Nascita del pool antimafia. Una domenica a casa di Rocco Chinnici

Il POOL ANTIMAFIA – RAI Storia


Nascita del pool antimafia. Una domenica a casa di Rocco Chinnici di Felice Cavallaro

Avevano ucciso Cesare Terranova da tre mesi quando Rocco Chinnici, nominato al suo posto capo dell’Ufficio istruzione, si ritrova il 6 gennaio del 1980 all’ora di pranzo in via Libertà, a Palermo, davanti alla macchina da dove Piersanti Mattarella, ferito a morte, era stato appena tirato fuori dal fratello, Sergio.
Un’immagine iconica dell’inferno in cui precipitava la città sfregiata dall’assalto della mafia. Segno di una devastazione che, prima dell’agguato al presidente della Regione, era costata la vita nel 1979 anche al cronista giudiziario Mario Francese, al segretario provinciale della Dc Michele Reina, al capo della Squadra Mobile Boris Giuliano, allo stesso Terranova, pronto a rientrare al palazzo di giustizia dopo un’esperienza in parlamento, in commissione antimafia.

 E’ in quella drammatica Epifania che si salda l’intesa di Chinnici con Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, i due magistrati allora appena cooptati per costruire un gruppo di lavoro, appunto il famoso “pool” di cui il nuovo Consigliere istruttore parla ai suoi “ragazzi” indicando il modello seguito in Piemonte, Lombardia e altre aree del Nord per combattere il terrorismo.

 Mentre il pur diviso pianeta antimafia ricorda il trentunesimo anniversario della strage di via D’Amelio, consumata nel 1992 per uccidere Borsellino a 57 giorni dall’apocalisse di Capaci, per capire quella rivoluzione, bisogna ripercorrere passi ed emozioni, scelte e atti giudiziari dei tre protagonisti sconvolti dall’assalto di Cosa nostra, pronta a decapitare i capi della politica, dell’apparato inquirente, della stessa magistratura. 

Come reagire? Che fare? Allora Chinnici, Falcone e Borsellino e pochi altri convergono su un piano, capiscono che ci vuole una svolta nella lotta alla mafia, una nuova mentalità, un diverso metodo di lavoro e che servono nuove norme legislative.
Di questo si discute una domenica a casa Chinnici, come racconta il figlio del magistrato, Giovanni, oggi avvocato, in una pagina del libro da lui recentemente pubblicato, a 40 anni dall’assassinio del padre, vittima della strage di via Pipitone Federico il 29 luglio 1983 insieme con due carabinieri di scorta e il portiere del palazzo.

Entriamo con Giovanni, allora quindicenne, nello studio di Chinnici che quella domenica ha invitato a pranzo Giovanni Falcone. Terzo piano del palazzo che tre anni dopo sarà devastato dalla prima autobomba stile libanese. La madre è in cucina, le sorelle studiano nelle loro camere e il ragazzo, non lontano dal padre che non si accorge di lui ascolta una vera e propria lezione di mafia al magistrato arrivato dalla “fallimentare”.

Un ricordo nitido. Una storia che comincia nel 1975 quando Chinnici viene nominato Consigliere istruttore aggiunto di un ufficio poi cancellato dal nuovo codice. Caustica la sua battuta: “Allora dicevo che ero della CIA, appunto Consigliere Istruttore Aggiunto”. Una battuta e una lezione che parte addirittura dal 1967, quando Chinnici istruì il suo primo processo: “Con imputati assolti per insufficienza di prove, mentre in appello furono assolti con formula dubitativa per l’omicidio, ma condannati tutti per associazione a delinquere. Con sentenza confermata in Cassazione”. Di qui la considerazione che gli “associati” fossero legati per affiliazione o per interessi particolari a una “regia” della mafia e che per combatterla occorresse contrapporre “una regia unica”.

 Ai ricordi di Giovanni Chinnici e alle pagine del suo libro potrei aggiungere qualche dettaglio personale essendo stato dal 1979 affittuario del padre in quel palazzo, coinquilino dell’appartamento a fianco, per sua offerta arrivata mentre cercavo “una casa più sicura” dopo l’agguato mortale a Francese, il giornalista mio compagno di scrivania.

Combaciano e s’intrecciano i ricordi personali di lunghe conversazioni e quelli del figlio. Ricordi che rivelano una amara confidenza su alcuni magistrati in servizio negli anni Settanta, soprattutto quando nel 1975 si provò a ostacolare quella linea attivata da Chinnici. E per contrastarla si pensò a una sorta di patto sotterraneo fra tanti avvocati e parte dei giudici, con l’idea di perseguire solo “reati specifici” e non più l’associazione, la pur semplice associazione a delinquere.

Sintetizzava la storia di quegli anni Chinnici raccontando a Falcone i suoi primi processi: “Io avevo utilizzato elementi che potevano apparire anche tenui”. Ed ancora: “Se oggi ammazzano uno a Uditore, un altro allo Sperone e uno ancora a Borgo Vecchio, io dovrei assegnarli a tre giudici diversi, ma così non ci capiamo niente. Se va bene, ci fermiamo al primo livello e arrestiamo quattro canazzi che ammazzano.

Ma se i tre giudici lavorano insieme e legano tutta una serie di dati, dai canazzi possiamo arrivare a chi li manda, il secondo livello, appunto la regia unica…”.

Si lavorava a quel tempo senza intercettazioni, pentiti e nemmeno indagini bancarie. Ma Chinnici, pensando soprattutto agli esattori Nino e Ignazio Salvo, aveva intuito le relazioni esterne dei mafiosi, esplicito con Falcone, mentre Giovanni ascoltava: “Hanno amicizie nella politica, nelle banche, nell’economia. In mezzo c’è anche qualche nostro collega. Non dico organico, ma chiude un occhio, trova raffinate soluzioni giuridiche per escludere la responsabilità invece di affermarla. In cambio di una Mercedes o di una casa o di un posto per il figlio… Oppure in osservanza di una discutibile massima: ‘quieta non movere et mota non quietare’”.

Parlava del terzo livello, quello dei colletti bianchi: “E temo qualche copertura istituzionale”.
Con Falcone, sorpreso: “A Roma?”. “Si, a Roma”. E Falcone: “Minchia! E come ci arriviamo, noi, a Roma?”.
Quanto basta perché Giovanni Chinnici oggi rifletta su un pezzo di storia giudiziaria vissuta da testimone: “Credo che quella domenica sia nato il pool antimafia”.
Nacque quella domenica certamente l’idea di pensare a una nuova più incisiva normativa, facendo leva sull’ “associazione”, ma da definire meglio. Di questo, sempre nello studio di quel terzo piano, Chinnici avrebbe parlato più volte anche con Pio La Torre, il segretario del partito comunista, il parlamentare con il quale ipotizzarono il reato di “associazione di stampo mafioso”, il 416 bis, inserito nel codice penale, nel quadro di una legge che porta il nome di La Torre e dell’ex ministro Virginio Rognoni. Legge approvata però solo dopo il massacro dello stesso La Torre e del suo fido Rosario di Salvo (30 aprile 1982) e dopo l’eccidio di Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre) caduto con la moglie Emanuela e l’agente Domenico Russo.

Una stagione di eventi cruenti e di scelte normative segna l’avvio di quel pool che comincia a fare paura a chi governa, a chi ha un piede nella mafia e un altro tra affari e politica. Prova del “concorso esterno” di una “zona grigia” da colpire come intuiranno Falcone e Borsellino quando decideranno di miscelare quel “416 bis” con l’articolo 110 per definire il “concorso” che da qualche tempo tanti vorrebbero meglio tipizzare, come propone l’attuale ministro della giustizia.
Che sia necessario combattere le “zone grigie” della “complicità” fra mafia ed esterni “con la stessa fermezza con cui si contrasta l’illegalità”, nel giorno dell’anniversario di via D’Amelio, lo ha ribadito Sergio Mattarella, il presidente della Repubblica fotografato quella drammatica Epifania mentre tirava fuori dall’auto il fratello Piersanti. A riprova, 43 anni dopo, dell’attualità della visione di Chinnici, leva per Falcone e Borsellino di un ulteriore passaggio destinato a colpire le connivenze, strada maestra per giungere al maxi processo.
Ma attenti, oggi come allora, al doppio gioco. Come Chinnici capì negli ultimi tre roventi anni della sua vita. Anche dopo l’approvazione della Rognoni-La Torre, quando replicò immediato all’intervista di un notabile del tempo, l’onorevole Salvatore Grillo, ras della Democrazia cristiana nel trapanese, vicino ai Salvo. Aveva parlato di legge illiberale, di legge anti-siciliana e dei contraccolpi all’economia, quel deputato. Redarguito dal padre del pool: “La legge semmai può sanare l’economia”. 27.7.2023 DIRITTO GIUSTIZIA COSTITUZIONE


BREVE STORIA DI UN POOL ANTIMAFIA

 

22 giugno 1989. Lo hanno ironicamente definito sceriffo, giudice-poliziotto, ammalato di protagonismo. Ma lui, Giovanni Falcone, non ha mai replicato, ha continuato sempre per la sua strada a lavorare su montagne di atti processuali all’ interno del suo ufficio trasformato in bunker, andando all’ estero per interrogare i pentiti, dando una svolta, con gli accertamenti bancari, alle indagini sulla mafia. La sua strada all’ interno e fuori dai palazzi è sempre stata piena di ostacoli, il suo impegno, il suo sacrificio non sono mai stati premiati. Quando il suo capo, il consigliere istruttore Antonino Caponnetto, lasciò Palermo, Falcone era ritenuto il successore naturale. Ma all’ esperienza, venne preferita l’ anzianità.

Il 19 gennaio dello scorso anno il Csm decide nominando capo dell’ ufficio istruzione Antonino Meli. E’ l’ inizio del tracollo del pool antimafia. 

Un pool nato da fatti contingenti, dai morti che insanguinano le strade di Palermo, da una mafia che mira sempre più in alto trucidando magistrati, politici, giornalisti. 

Lo scontro non è fra uomini, ma sui modi di intendere la lotta alla mafia. Per Falcone il fenomeno è da affrontare complessivamente, per altri, con il beneplacito del presidente della prima sezione della corte di Cassazione Corrado Carnevale, Cosa nostra non è una organizzazione unitaria e verticistica. Il pool nasce subito dopo l’ uccisione del consigliere istruttore Rocco Chinnici, assassinato nel luglio del 1983. 

Il suo successore, Antonino Caponnetto prende le redini di un ufficio istruzione smarrito, mettendo in piedi una squadra di giovani ed abili magistrati che si occupano esclusivamente degli affari di Cosa nostra. Giovanni Falcone diventa il capo di questo pool. Da undici anni lavora a Palermo, e la sua prima esperienza, il processo contro le famiglie Spatola-Gambino-Inzerillo, colpisce al cuore gli affari di Cosa nostra. Falcone anticipa i suggerimenti della legge Rognoni-La Torre e mette il naso nei bilanci della piovra. Il processo si conclude con pesanti condanne. 

Il pool acquisisce un’ esperienza utilissima, i pentiti danno un grosso contributo, si mette assieme un mosaico di proporzioni mastodontiche dal quale scaturisce il primo maxi-processo. Vengono mandati alla sbarra quasi cinquecento imputati, viene ricostruita la mappa di Cosa nostra, delle famiglie che la compongono. Poi arriva il consigliere Antonino Meli, un magistrato vecchio stampo che gode fama di galantuomo. 

I suoi metodi non sono però condivisi dai suoi uomini. Il pool si spacca, Giuseppe Di Lello e Giacomo Conte, abbandonano. Falcone minaccia di dimettersi ma poi resta al suo posto. Lo scontro tra le due filosofie ha il suo momento critico nel luglio scorso. In una intervista a La Repubblica e l’ Unità, Paolo Borsellino procuratore della Repubblica di Marsala che per anni era stato compagno di squadra di Falcone, fa una grave denuncia. 

Le indagini su Cosa nostra dice il magistrato si disperdono in mille rivoli, mentre la mafia si riorganizza. Borsellino denuncia un calo di tensione nella lotta alla piovra. Interviene il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che chiede di fare chiarezza. Il caso viene gestito dal Csm che si spacca. Alla fine, dopo quattro giorni di udienze e venticinque interrogatori il supremo organo della magistratura stila un documento che tenta faticosamente di mediare fra le due posizioni. Dà ragione sia a Meli che a Falcone, ma del pool non rimane che il nome soltanto.


PAOLO BORSELLINO: “Lo Stato si è arreso. Del pool sono rimaste le macerie”

 

“La lotta alla mafia? I segnali non sono certo molto incoraggianti. Per almeno tre ragioni: il giudice Falcone non è più il titolare delle grandi inchieste che iniziarono con il maxi-processo, la polizia non sa più nulla dei movimenti dentro Cosa Nostra, e poi ci sono seri tentativi per smantellare definitivamente il pool antimafia dell’ufficio istruzione e della procura della Repubblica di Palermo. Stiamo rischiando di creare un pericoloso vuoto, stiamo tornando indietro, come dieci, venti anni fa…”.

Il procuratore capo di Marsala, Paolo Borsellino, lancia a sorpresa un violentissimo “j’accuse” sulle grandi manovre in corso in Sicilia. Parla di indagini arenate, delle polemiche che avvelenano ormai da mesi il clima negli uffici investigativi e nei palazzi di Giustizia di mezza isola, della riorganizzazione di Cosa Nostra e di uno Stato che sembra quasi aver gettato la spugna.
“Sì, la situazione è davvero pericolosa”, spiega il procuratore Borsellino che del pool antimafia faceva parte insieme a Falcone, Di Lello, Caponnetto e Guarnotta, “basti pensare a cosa sta accadendo nel bunker dell’ufficio istruzione…
A Falcone, dopo tanti anni, hanno tolto la titolarità di quelle inchieste che gli vennero affidate dal consigliere istruttore Rocco Chinnici”.

Il giudice Falcone quindi non è più il punto di riferimento delle inchieste antimafia? “Fino a qualche mese fa tutto quello che riguardava Cosa Nostra passava sulla sua scrivania e su quella di altri tre o quattro giudici istruttori. Adesso la filosofia è un’altra: tutti si devono occupare di tutto e il consigliere Antonino Meli, dopo un tira e molla di qualche mese, è diventato il titolare dello stralcio del maxi-processo.  C’è stato un taglio netto con il passato. Certo, anche Caponnetto era il titolare delle inchieste sui boss del bunker ma lui, quel processo, l’aveva costruito. Adesso dubito, senza mettere in discussione la bravura, l’onestà e la competenza di Antonino Meli, che il nuovo consigliere possa, in un paio di mesi, avere acquisito una tale conoscenza del fenomeno”.

Un problema che molti si erano posti prima della nomina del nuovo consigliere istruttore… “Si è arrivati a delle scelte sbagliate. Non intendo riaprire la polemica sulla nomina del consigliere Meli ma il problema era un altro: si doveva nominare Falcone consigliere istruttore non per “premiarlo” ma per garantire una continuità all’ufficio. E invece…”.

E invece signor procuratore? “E invece succedono cose molto strane. Ad esempio io sono il titolare di un’inchiesta sulla mafia di Mazara del Vallo. Un pezzo dell’indagine è a Palermo e un pezzo ce l’ho io. Ho scritto all’ufficio istruzione di Palermo per avere indicazioni su chi dovrebbe occuparsi dell’intera inchiesta. Non mi hanno mai risposto. Prima, tutte le indagini venivano centralizzate a Palermo. Solo così si è potuto creare il maxi-processo, solo così si è potuto capire Cosa Nostra ed entrare nei suoi misteri. Adesso si tende a dividere la stessa inchiesta in tanti tronconi e, così, si perde inevitabilmente la visione del fenomeno. Come vent’anni fa”.

Perchè questa inversione di rotta improvvisa? “Tutto questo, senza fare dietrologie, si sta verificando in un momento di grande stanchezza, in un momento dove si credeva a torto che con il maxi-processo la mafia era stata sconfitta, che tutto si doveva risolvere nell’aula bunker. E così si è lasciato perdere tutto il resto”.

Un mese fa il giudice Falcone ha lanciato pesanti accuse alle forze di polizia, oggi lei rincara la dose sostenendo che gli investigatori di Palermo non fanno più nulla. “La situazione delle forze investigative è molto chiara: non esiste una sola struttura di polizia in grado di consegnare ai giudici un rapporto sulla mafia degno di questo nome. L’ultimo dossier di un certo peso l’abbiamo ricevuto sei anni fa, esattamente il 13 luglio del 1982. Ed è il rapporto su Michele Greco e centosessantuno boss della nuova mafia. Da allora, se si escludono alcuni lavori investigativi del reparto anticrimine dei carabinieri, c’è stato il vuoto, il vuoto assoluto”.

La squadra mobile di Palermo è investita da una bufera di polemiche, il suo poliziotto più rappresentativo, Accordino, è stato trasferito prima a Bressanone e poi alla polizia postale di Reggio Calabria. Cosa è accaduto in questa struttura investigativa? “Dopo l’uccisione dei commissari Cassarà e Montana la situazione è andata deteriorandosi rapidamente. Non capisco proprio cosa voglia dire adesso il capo della squadra mobile di Palermo Nicchi quando sostiene pubblicamente che sta lavorando per la normalizzazione”.

Procuratore Borsellino, cosa sta succedendo invece nel pianeta mafioso? “Io posso solo avanzare ipotesi perchè non abbiamo notizie sicure. Oggi siamo nella fase della eliminazione degli alleati. Quando i corleonesi presero la decisione di eliminare i vecchi capi storici della mafia siciliana, si allearono con una serie di clan. Adesso c’è un vero e proprio regolamento di conti interno”.

Lei qualche giorno fa alla presentazione del libro “La mafia di Agrigento” in sintonia con Falcone ha ripetuto che il terzo livello mafioso non esiste. Cosa significa? “Tutte le inchieste ci dicono che la mafia è un’organizzazione di tipo militare. Quando abbiamo trovato dentro Cosa Nostra rappresentanti del mondo politico o imprenditoriale ci siamo accorti che non ricoprivano mai ruoli di grande responsabilità. Si, tanti personaggi politici si servono dei mafiosi o si scambiano favori con i boss. Ma questo è un altro discorso. Del resto anche Buscetta fa intendere certe cose dicendo però che su quel fronte non vuole dire nulla, non vuole fare nomi”.

Signor procuratore, perchè questo sfogo, perchè ha deciso di uscire allo scoperto su un tema così scottante? “Perchè dopo tanti anni di lavoro, prigioniero nel bunker di Palermo, sento il dovere di denunciare certe cose. E anche perchè non sono venuto qui a Marsala per isolarmi. Io sono venuto a fare il procuratore della Repubblica a Marsala per continuare ad occuparmi di mafia, per lavorare qui ma lavorare contemporaneamente anche con Falcone a Palermo, con il giudice ad Agrigento, con altri magistrati a Catania o a Trapani. E invece tutto questo non sembra possibile. Le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata, come prima, più di prima” . Intervista rilasciate da Paolo Borsellino ad Attilio Bolzoni de “La Repubblica” 20 Luglio 1991

 

 

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