unitaria.
Prima di entrare nel merito della sua audizione, Borsellino ha manifestato il suo «sconcerto» per gli attacchi sferrati davanti alla Commissione antimafia (e in molte altre occasioni) da Fabio Trizzino nei confronti di Nino Di Matteo, attuale sostituto procuratore della DNA, noto per essere stato il pm del processo sulla mancata cattura di Provenzano e sulla “Trattativa”, e Roberto Scarpinato, per anni sostituto procuratore a Palermo e oggi senatore del M5S. A loro Borsellino ha espresso «stima e gratitudine per avere in questi lunghi anni, ricercato con tutte le loro forze quella Verità e quella Giustizia per le quali continuo a combattere, in nome di quella Agenda Rossa che ho scelto a simbolo della mia lotta». L’agenda rossa, da cui il movimento di Salvatore Borsellino prende il nome, è quel taccuino trafugato dal perimetro della strage di via D’Amelio da mani istituzionali, che conterrebbe spunti investigativi esplosivi appuntati dal giudice – che da quello strumento non si era mai separato dalla strage di Capaci in avanti – negli ultimi giorni della sua vita. Secondo Borsellino, insomma, «sono ben altri i magistrati verso i quali bisogna puntare il dito», come Giovanni Tinebra, allora procuratore capo a Caltanissetta, «che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di avere avallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi», e Pietro Giammanco, «che ha ostacolato in ogni modo Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, fino a concedergli la delega per indagare sui fatti di mafia a Palermo soltanto quando la macchina carica di esplosivo che avrebbe dovuto ucciderlo era già pronta davanti al portone di Via D’Amelio».
Il furto dell’agenda rossa e la successiva “costruzione” di falsi pentiti da parte della polizia hanno costituito, secondo i giudici del processo Borsellino-Quater, “uno dei più gravi depistaggi della storia repubblicana”. «Il Borsellino Quater – ha detto Borsellino – era stata una svolta, mi aveva fatto sperare di vedere, finalmente, almeno un barlume di Verità, un miraggio di Giustizia, ma poi sono arrivate una serie di sentenze contraddittorie, per l’ultima delle quali aspettiamo ancora la motivazione, che hanno fatto quasi del tutto svanire la mia speranza». Qui Borsellino parla delle ultime due sentenze sfociate dal processo “Trattativa” che, ribaltando il verdetto di primo grado, hanno assolto i Ros che lanciarono l’invito al dialogo ai vertici mafiosi attraverso la mediazione dell’esponente Dc ed ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. «Nella prima, quella d’appello, si assolvono gli imputati dello Stato perché “il fatto non costituisce reato”, nell’altra quella in cassazione, si assolvono tutti “per non avere commesso il fatto”. Ma “il fatto” c’è, la strage c’è stata, Paolo e i suoi ragazzi sono stati uccisi e dopo quella strage altre ne sono state compiute ed altre vittime innocenti hanno perso la vita». Borsellino ricorda infatti che varie sentenze definitive hanno già attestato che la “Trattativa” rafforzò «l’idea che la strategia stragista pagava se era in grado di mettere in ginocchio lo Stato, di spingerlo a farsi avanti, a scendere a patti».
«Perplesso mi ha lasciato anche, nella ricostruzione dell’avvocato dei figli di Paolo, il diverso peso dato ad alcune parole di Paolo e ad altre parole e circostanze riferite da sua moglie, Agnese Piraino», ha detto Borsellino. Il riferimento è alle «pesanti, terribili» rivelazioni fatte dalla vedova di Paolo ai magistrati anni dopo la morte del marito, concernenti una circostanza collocata temporalmente pochi giorni prima della strage, in cui il giudice le avrebbe confidato di aver appreso da una fonte rimasta ignota che il capo del Ros Antonio Subranni fosse “punciuto”, ovvero affiliato alla mafia. Parole che, specialmente se lette nell’interezza del verbale, a prescindere dalla loro veridicità – che non è stata mai riscontrata – indicano inoppugnabilmente le “tinte” dei pensieri di Paolo (che lei stessa descrisse come “turbatissimo”, ma “certo” di quello che stava dicendo). Parole il cui significato, attraverso un difficile equilibrismo, è invece stato completamente sviato da Trizzino in audizione, evenienza che era infatti stata evidenziata con vigore dal senatore Scarpinato. Secondo l’avvocato dei figli di Borsellino, l’elemento acceleratore della strage fu l’interessamento del giudice, nell’ultima fase della sua vita, al dossier “mafia-appalti” del Ros. Di tutt’altro avviso è Borsellino, il quale sostiene che occorra partire «dal furto di quell’Agenda, compiuto, ne sono certo, proprio da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello, e non sto parlando della mafia, ma di pezzi deviati dello Stato […] È proprio da questo che si dovrebbe ripartire e non da un dossier “mafia-appalti” che, se pure può essere considerato una concausa, non è sicuramente la vera causa dell’improvvisa accelerazione di una strage che, a quel punto, non poteva più essere rimandata».
Inimicandosi evidentemente molti “negazionisti” presenti all’interno della Commissione, Borsellino ha voluto valorizzare l’entità delle risultanze cui, a più di 30 anni di distanza dagli eccidi, stanno pervenendo le indagini di varie procure: «Occorreva eliminare, e in fretta, chi rappresentava un ostacolo insormontabile per un disegno criminoso, teso, con l’ausilio anche dell’organizzazione mafiosa e dell’eversione nera, a cambiare gli equilibri di questo nostro disgraziato Paese che da queste stragi, che io ho chiamato e continuerò sempre a chiamare “stragi di Stato”, è stato sempre segnato». Borsellino ha chiuso la sua audizione con parole amare: «Quello che manca, e ormai sono quasi sicuro di non vedere nel corso di quel residuo di vita che mi resta sono una Verità e una Giustizia che forse pochi, troppo pochi, in questo paese, vogliono davvero».
[di Stefano Baudino]
Via D’Amelio: l’anniversario delle divisioni
Un movimento antimafia spaccato, a tratti dilaniato, incarnato da fazioni ontologicamente contrapposte in disaccordo su (quasi) tutto. È questo lo scenario a cui si assiste in vista del 31esimo anniversario dell’attentato di Via D’Amelio, in cui, il 19 luglio 1992, vennero assassinati il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Una strage feroce segnata da un maxi-depistaggio certificato dal processo Borsellino-Quater, su cui il Tribunale di Caltanissetta ha da poco partorito un’importante sentenza e attualmente oggetto di delicate indagini dei pm di Caltanissetta, che stanno approfondendo il tema del presunto ruolo di entità esterne a Cosa Nostra nel delitto. Proprio sulle risultanze processuali legate alle inchieste sull’attentato, nonché sulle implicazioni politiche legate a quegli episodi segnanti e alla loro narrazione odierna, si sta consumando una battaglia colpo su colpo, in cui anche i parenti delle vittime di mafia prendono posizioni divergenti e spesso inconciliabili.
Tale fotografia era già stata scattata lo scorso 23 maggio, giorno delle commemorazioni per l’anniversario della morte di Giovanni Falcone. In quella occasione, ai giovani attivisti del corteo “Non siete Stato voi, ma siete stati voi“ – che riuniva decine di associazioni e sigle sindacali – era stato impedito attraverso un’ordinanza del questore di Palermo di raggiungere l‘Albero di Falcone di via Notarbartolo, luogo in cui ogni anno si ricorda la morte del giudice. L’accesso era stato garantito solo al corteo “ufficiale” organizzato dalla Fondazione Falcone, di cui è simbolo la sorella del giudice orto a Capaci, Maria Falcone: in prima fila, accanto a lei c’era il sindaco di Palermo Roberto Lagalla, che in campagna elettorale ottenne l’endorsement di Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro: due condannati per gravi reati connessi alla mafia. Cercando di spezzare i cordoni delle forze dell’ordine per protestare contro il corteo “ufficiale” e omaggiare il defunto giudice, decine di attivisti sono stati spintonati e manganellati dai poliziotti in tenuta antisommossa, in un pomeriggio di grandi scontri e feroci polemiche.
Uno dei primi a esprimere pubblicamente solidarietà ai manifestanti era stato Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo. Eppure, anche all’interno della famiglia Borsellino fioccano enormi divisioni. Alcuni giorni fa, intervistato da Salvo Palazzolo su Repubblica, Fabio Trizzino, avvocato dei tre figli del giudice palermitano, da un lato ha auspicato l’unitarietà del movimento antimafia, ma dall’altro ha pesantemente criticato l’operato del Movimento delle Agende Rosse fondato da Salvatore Borsellino, che da anni si batte per la verità sulla strage di Via D’Amelio, sugli attentati “collaterali” e sui rapporti tra mafia e istituzioni. «A volte mi chiedo se le Agende Rosse siano veramente al servizio della ricerca della verità, per arrivare a una ricostruzione corretta – ha dichiarato Trizzino – oppure se sono innamorate di una tesi, quella della “Trattativa”, in maniera dogmatica e la portano avanti nonostante la plausibilità di ricostruzioni alternative». Trizzino, che ritiene il “rapporto mafia-appalti” del Ros – a cui Paolo Borsellino si sarebbe interessato prima della sua morte – come la più plausibile causa scatenante dell’accelerazione dell’eccidio del 19 luglio, nell’intervista ha sostenuto che la “Trattativa Stato-mafia” non sia stata “giudiziariamente accertata”. A smentirlo, però, sono diverse sentenzepassate in giudicato che quella trattativa l’hanno ormai da tempo confermata e “storicizzata”, nonostante al processo “Trattativa” la Cassazione (al contrario dei giudici di primo grado) non abbia inquadrato come reato le condotte dei Carabinieri del Ros alla sbarra, che partorirono quella proposta di dialogo ai mafiosi tramite Vito Ciancimino. Sentenze che da sempre il Movimento delle Agende Rosse porta all’attenzione dell’opinione pubblica.
La reazione di Salvatore Borsellino era stata dura: «L’Avv. Fabio Trizzino, a meno che non si sia innamorato delle tesi sostenute da Mario Mori(generale dei Carabinieri imputato e poi assolto al processo “Trattativa”, ndr) e dai Ros, dovrebbe sapere che le recenti sentenze, sebbene largamente contraddittorie nei tre gradi di giudizio, non hanno negato l’esistenza della trattativa, peraltro già da tempo accertata da una sentenza passata in giudicato come la sentenza Tagliavia di Firenze, ma ne hanno negato gli effetti penali – ha scritto in un comunicato su Facebook -, e che lo stesso Mori, del quale egli sostiene così caldamente le tesi, che peraltro è stato il primo a parlare in fase processuale di “Trattativa”, dopo queste sentenze ha affermato in una intervista “Io rifarei la trattativa”, confermando così implicitamente il fatto di averla già fatta una volta». Dopo aver giudicato estremamente inverosimile che il dossier “mafia-appalti” possa aver costituito la causa acceleratrice della strage, Borsellino conclude affermando che, se Trizzino avesse davvero voluto evitare divisioni, «avrebbe potuto aspettare un altro momento per le sue dichiarazioni».
Lo scorso maggio, la Commissione Antimafia ha eletto la sua nuova presidente, Chiara Colosimo, di Fratelli d’Italia. La nomina è stata apertamente criticata da molti familiari delle vittime di mafia, tra cui lo stesso Salvatore Borsellino, che in una missiva di protesta avevano evidenziato la gravità dei rapporti amicali intrattenuti da Colosimo con Luigi Ciavardini, ex terrorista nero. Per contro, solo un mese dopo, l’avvocato Fabio Trizzino è recato a braccetto con lo stesso Mario Mori e una delegazione del Partito Radicale in Commissione Antimafia a incontrareChiara Colosimo, al fine di esprimerle “solidarietà dopo le critiche sulla sua elezione”.
Anche in quel caso, Salvatore Borsellino aveva preso le distanze dal legale dei suoi nipoti, sottolineando criticamente la malsana tendenza degli organi di informazione a presentare Trizzino come “l’avvocato della famiglia Borsellino” (il fratello del giudice è assistito da un altro legale, Fabio Repici) -, sostenendo che «il Generale Mario Mori dovrebbe essere inquisito dalla Commissione Antimafia, piuttosto che ricevuto».
Ad ogni modo, le Agende Rosse hanno già reso noto che il 19 luglio sfileranno insieme al cartello di sigle sindacali, associazioni e movimenti che avevano preso parte al “contro-corteo” dell’anniversario di Capaci, questa volta al grido di “Basta Stato-mafia“. La manifestazione partirà alle 15 proprio dall’albero Falcone, ormai divenuto simbolo dello “scollamento” tra l’antimafia istituzionale e quella movimentista. «Il corteo sarà composto dalle stesse persone che il 23 maggio sono arrivate in via Notarbartolo e in maniera poco edificante sono state fermate quando stavano per arrivare all’albero Falcone per il minuto di silenzio – ha dichiarato Salvatore Borsellino -. Ecco, questo non accadrà il 19 luglio: in via D’Amelio saranno i benvenuti».
Poche ore dopo, alle 19, inizierà invece la fiaccolata organizzata dalla destra palermitana – che ha sempre sbandierato l’appartenenza politico-ideologica di Paolo Borsellino, che non fece mai mistero della sua vicinanza all’MSI -, che da piazza Vittorio Veneto confluirà fino in via D’Amelio. Sono attesi la presidente della commissione antimafia Chiara Colosimo e i ministri di Fdi Andrea Abodi e Nello Musumeci. Ma, anche qui, non mancano i malumori e le voci fuori dal coro. Fabio Granata, storico esponente della destra siciliana – arrivato in passato alla vicepresidenza della Commissione Antimafia e protagonista dello “strappo” degli ex di Alleanza Nazionale con il PDL di Silvio Berlusconi – quest’anno ha per esempio deciso di smarcarsi dall’evento, di cui è sempre stato uno dei principali promotori. L’ex deputato, oggi assessore a Siracusa, ha criticato il governo Meloni per non aver «determinato su questi temi una rottura auspicata (non solo a destra) con il berlusconismo», registrando la «malcelata soddisfazione» di alcuni settori del governo e del partito della premier per le assoluzioni dei Ros al processo sulla Trattativa e «l’autentica crociata contro i magistrati» del ministro Nordio. Volgendo lo sguardo allo schieramento opposto, Granata ha anche attaccato l’”interpretazione storiografica miope, ideologica e sostanzialmente falsa” che “a sinistra ha preso sempre più piede”, in cui si promuove l’idea di una «alleanza e organica» di fascismo e neofascismo con Cosa Nostra.
A confluire tra i dimostranti meloniani sarà poi un terzo corteo, quello organizzato dalla Nuova Democrazia Cristiana. Il suo leader indiscusso, l’ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro – condannato nel 2011 per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra – non sarà però fisicamente presente, poiché impegnato in un viaggio in Burundi.
[di Stefano Baudino]