Mafie unite d’Europa: tutti i “buchi” nella lotta al crimine in Ue.

 

 

Non solo ‘ndrangheta, camorra, Cosa nostra. Nei 28 Paesi membri dell’Unione europea sono attualmente sotto indagine circa 5mila organizzazioni criminali, calcola Europol nel rapporto 2017.
Certo, poche fra queste hanno lo spessore delle mafie italiane, oggetto di 145 indagini a livello comunitario coordinate da Eurojust dal 2012 al 2016, ma sette su dieci operano in più di uno Stato e tutte insieme si spartiscono un mercato illecito, dalla droga alla contraffazione, stimato da Transcrime in quasi 110 miliardi di euro, pari a circa l’1% del pil dell’Unione.
Le indagini e i rapporti investigativi mettono in evidenza anche l’importanza delle mafie russofone e turca, l’ascesa dei clan albanesi padroni del traffico di marijuana e non solo, la minaccia di gruppi meno conosciuti a livello internazionale, dalle gang di motociclisti diffuse nel Nord Europa ai clan vietnamitiattivi soprattutto all’Est. Nessun Paese può considerarsi immune, come dimostra la mappa interattiva che pubblichiamo. Neppure chi può vantare grandi tradizioni civiche e livelli di criminalità decisamente sotto controllo, come dimostra per esempio il caso della mafia siriana in Svezia.

Molte di queste organizzazioni inquinano l’economia legale riciclando i profitti dei loro traffici e arrivano a condizionare la vita economica e sociale di pezzi di territorio, proprio come le mafie italiane, anche se in genere su scala minore. Eppure la macchina del contrasto a livello di Unione europea, pur con passi avanti, sembra girare a vuoto. Da almeno un decennio il Parlamento di Strasburgo approva documenti che chiedono, in particolare, di estendere a tutti i Paesi membri il reato di associazione mafiosa, il 416 bis presente nel codice penale italiano, e la possibilità di confiscare ricchezze non giustificabili anche in assenza di una condanna penale, altro “prodotto” all’avanguardia della legislazione italiana. Ma finora tutto questo è rimasto lettera morta, per l’opposizione di diversi Paesi membri, nonostante le pressanti richieste di Europol ed Eurojust, vale a dire la polizia e la magistratura dell’Unione. Così come hanno finito per impaludarsi i negoziati sulla Procura europea, anche questa sgradita a diversi Stati membri.

Così le mafie e le organizzazioni criminali si dedicano allo “shopping giuridico”, cioè approfittano dei Paesi dove le norme (e le indagini) sono più morbide. Anche se uccidono poco, il pericolo messo in evidenza dagli investigatori è il condizionamento dell’economia, del mercato, della libera concorrenza. “La strategia globale delle mafie italiane all’estero è tenere il basso profilo”, osservava Europol nel rapporto sul crimine organizzato italiano del 2013. “Il controllo del territorio cercato all’estero è puramente economico”. Non si limita all’obiettivo ovvio di far soldi, ma si estende “a tutti gli aspetti della produzione e del consumo di beni e servizi, spina dorsale di ogni Paese”. Basta pensare al peso che possono avere sull’economia lecita gli enormi profitti garantiti dal solo traffico di droga. Come scrive la Direzione nazionale antimafia italiana nella relazione 2016, “bisogna impedire che la nostra generazione e, soprattutto, quelle future, finiscano per vivere in società in cui l’economia liberale sarà scalzata da quella criminale”.

I GRUPPI CRIMINALI IN EUROPA

 

Davvero non si può pensare che esistano angoli d’Europa immuni dal rischio mafioso, se ne nel 2004 il boss della camorra Vincenzo Mazzarella, accusato di associazione mafiosa e riciclaggio, è stato sorpreso e arrestato nel parco a tema di Eurodisney, alle porte di Parigi, tra pupazzoni pelosi e hotel a tinte pastello. Del resto già a metà degli anni Ottanta lo ‘ndranghetista Giacomo Lauro trafficava cocaina nei Paesi Bassi, dove è stato arrestato nel 1992. In quegli anni la Direzione investigativa antimafia italiana stimava che la criminalità calabrese avesse rappresentanti in venti Paesi europei, ricorda un investigatore a ilfattoquotidiano.it. In Germania, teatro della strage di Duisburg a Ferragosto del 2007, due anni più tardi su richiesta delle autorità italiane la polizia tedesca è riuscita a registrare per filo e per segno la riunione di una locale di ‘ndrangheta a Singen, nel Baden-Württemberg, con tanto di antiche formule rituali: “Con ferri e catene io battezzo…”. Nei Paesi Bassi ha destato sconcerto la recente scoperta degli interessi mafiosi – ‘ndrangheta anche in questo caso – nel mercato dei fiori, storico vanto nazionale.

E se le organizzazioni italiane possono indubbiamente fregiarsi del marchio di “associazione mafiosa”, codificato apposta per loro dalla legge italiana, nei 28 Paesi operano numerose altre organizzazioni che mostrano caratteristiche simili, dal potere di intimidazione verso persone non coinvolte nelle attività criminali al condizionamento dell’economia e della politica (il dirigente di polizia francese Jean-François Gayraud, nel libro del 2010 Divorati dalla mafia, conferisce la qualifica a Cosa nostra siciliana, Cosa nostra americana, ‘ndrangheta, camorra, Sacra corona unita, triadi cinesi, yakuza giapponese, criminalità albanese, kosovara e turca. Ma fra gli studiosi il dibattito è aperto). Europol, nel rapporto 2009, distingueva come particolarmente pericolosi i gruppi “in grado di interferire nella repressione delle forze dell’ordine e nei processi attraverso la corruzione”, e concludeva che clan del genere fossero presenti all’epoca in “Irlanda, Regno Unito, Repubblica Ceca, Lettonia, Lituania, Romania, Bulgaria, Slovacchia e, in misura minore, Ungheria e Polonia”.

Definizioni a parte, scorrendo i rapporti investigativi europei e delle singole polizia nazionali, emergono diversi gruppi con caratteristiche simili ai clan mafiosi, spesso in grado di operare fra diversi Paesi dell’Unione. Le bande di motociclisti diffuse nel Nord Europa, come gli Hells Angels e i Bandidos in Finlandia, sono tutt’altro che folcloristiche nella loro capacità d’intimidazione e nel condizionamento dell’economia lecita, per esempio l’edilizia (e con le mafie italiane condividono la convivenza di una facciata pubblica e di una facciata sommersa). Diversi investigatori incontrati da ilfattoquotidiano.it per questa inchiesta segnalano l’ascesa dei clan albanesi, che stanno piazzando le loro pedine in diversi Stati membri per accompagnare il salto di qualità dal traffico di marijuana a cocaina ed eroina. Dall’Est al Regno Unito è segnalata la presenza di mafie russofone, attive soprattutto nel riciclaggio. In Estonia si attende lo sviluppo di nuovi equilibri criminali dopo l’assassinio, nel 2015, del capo supremo della Obtshak (“fondo comune”), Nikolai Tarankov, con un passato nel Kgb sovietico. Persino la Svezia, nel 2010, si è svegliata scoprendo, in seguito a un duplice omicidio, il potere raggiunto in alcune zone del Paese dalla mafia siriana, fino ad allora ignorata da tutti. E ancora nell’Est Europa si sta facendo strada la criminalità vietnamita, in grado di saldare con profitto il traffico di droga e di migranti illegali (per approfondire la situazione in ciascuno dei 28 Paesi membri, vai alla mappa interattiva sopra).

L’ESPORTAZIONE DELLE MAFIE ITALIANE

 

“Le mafie italiane sono le sole che sono nate all’interno dell’Unione europea”, spiega a ilfattoquotidiano.it David Ellero, ufficiale dei carabinieri responsabile della lotta al crimine organizzato per Europol. “Non conoscono confini, in particolare ‘ndrangheta e camorra, che a volte troviamo nelle stesse aree, ma con modalità diverse: la prima tende a colonizzare un territorio, la seconda si limita a creare dei punti di contatto per traffici e investimenti. Sono strategie non molto diverse da quelle che hanno portato all’espansione mafiosa nel Nord Italia. Nei Paesi Ue vediamo invece molto meno la presenza di Cosa nostra”. Le mafie non si sparpagliano a caso, ma tendono a seguire direttrici specifiche dettate dalle opportunità di traffici e guadagni.

“I motivi principali di espansione sono il traffico droga e il riciclaggio”, continua Ellero. “Una prima direttrice è infatti la penisola iberica, snodo del traffico di stupefacenti. La seconda è rappresentata da Germania-Belgio-Paesi Bassi, per la presenza dei porti di Rotterdam e Anversa. Lì”, continua il dirigente di Europol, “arrivano migliaia di container al giorno, impossibile intercettare carichi di cocaina in assenza di segnalazioni precise. I Paesi Bassi, con l’aeroporto di Schipol, le ottime autostrade gratis, la centralità geografica in Europa, sono logisticamente perfetti per imbastire il traffico”. Non ci sono solo le mafie italiane: “In Europa spesso operano vari gruppi criminali e cominciano a sorgere grossi problemi con clan albanesi, russi, nigeriani, turchi. I ‘nostri’ ci sono ma non danno nell’occhio e le autorità locali non li considerano un problema. E c’è il capitolo riciclaggio. Secondo un rapporto di Transparency International il 75% degli immobili di lusso a Londra fa capo a società estere”. Proprio nel Regno Unito l’ascesa di nuovi gruppi criminali sta diventando un dossier caldo sul tavolo della National Crime Agency. Poi ci sono i buchi neri, come i Paesi dell’Est, dove “obiettivamente non riusciamo a sapere come operano le mafie italiane, anche se sicuramente ci sono investimenti”.

Il pericolo per l’Europa, però, non è solo la droga, ma il riciclaggio “che inquina l’economia legale” continua David Ellero. “All’estero le mafie italiane hanno soggetti specializzati nel ripulire il denaro sporco. A volte le stesse persone che trent’anni fa facevano droga e omicidi, oggi gestiscono ristoranti”. Da qui il profilo basso, che finisce per ingannare chi pensa che negli anni Duemila i segni della presenza mafiosa siano gli omicidi e le saracinesche fatte saltare in aria. “L’inchiesta olandese sul mercato dei fiori ha coinvolto calabresi che erano lì da vent’anni e nessuno s’era accorto di niente, a partire dalla locale polizia”.

“Per trovare mafie le mafie in Ue bisogna seguire rotta della cocaina”, concorda un analista della Dia. Spesso non è una questione di Paesi, ma di regioni specifiche: “In Spagna la Costa Brava e la Costa del Sol hanno sviluppato una vera e propria logistica dei clan, diventando quindi rifugio di latitanti. Da qui consegue il riciclaggio, con gli investimenti sul territorio. In Francia un discorso simile vale per la Costa Azzurra”, continua. “Mentre i porti di Rotterdam, nei Paesi Bassi, e di Anversa, in Belgio, sono i principali varchi per la droga proveniente dal Sudamerica”. Oltre alle leggi del crimine, le leggi di mercato. I boss e i loro colletti bianchi si dirigono verso le zone più convenienti: “Germania e Svizzeraperché ricche, la ex Jugoslavia perché in diverse controlli sono saltati, anche per la corruzione diffusa tra le forze di polizia locali”.

E’ davvero possibile che le mafie possano trapiantarsi in territori che appaiono così diversi da quelli di origine? L’esperienza del Nord Italia insegna, si legge nel saggio La questione delle mafie italiane all’estero: un’agenda di ricerca, realizzato da Joselle Dagnes, Davide Donatiello, Rocco Sciarrone e Luca Storti del Dipartimento Culture, politica e società dell’Università di Torino. Secondo i ricercatori, impegnati in un ponderoso progetto sul tema, le strade di migrazione dei clan sono essenzialmente tre. La prima: quella di fuggitivi e latitanti, che di norma non possono semplicemente scappare il più lontano possibile, ma hanno bisogno di appositi “servizi” sul posto, come è emerso in Francia e Germania. La seconda, che segue le rotte dei traffici, primo fra tutti quello della droga, come avvenuto in particolare in Spagna e Paesi Bassi, o in Est Europa. Terzo, la possibilità di investimento nell’economia legale, meglio dove esistono “competenze professionali affaristico-finanziarie, spesso a cavallo tra legale e illegale”. E’ il caso della Svizzera, Paese extra Ue in cui spesso arrivano i magistrati inseguendo i soldi dei mafiosi.

MAFIE UNITE D’EUROPA

 

Delle cinquemila organizzazioni criminali indagate in Europa, sette su dieci operano in più Stati e quasi la metà, 45%, in più di un settore criminale, prosegue Europol nel rapporto Serious and Organised Crime Threat Assessment (Socta) del 2017. I loro membri vantano 180 diverse nazionalità, anche se il 60% è europeo doc. La droga resta il maggiore mercato illecito dell’Unione, a cui si dedica un terzo dei gruppi, per un valore al dettaglio stimato in 24 miliardi di euro l’anno. E se eroina, cocaina e – in parte – la cannabissono prodotte fuori dai confini comunitari, le droghe sintetiche sono per lo più autoctone e, al contrario, esportate nel resto del mondo, afferma ancora Europol. Come si evince dalla nostra mappa, la Repubblica Ceca è la principale produttrice di metanfetamina del continente, settore in cui emerge il ruolo della criminalità organizzata vietnamita. Nel 2014, l’operazione Fuelco ha portato al sequestro di mezza tonnellata di cocaina, proveniente dal Brasile per via aerea, e all’arresto di circa 200 corrieri. Dodici i Paesi Ue coinvolti, dall’Austria alla Bulgaria, dalla Francia alla Germania, dalla Svezia al Regno Unito.

Se la droga fa la parte del leone, il business emergente è legato al traffico di migranti e alla tratta di esseri umani destinati allo sfruttamento sul lavoro. O sessuale, in bar e bordelli, come ha dimostrato un’indagine del 2016 sulla criminalità cinese in Austria. Su oltre un milione e mezzo di migranti irregolari arrivati nel territorio dell’Unione europea nel 2015 e 2016, via terra o via mare, “quasi tutti” hanno pagato un’organizzazione criminale, osservano gli analisti della polizia europea. Altro mercato nero fiorente è quello della contraffazione, che spesso vede l’alleanza tra camorra e gruppi cinesi. Non si parla solo di vestiti e borsette. Nel suo rapporto 2016, Eurojust ricorda un’inchiesta relativa a macchinari. Affiliati alla camorra compravano, per esempio, un generatore prodotto in Cina, al prezzo di 35 euro. A Napoli lo etichettavano con un marchio famoso e lo rivendevano a 400, contro i 1250 dell’originale. Prodotti del genere, compresi attrezzi pericolosi come seghe elettriche e trapani, non rispettavano gli standard di sicurezza europei, ma finivano per essere venduti in venti Paesi del continente. L’indagine che ha portato in carcere 67 persone ha permesso il sequestro di merci per 11 milioni di euro.

L’ECONOMIA INQUINATA

 

I cospicui proventi delle attività illecite su larga scala devono essere riciclati per poter rientrare nel circuito dell’economia pulita. Un’attività svolta sempre più spesso da gruppi specializzati esterni che per il servizio trattengono una percentuale dal 5 all’8%, spiega ancora Europol. Le cifre in ballo sono colossali se un solo gruppo criminale cinese attivo nel traffico di esseri umani, individuato in Spagna nell’inchiesta Snake 3, “dal 2009 al 2015 ha ripulito oltre 340 milioni di euro”. In questo caso i soldi prendevano preferibilmente la via della Cina, ma molto denaro ripulito pesa sull’economia reale, sotto forma di attività commerciali e aziende, ed è in grado di falsare il gioco della libera concorrenza. Per quanto riguarda le sole mafie italiane, la relazione di Eurojust per il 2016 elenca l’infiltrazione nell’economia lecita di “Spagna (preferita in particolare dalla camorra), Paesi Bassi, Romania, Francia, Germania e Regno Unito”. Come? Soprattutto con “investimenti in immobili e partecipazione ad appalti pubblici e privati, in particolare nel campo delle costruzioni e dello smaltimento rifiuti”. L’Organised Crime Portfolio (Ocp) di Transcrime, curato da Ernesto Savona e Michele Riccardi dell’Università cattolica di Milano, registra “casi di investimento del crimine organizzato in quasi tutti i Paesi membri dell’Unione europea, 24 su 28”.

In particolare in Italia, in Francia, in Spagna, in Regno Unito, nei Paesi Bassi, in Germania e in Romania. I soldi sporchi, spiega ancora lo studio Ocp, piovono soprattutto “nelle aree di presenza storica della criminalità organizzata (per esempio il Sud Italia), nelle regioni di confine, in quelle che hanno un ruolo cruciale nei traffici (per esempio Andalusia, Rotterdam e Marsiglia coi loro porti), nelle grandi aree urbane (per esempio Londra, Amsterdam, Madrid, Berlino) e nelle zone turistiche e costiere (per esempio Costa Azzurra, Murcia, Malaga, le capitali europee). Il sud della Spagna attira contemporaneamente il denaro sporco delle mafie italiane, della criminalità russa e delle gang di motociclisti del Nord Europa. Negli anni più recenti, gli investimenti della criminalità si sono concentrati “nelle energie rinnovabili, raccolta e gestione dei rifiuti, money transfer, casino, Vlt, slot machine, giochi e scommesse” (focus: il riciclaggio nel Regno Unito).

CHE COSA FA L’EUROPA

 

Per certi versi, l’Europa degli anni Duemila sembra l’Italia del Dopoguerra, incapace fino almeno agli inizi degli anni Ottanta di prendere provvedimenti seri contro boss e picciotti, almeno fino a che questi ultimi non hanno cominciato a farsi sentire con stragi e omicidi “eccellenti” di uomini dello Stato: politici, magistrati, poliziotti, carabinieri, funzionari pubblici che non si piegavano alle cosche. Negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti, riconosciuti anche dagli addetti ai lavori, ma su almeno due punti cruciali la macchina gira a vuoto: l’estensione del reato di associazione mafiosa, finora previsto solo in Italia con l’articolo 416 bis del codice penale, e la possibilità di confiscare beni alla criminalità organizzata anche in assenza di una condanna definitiva, quando gravi indizi di colpevolezza si accompagnano all’impossibilità, da parte dell’indagato o dell’imputato, di dimostrare la provenienza lecita delle proprie ricchezze. Raccomandazioni in questo senso ai Paesi membri e alla Commissione europea risuonano negli anni in risoluzioni, relazioni, direttive approvate dal Parlamento di Strasburgo, ma al momento restano lettera morta. Eppure a chiedere questi provvedimenti sono, tra gli altri, i massimi organismi giudiziari e investigativi dell’Unione europea, quelli che davvero hanno il polso del rischio mafioso in Paesi ancora largamente inconsapevoli: Eurojust ed Europol.

Innanzitutto, che cos’è il crimine organizzato per l’Unione europea? Lo fissa la decisione quadro del Consiglio del 24 ottobre 2008 (2008/841/JHA), ispirata dalla Convenzione Onu contro il crimine organizzato transnazionale del 2000: “Un’associazione strutturata di più di due persone, stabilita da tempo, che agisce in modo concertato allo scopo di commettere reati” che prevedano una pena non inferiore ai quattro anni di reclusione, “per ricavarne, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale”. Una definizione che però non soddisfa gli investigatori di Europol perché, si legge nel rapporto Socta 2017, “non descrive adeguatamente la natura complessa e flessibile dei moderni network del crimine organizzato”. All’articolo 2, la decisione quadro impone a tutti gli stati membri di prevedere il reato di organizzazione criminale in sé, indipendentemente dalla commissione effettiva di un delitto (basta il semplice accordo, o aver fatto qualcosa per preparare l’attività illecita). Dieci anni dopo, il tema è ancora sul tavolo: “Non tutti i Paesi membri hanno adottato una misura del genere”, osserva Eurojust nella relazione del 2016, “e quando lo hanno fatto, il campo di applicazione e le relative pene variano molto, e con loro la possibilità e i requisiti per applicare tecniche investigative speciali, come le intercettazioni telefoniche”. A tutt’oggi, Danimarca e Svezia non prevedono il reato di crimine organizzato: vengono puniti i singoli delitti effettivamente commessi, con l’aggravante del concorso fra più persone. Germania e Paesi Bassi hanno normative giudicate non troppo stringenti. La Bulgaria è invece un Paese che ha armonizzato il proprio ordinamento alla decisione quadro del 2008.

QUANDO LE INDAGINI SI BLOCCANO AI CONFINI

 

Ecco il primo problema con cui si scontra la lotta alla mafia in formato continentale: i 28 Paesi membri non sono d’accordo neppure su che cosa sia il crimine organizzato, e in alcuni casi neppure se un reato del genere debba esistere. Per non parlare del crimine specifico di associazione mafiosa, un’invenzione italiana (l’articolo 416 bis del codice penale risale al 1982) che non esiste altrove. Così un’inchiesta per ‘ndrangheta che parte, per esempio, da Reggio Calabria, rischia di arenarsi nei Paesi Bassi. Per questo è dal 2011 che il Parlamento europeo, con una Risoluzione votata il 25 ottobre, chiede a tutti i singoli Stati membri non solo di “far sì che l’associazione con la mafia o con altre filiere criminali costituisca un reato punibile”, ma che questo avvenga “anche in assenza di concreti atti di violenza o di minaccia”. Una postilla che si adatta al mimetismo delle cosche, che negli ultimi decenni hanno decisamente ridotto il tasso di violenza, tanto in Italia quanto all’estero, per non attirare troppe attenzioni da parte di investigatori e opinione pubblica. Sei anni dopo, però, nessun Paese ha dato seguito a quell’auspicio. Le resistenze sono così forti che quell’esortazione è scomparsa dalla relazione finale del 26 settembre 2013 prodotta della Commissione speciale sulla criminalità organizzata, la corruzione e il riciclaggio di denaro (Crim), presieduta dall’eurodeputata italiana Sonia Alfano(figlia di Beppe, giornalista assassinato in Sicilia da Cosa nostra nel 1993). Compariva, invece, nel progetto di relazione datato 10 giugno 2013.

Sempre nel 2013 era stata Europol a invocare un 416 bis europeo, in un rapporto sul crimine organizzato italiano: “Essere membro di un’organizzazione di tipo mafioso deve essere considerato un crimine per se”, si legge nel documento. “La legislazione antimafia deve essere armonizzata a livello europeo, e le richieste di estradizione per i latitanti mafiosi devono avere la priorità”. Da allora nessun passo avanti è stato fatto. Dagli europoliziotti agli eurogiudici: “L’esperienza dimostra che l’esistenza di diverse definizioni legali e la mancanza di un equivalente dell’articolo 416 bis sono la causa dei maggiori ostacoli giuridici e operativi a una efficiente cooperazione giudiziaria”, scrivono i magistrati di Eurojust nella relazione 2016. In molte culture giuridiche europee, fra l’altro, non esiste nemmeno l’obbligatorietà dell’azione penale, pilastro del sistema italiano insieme all’indipendenza della magistratura dal potere politico.

LA CONFISCA (ANCHE) SENZA CONDANNA

 

Se rincorrere i mafiosi per l’Europa è impossibile finché non si facciano sorprendere a commettere qualche altro reato, l’alternativa è colpirli al portafogli. Il pilastro della lotta alla criminalità organizzata è certamente la Direttiva sul congelamento e la confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea del 3 aprile 2014 (2014/42/Ue ). Salutata come un importante passo avanti, anche in questo caso la normativa è uscita molto annacquata dal procedimento di approvazione. Il testo finale parte dal riconoscimento che mentre i criminali transfrontalieri puntano decisamente al profitto, “i vigenti regimi di confisca estesa e di riconoscimento reciproco di provvedimenti di congelamento e di confisca non sono pienamente efficaci”. Il problema sono in particolare “le divergenze tra il diritto degli Stati”. Problema non sentito da tutti: Regno Unito e Danimarca si sono chiamati fuori, non hanno sottoscritto la direttiva e non ne sono vincolati. La Polonia ha votato contro, l’Irlanda a favore, ma limitatamente ai reati previsti dal proprio ordinamento.

Eppure il testo ha ben poco di rivoluzionario o forcaiolo. Dice semplicemente che tutti gli Stati membri devono adottare le misure necessarie “per per poter procedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali e proventi da reato”, però soltanto “in base a una condanna penale definitiva” (unica eccezione: se l’imputato è tanto malato da non poter affrontare il processo o se è latitante). All’apparenza è un’ovvietà: togliere denaro e ricchezze a qualcuno è un provvedimento grave, che tocca il diritto di proprietà, dunque si può infliggere soltanto a chi è stato giudicato colpevole senz’altre possibilità di appello. Le cose, però, stanno diversamente. In Italia, per ovvie ragioni il Paese più avanzato sul fronte delle norme antimafia, i beni possono essere confiscati, cioè incamerati definitivamente dallo Stato, anche senza una condanna definitiva. Anzi, anche in caso di assoluzione. Questo perché nei confronti di persone indiziate di reati particolarmente gravi scatta un procedimento separato e la cosiddetta “inversione dell’onere della prova”: se l’indiziato non riesce a dimostrare che il suo denaro e i suoi beni sono di provenienza lecita e documentabile, lo Stato glieli porta via. Indipendentemente dalla successiva condanna o assoluzione davanti al giudice penale. Si tratta infatti di una misura di prevenzione, una colonna della legislazione antimafia italiana, introdotta anch’essa nel 1982. La legge 646 porta fra l’altro il nome di Pio La Torre, parlamentare del Pci ammazzato da Cosa nostra a Palermo in quello stesso anno.

OCCASIONE MANCATA?

 

L’Europa, invece, ha deciso di fermarsi un passo indietro. Della delusione del fronte antimafia italiano si è fatta portavoce Sonia Alfano, già presidente della commissione Crim, che all’approvazione della direttiva ha puntato il dito contro “quegli Stati membri che preferiscono la tutela degli imputati invece che delle vittime dei reati”. Paesi come “la Germania”, i paladini dell’austerity che però “davanti alla possibilità di far recuperare alle casse dell’Unione patrimoni frutto di attività illecite hanno alzato le barricate e hanno impedito l’approvazione di un testo più efficace ed ambizioso”.

Durante la discussione della direttiva sulla confisca, gli emendamenti presentati dal Comitato per le libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeomettevano nero su bianco che una lotta efficace al crimine organizzato doveva passare necessariamente da misure indipendenti dalla condanna penale, specie sul fronte “dei beni e dei profitti”. L’identica richiesta era sostanzialmente contenuta in una serie di documenti approvati negli anni a Strasburgo, dalla risoluzione del 2011 alla relazione Alfano del 2013. E sempre nel 2013, il già citato rapporto Europol sulle mafie italiane manifestava l’esigenza di “nuove e più efficaci misure per concretizzare”, fra l’altro, “la confisca estesa e quella senza condanna”, anche ricorrendo al diritto civile, “dove l’onere della prova è ridotto”.

Come mai queste intenzioni si sono perse per strada? Tra gli oppositori della confisca senza condanna si sono distinti il Consiglio d’Europa, con la Finlandia in particolare, e il Comitato delle Regioni. Lo ricostruisce uno studio del progetto Icaro, coordinato da Nando dalla Chiesa dell’Università statale di Milano e da Anna Catasta del Centro d’Iniziativa europea, finanziato dall’Unione europea e pubblicato nel 2016: “L’opposizione era dovuta in particolare alla paura che la confisca preventiva ponesse un rischio sproporzionato in tema di protezione dei diritti di proprietà”. Sono stati Paesi con una maggiore esperienza di criminalità organizzata a premere invece per la confisca estesa, come l’Irlanda, che l’ha introdotta nel suo ordinamento nel 1996 per combattere l’ascesa delle gang locali. Oltre a quest’ultima e all’Italia, nota ancora lo studio, solo altri due Paesi prevedono circostanze aggravanti che portino alla confisca in assenza di condanna: Spagnae Croazia. Mafia (per l’Italia) e criminalità organizzata (per gli altri) sono fra queste.

Che si sia trattato di un’occasione mancata lo scrive anche la Direzione nazionale antimafia italiana nella relazione del 2016. A proposito dei “limiti” di quella direttiva, la Dna sottolinea “l’esigenza di svincolare la misura patrimoniali da una condanna per un determinato reato e consentirne l’applicazione nei casi di accertata provenienza illecita dei beni da attività criminali del soggetto”. E questo deve avvenire “anche nei casi in cui non siano stati raggiunti i requisiti probatori necessari per una condanna penale, o nei casi di fuga, decesso e immunità dall’azione penale”. I magistrati della superprocura guidata da Franco Roberti se la prendono con le “questioni giuridiche teoriche che hanno come principale effetto quello di scoraggiare ogni iniziativa in merito”, mentre, in assenza di leggi armoniche, sono sempre più numerosi i sì al sequestro e alla confisca di beni che arrivano dagli altri Stati membri all’Italia grazie alle rogatorie internazionali. Rogatorie che sono attualmente in corso con Francia (6), Paesi Bassi (2), Spagna (2), Lussemburgo (3), Irlanda (2), Austria (1) e Regno Unito (3). A mettere le toppe alle lacune delle legislazioni nazionali ci prova dunque la cooperazione. Ancora la Dna evidenzia la tendenza, da parte degli uffici giudiziari degli Stati europei ad assicurare comunque “l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro e di confisca disposti da altro Stato”.

IN ITALIA RECUPERATI 18,8 MILIARDI IN VENT’ANNI

 

La macchina giudiziaria, in qualche modo, procede per moto proprio. Allora perché l’Europa si ostina a non voler rendere più chiaro ed efficiente il sistema di aggressione ai grandi patrimoni criminali, come insegnava il giudice Giovanni Falcone? Perché rinuncia, oltre che a una misura temuta dai criminali più del carcere, come dimostrano molte intercettazioni telefoniche di inchieste italiane, a incamerare somme di tutto rilievo, magari per restituirle in parte alla collettività, come avviene in Italia con i beni confiscati e assegnati a enti pubblici o associazioni, e farci caserme dei carabinieri o attività di volontariato in territori dominati dalla mafia? Un esempio per tutti: il 3 aprile 2013 la Direzione investigativa antimafia di Palermo ha confiscato ben 1,3 miliardi di euro a Vito Nicastri, imprenditore dell’energia eolica di Alcamo (Trapani), accusato di essere un prestanome, fra gli altri, dell’ultimo grande latitante di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. La mega confisca è stata confermata due anni dopo dalla Corte d’appello anche in assenza di una condanna per mafia contro l’imprenditore. Un colpo da record, certamente, ma in Italia provvedimenti del genere per decine e spesso centinaia di milioni a danno di mafiosi e colletti bianchi sono all’ordine del giorno. Fra il 1992 e il 2016 ha sequestrato 21,3 miliardi di euro (15,2 senza condanna) e confiscato 8,5 miliardi (7,6 senza condanna). Un tesoro, specie in tempi di casse pubbliche languenti.

GARANTISMO E GIUSTIZIALISMO A BRUXELLES

 

Quella che sta andando in onda nelle massime istituzioni europee sembra l’eterna lotta tra garantismo e “giustizialismo”, anche se con le lancette indietro di tre decenni rispetto al dibattito italiano. La confisca senza condanna, peraltro, ha ricevuto più volte il via libera della Corte europea dei diritti dell’uomo, come osserva nei suoi numerosi studi il magistrato Francesco Menditto. Non si tratta di pene inflitte senza processo, hanno chiarito i giudici, ma di misure di prevenzione. Del tutto proporzionate, dato che “i guadagni smisurati che le associazioni di stampo mafioso ricavano dalle loro attività illecite danno loro un potere la cui esistenza mette in discussione la supremazia del diritto nello Stato”. E’ per questo che “i mezzi adottati per combattere questo potere economico, e in particolare la confisca controversa, possono essere indispensabili per poter efficacemente combattere tali associazioni” (Cedu 5 gennaio 2010, Buongiorno e altri contro Italia). Del resto la confisca senza condanna non è la stranezza di un Paese in cui le mafie hanno provocato migliaia di morti, di cui quasi mille “innocenti”, secondo i calcoli di Libera, che le ricorda nome per nome ogni 21 marzo, giornata dedicata alla loro memoria.

“Negli Stati Uniti”, osserva Menditto, “è sufficiente la dimostrazione iniziale, da parte dell’accusa, di una probable cause per spostare l’onere probatorio sulla difesa, che deve portare elementi che denotano l’estraneità del bene alla dinamica delittuosa”. Diversi tipo di confisca senza condanna, inoltre, sono già previsti in diversi Paesi membri, nota il citato studio di Icaro: oltre all’Italia, anche Regno Unito, Irlanda, Austria, Bulgaria e Slovacchia. E proprio come il 416 bis per tutti, è stato lo stesso Parlamento europeo, con la citata risoluzione del 2011, a invocarla come misura che avrebbe “reso più difficile ai criminali l’occultamento dei beni”. Invano. Così “i magistrati italiani saranno costretti a continuare a seguire tortuose e incerte vie di cooperazione con gli omologhi degli Stati membri, confidando, volta per volta, sulla sensibilità di una corte straniera che appare non poco variabile da Paese a Paese”, scrive la Commissione parlamentare antimafia italiana, presieduta da Rosy Bindi, nella relazione sui beni confiscati del 9 aprile 2014, a direttiva sulla confisca ancora calda di approvazione.

La macchina del contrasto comunitario alla criminalità fa piccoli progressi, ma sui fronti più delicati sembra girare a vuoto. Il 7 ottobre 2016 il Parlamento europeo ha approvato la relazione sulla lotta contro la corruzione, curata dall’eurodeputata Laura Ferrara, che in parte fa proprio il lavoro della commissione Alfano. Nelle 35 pagine risuonano di nuovo gli stessi auspici, rivolti alla Commissione: la “punibilità dell’associazione a delinquere indipendentemente dalla consumazione di reati fine”, una legislazione specifica su “un particolare tipo di organizzazione criminale i cui membri approfittano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà” (in pratica, il 416 bis italiano), “la confisca in assenza di condanna definitiva”. Come in un disco rotto.

LA POLITICA E LA “QUESTIONE ITALIANA”

 

La storia italiana insegna che le misure antimafia più rigorose ed efficaci sono state prese sull’onda di gravi fatti di sangue, come gli assassinii del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa e del deputato Pci Pio La Torre a Palermo, nel 1982. Significativamente, la strage di ‘ndrangheta a Duisburg del 2007 ha infiammato per un certo periodo il dibattito sull’espansione della mafie italiane in Europa. Senza fatti di sangue, l’attenzione alla lotta alla mafia cala (anche se di solito è proprio nei periodi di pax mafiosa che i clan si consolidano e danno l’assalto all’economia pulita). Il caso europeo conferma la regola. Così cadono nel vuoto gli allarmi più autorevoli: “Nel cuore dell’Europa il riciclaggio di capitali delle mafie nei più svariati settori è un fenomeno in costante crescita e il rischio di una occulta colonizzazione economico-mafiosa di zone crescenti del territorio europeo non è da sottovalutare”, spiegava già il 30 marzo 2011 a Strasburgo Roberto Scarpinato, magistrato di Palermo fra i più acuti osservatori del fenomeno. “La lezione che si trae dalla diffusione delle mafie nelle regioni del Nord dell’Italia che si ritenevano immunizzate è un campanello di allarme che non squilla solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa. La costruzione di un progressivo diritto penale comunitario contro la criminalità organizzata transazionale che preveda un campionario omogeneo di reati, di strumenti di indagine e di confisca è un obiettivo di medio periodo essenziale”. Invece, come abbiamo visto, è con grande difficoltà che il Parlamento europeo, massimo organo legislativo a elezione diretta dell’Unione europea, si occupa di mafie. I motivi sono giuridici, politici e non solo. Bisogna considerare che Bruxelles ha un’esperienza relativamente recente sul fronte della lotta alle organizzazioni criminali di stampo mafioso. La citata commissione Crim aveva un presidente (Sonia Alfano) e due vicepresidenti (Rosario Crocetta e Salvatore Iacolino) italiani: veniva vista, insomma, come una commissione creata da parlamentari italiani per problemi italiani.

“Un’accusa che ci veniva mossa è che di mafie in Europa parlavamo solo noi eurodeputati italiani, come se fosse un chiodo fisso soltanto nostro”, racconta a ilfattoquotidiano.it Laura Ferrara, eurodeputata del Movimento 5 Stelle. “Probabilmente è necessario del tempo perché anche gli altri Paesi siano consapevoli che quello delle mafie è anche un problema europeo ed extraeuropeo”. Un legame – quello tra le mafie e l’Italia – che somiglia da vicino a quello tra il terrorismo e la Spagna. A ricordarlo è Juan Fernando López Aguilar, ex ministro della Giustizia di José Zapatero ed europarlamentare del Partito socialista. “Quando la Spagna aveva il problema del terrorismo – racconta – abbiamo chiesto aiuto agli altri Stati membri dell’Unione, abbiamo fatto più volte il punto con loro sulle strategie da adottare per combatterlo. Ma molti Paesi, come il Lussemburgo o la Finlandia, non avevano mai avuto alcuna esperienza diretta e in questo senso si sentivano molto lontani da noi: sembrava che il terrorismo fosse un problema solo nostro. Adesso si è capito che è una minaccia per tutti e l’esperienza spagnola è diventata fondamentale per tutta l’Unione. Ecco: la stessa identica cosa che sta capitando con la criminalità di stampo mafioso”.

DIRITTO E “GELOSIA”

 

Al netto delle divergenze politiche e sociali, però, abbiamo visto che a pesare sulla lotta europea alle mafie ci sono problemi tecnici e giuridici legati alla differenza tra i vari codici penali. “L’obiettivo principale è lavorare su un maggiore coordinamento delle autorità investigative. Purtroppo come si sa questo si scontra con una certa resistenza da parte di certi ordinamenti e culture giuridiche”, denuncia Elly Schlein, europarlamentare italiana eletta con il Partito democratico, copresidente dell’Intergruppo su integrità, trasparenza e criminalità organizzata (Itco). “A ottobre – dice la deputata – abbiamo approvato un follow up della risoluzione Crim del 2012. È stato un passo importante: il Parlamento chiede una definizione a livello europeo del reato di associazione mafiosa e delle condotte illecite a esso connesse”. Ancora una volta, durante il lavoro i parlamentari dei Paesi Bassi si sono messi per traverso. A raccontarlo è Ferrara. “Abbiamo avuto una forte resistenza da parte dei colleghi olandesi che fino all’ultimo hanno cercato di presentare degli emendamenti per stralciare il riferimento all’associazione di stampo mafioso”, racconta l’eurodeputata italiana.

E dire che proprio i Paesi Bassi esprimono l’altro presidente dell’intergruppo sulla criminalità organizzata: Dennis De Jong del Partito socialista, che però ha negato un’intervista al fattoquotidiano.it sul tema. Il motivo? “Il nostro partito è sempre stato molto critico sull’introduzione di una nuova normativa a livello europeo per la lotta alle criminalità organizzate”, è la risposta fornita dallo staff del deputato olandese alla nostra richiesta d’incontrare l’europarlamentare a Bruxelles. Sarebbe stato molto utile intervistare De Jong proprio per capire i motivi della sua posizione, ma alla nostra seconda email il suo ufficio ha risposto ancora una volta in maniera negativa. “Purtroppo il signor de Jong non ha tempo a disposizione per una breve intervista. Ci dispiace, ma considerando l’agenda occupata dobbiamo dare priorità agli incontri con i media olandesi, che portano le notizie ai nostri elettori”.

“Purtroppo molti colleghi non riescono a vedere come le mafie si stiano diffondendo in tutta l’Unione europea: non hanno questa sensibilità”, spiega ancora Schlein. “E finché non riusciamo ad armonizzare gli strumenti di contrasto sarà difficile vedere anche una lotta efficace a un livello superiore di quello nazionale”. La parola d’ordine è appunto l’armonizzazione dei sistemi giuridici: fare in modo che le varie dottrine giurisprudenziali trovino un punto comune, una sorta di porto franco legislativo in cui applicare una normativa speciale per combattere le mafie. “Era già previsto nel  Trattato di Lisbona, che sancisce la nascita del diritto penale europeo. Si tratta quindi di applicare e riempire di significato i concetti lì contenuti. Basta semplicemente rispettare quella che era una promessa politica”, dice Lopez Aguilar. Ferrara, però, la vede in maniera più complessa. “In Europa – spiega – ci si scontra con ventisette diverse tradizioni giuridiche.

Se ad esempio il sistema italiano funziona con l’obbligatorietà dell’azione penale, in alti Stati membri si procede invece seguendo priorità che vengono stabilite a livello governativo di anno in anno. Quindi – continua – se la lotta alla criminalità organizzata non è inclusa in quelle priorità, nel momento in cui arriva una richiesta – faccio un esempio – dall’Italia ai Paesi Bassi per collaborare su una determinata indagine, loro magari non le danno seguito perché non la reputano una priorità”. Qual è il rischio? Le deputate italiane intervistate sono d’accordo. “In questo momento le organizzazioni mafiose sfruttano meglio i vantaggi garantiti dalla libera circolazione prevista nell’Unione europea rispetto a come riescono a fare i privati cittadini. Sfruttano i ‘buchi’ per andare a delinquere là dove sanno che non potranno essere perseguiti”. Il già citato “shopping giuridico”. Così, senza una legislazione chiara e unitaria l’Europa rischia di diventare un porto franco per le mafie di mezzo mondo.

MA SERVE DAVVERO UN 416BIS PER TUTTI?

 

C’è però chi è scettico sulla strada penale del “416 bis per tutti”. Come il professor Ernesto Savona, direttore di Transcrime, il centro interuniversitario che ha prodotto studi approfonditi e innovativi sugli investimenti mafiosi in Europa. Ed è proprio qui che, secondo il professore, bisogna focalizzarsi. “Si va verso mafie più ‘ristrette’ e flessibili, con meno omicidi e più soldi che girano”, afferma il professore a ilfattoquotidiano.it. In questo quadro “è inutile sfiancarsi a chiedere una normativa antimafia unica, e la stessa Commissione antimafia del Parlamento europeo non ha prodotto niente. Datemi invece una possibilità di confisca internazionale che funzioni davvero”. Il resto lo può fare “una maggiore cooperazione fra le polizie nazionali, e una maggiore formazione. Bisogna andare a tagliare i fili tra i capitali sporchi e quelli puliti”, conclude Savona.

A proposito della cooperazione investigativa, la Procura europea si avvia a diventare la terza grande incompiuta della lotta alle mafie a livello comunitario. La relazione 2015 della Direzione nazionale antimafia italiana sottolineava che mentre gli sforzi di coordinamento tra uffici giudiziari stavano dando frutti, l’esito dei negoziati in sede Ue su quel fronte erano stati “piuttosto deludenti”. Questo mentre le singole procedure di cooperazione sono appesantite da “formalismi eccessivi e di tempi talvolta inaccettabili”. Anche perché, continua la Dna, “alcune Autorità ritengono ancora che la criminalità di stampo mafioso sia esclusivamente un problema italiano e ne sottovalutano la capacità di operare a livello transnazionale”. Eurojust pone invece l’accento sulle difficoltà di adottare strumenti efficaci come le intercettazioni telefoniche quando un’indagine varca i confini nazionali, sia pure interni all’Ue: “I diversi standard delle legislazioni nazionali sono tuttora una sfida significativa nell’utilizzo delle intercettazioni delle telecomunicazioni, in particolare sotto l’aspetto dell’ammissibilità della prova”, si legge nella relazione annuale 2017.

LA PAROLA AGLI INVESTIGATORI

 

Il sogno del moderno poliziotto antimafia lo traduce per noi David Ellero, responsabile di Europol per la lotta al crimine organizzato: “Avendo una notizia di attività criminali locali all’estero, la stazione dei carabinieri di Messina dovrebbe poter chiamare la stazione di Duisburg con la stessa facilità con cui chiama la stazione di Milano”. Ufficiale dell’Arma distaccato a L’Aia, dove la polizia europea ha il suo imponente quartier generale, Ellero sperimenta tutti i giorni le conseguenze delle grandi incompiute europee in fatto di lotta alla mafia: “In alcuni Paesi se uno compra in contanti un’auto da 60mila euro nessuno gli dice nulla. E il collega magari mi chiede di portargli le prove che quei soldi siano proventi di reato”. E’ il caso della Germania. A Berlino la famosa inversione dell’onere della prova non è contemplata, anche se una nuova normativa è in discussione. “Ecco la miscela esplosiva”, continua Ellero. “In Olanda se do del mafioso a uno, quello mi può querelare, perché lì il reato non esiste. Anzi, in alcuni Stati membri i precedenti penali vengono cancellati dalle banche dati dopo pochi anni”. Chiediamo al dirigente di Europol se, mentre l’armonizzazione legislativa resta un miraggio, abbia notizia di infiltrazioni mafiose in grandi appalti europei. La risposta è disarmante: “Non lo so perché non ho gli strumenti per verificarlo”. Il rischio esiste, perché “fuori dall’Italia non si può chiedere la certificazione antimafia. Se il mafioso apre sua azienda altrove non lo controlli più”. Se potesse chiedere dei provvedimenti al legislatore dell’Ue, oltre al 416 bis e alle confische senza condanna, Ellero punterebbe proprio su un “pacchetto di normative per esclusione da appalti di chi è in odore di mafia”.

Se è difficile inseguire i mafiosi, figuriamoci i colletti bianchi. “I professionisti asserviti a organizzazioni mafiose, noi in Italia li perseguiamo con concorso esterno, ma all’estero…”, si interrompe sorridendo l’analista della Direzione investigativa antimafia italiana che ci accoglie nella sede romana del gruppo interforze voluto da Giovanni Falcone. Più lisce le indagini per riciclaggio, materia in cui la legislazione europea è più uniforme e coerente con la direttiva in materia (2015/849). Anche se la pratica non è uniforme: “Francia e Spagna si ‘fidano’ dei nostri provvedimenti”, svela, “perché provengono dall’autorità giudiziaria, sono impugnabili e sono stati riconosciuti validi dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo”. D’altro canto, però, “in Germania e Francia aprire un procedimento per criminalità organizzata non è facile”, spiega il primo dirigente Fabrizio Fantini, che nella Dia è responsabile delle relazioni internazionali. “Il magistrato vuole la prova provata prima di disporre intercettazioni. Così è difficile approfondire, per esempio, un arricchimento ingiustificato, o un clan che si sta formando. Per questo insistiamo su misure di prevenzione, per esempio per far sì che non siano concesse licenze a soggetti pericolosi”. Perché i confini, in Europa, esistono solo per magistrati e forze dell’ordine: una concessione per il gioco on line presa in Austria, in virtù della libera circolazione può essere fatta valere in tutta l’Ue. Poi ci sono i “buchi”: “Le Antille olandesi fanno parte dei Paesi Bassi, ma lì il mandato di cattura europeo non vale. E i criminali lo sanno”. Dalle Antille alle Cayman il passo è breve e apre il tema delle attività finanziarie non tracciabili. “L’offshoreè tema centrale nel contrasto”, conclude Fantini. “E con la Brexit, chi ci dice che il Regno Unito non diventi un diventi paradiso fiscale?”. FQ