C’era una volta il pool antimafia, LEONARDO GUARNOTTA e una vita nel bunker

LEONARDO GUARNOTTA, magistrato antimafia con Borsellino e Falcone

 

 

Il “bunker”, lì dove passo dopo passo è nato il maxi processo a Cosa Nostra

Il “bunkerino” è uno stretto corridoio di una quindicina di metri, almeno credo, dato che non abbiamo mai pensato di misurarlo, cui si accedeva da una porta in ferro con la vernice scrostata e mai riverniciata. All’esterno era installata una telecamera che consentiva di vedere chi vi accedesse. All’interno, sulla destra, si apriva una prima stanza adibita a segreteria, subito dopo quella di Giovanni, e poi ancora quella di Paolo.
In fondo c’era un angusto locale, occupato da Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto alla strage di via Pipitone Federico, quando venne ucciso il giudice Rocco Chinnici. Paparcuri aveva ripreso a lavorare presso il nostro ufficio e, con grande spirito di servizio, dedizione e impegno non comune, si era riconvertito in un ottimo, esperto informatico.

Sul lato sinistro si apriva la porta che immetteva nell’archivio. In quei locali erano custodite centinaia di faldoni contenenti gran parte delle copie degli atti raccolti a decorrere dai primissimi anni Ottanta. E, nonostante la mole di carte fosse lievitata sino a farsi smisurata, tutti noi eravamo diventati in grado di individuare il faldone in cui era conservato il documento che, tra migliaia, ci interessava consultare.

Quei documenti erano ancora lì il 5 gennaio 1995, quando, come giudice istruttore in proroga, misi fine all’esperienza del pool antimafia con il deposito del cosiddetto maxi-quater, ovvero l’ordinanza-sentenza a carico di Alfano Michelangelo + 183, ai quali si contestavano una quarantina di reati.

All’esterno del “bunkerino”, lungo il corridoio del primo piano rialzato, si trovavano le stanze occupate da me (prima di posizionarmi in quella lasciata da Paolo) e da Giuseppe Di Lello, nonché una spaziosa stanza adibita a ufficio di quel manipolo di finanzieri, al comando del capitano Ignazio Gibilaro, che ci ha fattivamente e provvidenzialmente supportati nell’esame della copiosissima documentazione bancaria (assegni, libretti di risparmio, distinte, transazioni) nella quale, altrimenti, ci saremmo persi.

Fuori dalla porta del “bunkerino” stazionavano i ragazzi delle scorte e, molto spesso, si vedevano giornalisti in cerca di notizie.

A proposito di rappresentanti della carta stampata, l’inattesa collaborazione di Tommaso Buscetta, il primo importante “uomo d’onore” a transitare dalla parte dello Stato, calamitò ulteriormente l’attenzione della stampa, che diede grande risalto, oggi si direbbe “mediatico”, alle iniziative poste in essere dal pool, avamposto di contrasto al dilagare del fenomeno mafioso. Tra i cronisti che si occuparono delle nostre vicende desidero ricordare Attilio Bolzoni, Giuseppe D’Avanzo (prematuramente scomparso il 30 luglio 2011), Francesco La Licata, Saverio Lodato, citati in rigoroso ordine alfabetico, decani del giornalismo antimafia e di inchiesta, i quali hanno scritto articoli e libri su Cosa nostra e sulle connessioni con il potere politico, assolvendo con rigore e onestà intellettuale a un compito fondamentale: informare l’opinione pubblica, disvelare ciò che qualcuno vuole nascondere, cercare e fornire prove, scoprire la verità.

Attilio Bolzoni e Saverio Lodato vennero addirittura sottoposti, nel 1988, a misura cautelare in carcere con l’accusa di avere pubblicato alcune dichiarazioni, ancora coperte dal segreto istruttorio, del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, “uomo d’onore” catanese. Scarcerati dopo qualche giorno, vennero assolti, sia pure a distanza di tre anni, con formula piena dall’imputazione.

E non mancano esempi di giornalisti che hanno sacrificato la propria vita per la ricerca della verità e di giornali ed editori che hanno saputo dare conto, senza perseguire interessi di parte, delle principali complessità e spinosità sociali, culturali, ambientali e storiche. Il dovere di cronaca, che consiste proprio in questo, fallisce e tradisce il suo obiettivo se quelle criticità vengono “manipolate” al fine di travisare i fatti o nascondere inconfessabili interessi di bottega.

Chiusa questa doverosa parentesi, torniamo al “bunkerino”.

Lì dentro c’era l’“altra” Palermo, quella che non faceva puzza di morte e di mafia, quella lontana dai labirinti dove i poteri s’incastravano uno con l’altro fino a confondersi. Dove le Eccellenze e i Commendatori a volte avevano lo stesso sguardo famelico dei malacarne che s’incrociavano a Santa Maria del Gesù o ai Danisinni, alla Vergine Maria, alla Cala. La città che si mischiava nella sua sporcizia.
Il bunker, così buio e tetro, sembrava un luogo sicuro. Nonostante quei fucili mitragliatori che imbracciavano i ragazzi delle scorte. E poi c’erano loro, in carne e ossa, veri, C’era Angelo Crispino, maresciallo della Guardia di Finanza, un sorriso enigmatico e insieme affettuoso, una parete di legno e dietro la parete i segreti finanziari della Sicilia, conti, numeri, prestanome, denaro che passava dalle mani di un mafioso a quelle di un galantuomo.
E poi c’era anche Paparcuri, Giovanni, che era l’autista saltato in aria il 29 luglio del 1983 con il consigliere Rocco Chinnici ma che ‒ inabile alla guida per i burocrati del Ministero ‒ era diventato abilissimo nel maneggiare i primi computer. Il cervello informatico del pool. E poi, ancora poi, il confine con i giudici. Giuseppe Di Lello. Paolo Borsellino. Giovanni Falcone. E lui, Leonardo Guarnotta.
Il disturbo allo Stato. Ironia e profezia.


Falcone e Borsellino, Di Lello e Guarnotta, ecco il pool che farà la storia

Mi hanno scelto perché c’era bisogno di uno che sapesse fare squadra e io garantivo in qualche modo quell’unità di intenti e di comportamenti di cui il pool aveva assolutamente necessità.

Ritengo sia andata proprio così, che Giovanni, Paolo e Peppino abbiano fatto il mio nome al consigliere istruttore Caponnetto perché credevano che io li avrei potuti davvero aiutare e sostenere con il mio lavoro da mediano. Un lavoro quotidiano, meticoloso, infaticabile.

Il pool aveva bisogno anche di uno come me.

D’altronde il campione, il fuoriclasse, c’era già: Giovanni Falcone. Era il punto di riferimento di un gruppo solido e affiatato.

A pensarci adesso, eravamo diversi uno dall’altro. Anche per il nostro “credo” politico. Borsellino, che Falcone prendeva in giro chiamandolo “camerata”, in realtà si professava ‒ chissà, era vero o Paolo ci scherzava sopra? ‒ “monarchico”. Poi c’erano gli altri sparsi per le varie anime della sinistra. Falcone e io più moderati, Giuseppe Di Lello un po’ più a sinistra di tutti noi. Ma in quella stagione di Palermo le nostre opinioni politiche contavano davvero ben poco, anzi niente. Contava applicare la legge senza guardare in faccia nessuno. Lo posso dire con assoluta certezza: nessun provvedimento adottato in quegli anni è passato al vaglio delle lenti deformanti delle nostre idee politiche.

Ricordo un episodio, tra i tanti, a tal proposito. Un giorno Falcone incriminò un falso pentito, Giuseppe Pellegriti, che stava raccontando frottole su Salvo Lima e lo accusava, pur sapendolo innocente, di essere stato il mandante degli omicidi di Carlo Alberto dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro, Domenico Russo, Pio La Torre e Rosario Di Salvo.

Lo sapevano tutti chi era Salvo Lima, uno dei potenti della Sicilia, ritenuto il proconsole di Giulio Andreotti nell’isola e contiguo ad ambienti mafiosi, come si sussurrava in giro, ma Falcone non si pose nemmeno per un istante il problema: Pellegriti andava incriminato per calunnia.

Per essersi comportato in tal modo, Giovanni subì duri attacchi da chi all’improvviso ‒ paradossalmente proprio per la sua onestà intellettuale ‒ aveva perso fiducia in lui.

Per raccontare quegli anni e quella esperienza giudiziaria devo insistere su questo punto: l’unica nostra guida era la legge, il rispetto delle regole.

Voglio però ritornare alla telefonata del consigliere Caponnetto e a cosa accadde dopo, quando accettai di entrare nel pool. Da quel momento tutto cambiò, come dicevo, e anche in fretta. Il giorno seguente, mentre stavo riposando, ricevetti la telefonata di un maresciallo dei carabinieri che mi preannunciò che da lì in poi sarei stato sotto tutela.

“Mi raccomando, domani non esca se non arriva la scorta”, mi preannunciò. Da allora per 31 anni in servizio e per tre anni e sei mesi da pensionato non sono più rimasto solo. Ho sempre avuto come angeli custodi a Palermo e fuori Palermo i poliziotti che hanno accompagnato ogni mio movimento. All’inizio in maniera discreta, poi in misura rinforzata. Anno dopo anno. Ricordo che ci fornirono un impermeabile anti-proiettile di cui si volle provare la “tenuta”, ma si accertò che non era di alcuna utilità, essendo dotato di una blindatura “morbida” che non aveva opposto “resistenza” ai colpi di pistola esplosi contro in prova al poligono della Guardia di Finanza.

Sì, la mia vita è proprio cambiata. Dalle tranquille passeggiate per il centro e le gite a fine settimana nella nostra casetta di Trabia all’isolamento più totale. E a volte mi è capitato di vivere episodi che mai avrei pensato di vivere. Un giorno, al rientro a casa, i poliziotti della scorta, preoccupati dalla presenza di un uomo sul tetto dell’edificio di fronte alla mia abitazione e temendo che si fosse appostato con cattive intenzioni nei miei confronti, per proteggermi fecero scudo con i loro corpi portandomi di peso dalla strada all’androne dello stabile. Poi venne accertato che si trattava di un tecnico che stava montando una parabola per la tv. Con il passare del tempo il livello di protezione si fece sempre più alto.


Giovanni Paparcuri e tutti gli altri preziosi collaboratori del bunker

E poi c’era Giovanni Paparcuri, con la sua storia particolare, come accennavo in principio. Autista di Rocco Chinnici sopravvissuto all’attentato che causò la morte del giudice, del maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, dell’appuntato Salvatore Bartolotta – componenti della scorta – e del portiere dello stabile di via Pipitone, Stefano Li Sacchi, Paparcuri fu costretto a cambiare mansioni. “Dal 29 luglio 1983 ho notte e giorno un’autofficina nell’orecchio”, dice ancora oggi.

Rischiò di essere riformato e di andare in pensione a 27 anni.

Quanti avrebbero scelto come lui di continuare a lavorare? Non voleva arrendersi, non voleva tradire se stesso e le persone che erano rimaste vittime dell’attentato.

Lo Stato lo declassò dal quarto livello di autista giudiziario al secondo di commesso. Resistette e rimase in ufficio fino a quando il Ministero affidò l’appalto per la digitalizzazione (all’epoca probabilmente non si diceva così) degli atti del pool a un’azienda esterna. Questo voleva dire avere estranei che giravano nei nostri uffici. Anzi, in quell’ufficio, il “bunkerino”. No, non era possibile correre il grave pericolo di una fuga di notizie e di dati sensibili. Borsellino, richiesto da Caponnetto di trovare una soluzione al problema, reclutò Paparcuri che iniziò così a smanettare sul “casciabanco”, un computer che oggi sarebbe superato per potenza da qualsiasi cellulare e all’epoca era una meraviglia della tecnologia. Se avessimo avuto i pc odierni, dice Paparcuri, non avremmo fatto il maxi ma il megaprocesso.

Il “bunkerino” è ancora lì e, su lodevole iniziativa della Corte di Appello e della Sezione Distrettuale di Palermo della Associazione Nazionale Magistrati, è diventato un museo, anche se a Paparcuri questa denominazione non piace, dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Giovanni Paparcuri ne è il geloso custode e da vero cicerone quotidianamente mostra a scolaresche, cittadini e turisti in visita a Palermo le stanze arredate come lo erano ai tempi del pool, grazie al suo infaticabile lavoro di ricerca degli originari mobili e suppellettili.

La visita al “bunkerino” non è però una cosa da due foto e via. Paparcuri non si limita a ricevere i visitatori ma racconta come tutto è iniziato, l’impegno dei giudici, come si lavorava, le motivazioni di ciascuno, gli aneddoti. È un viaggio di istruzione, con istantanea finale su Facebook, per chi lo desideri, insieme allo stesso Paparcuri.

Il contributo di tutti i “nostri” collaboratori in quegli anni è stato fondamentale. Incluso il preziosissimo personale di cancelleria: Anna Radica, Ester Galati, Duilia Mercatali, Nunzia Russo, Barbara Sanzo, che ci hanno sempre assistito senza risparmiarsi, efficientissime e instancabili.

Le ricordo una per una. Si andava di fretta, tutto era sempre e comunque urgentissimo. Se succedeva che una nostra collaboratrice chiedesse quando dovesse essere trasmesso un fax, si rispondeva con la frase di rito: “Signora, subitissimo, anche… ieri!”


Quell’incombente paura della morte che accompagnava i giudici

Certo, tra noi colleghi gli scherzi non mancavano. Anche perché, è inutile negare, la paura di un attentato ‒ e quindi della morte ‒ è stata una nostra assidua compagna per tutti quegli anni, mentre intorno a noi cadevano altri fedeli servitori dello Stato.

Per alcuni, come per Giovanni Falcone, la minaccia era più pressante, tanto che lui era molto attento alla sua sicurezza. Ricordo che, una volta, un giovane carabiniere appena assegnato alla sua scorta gli chiese se poteva aiutarlo a portare la borsa che teneva sempre con sé. Un normale gesto di gentilezza. Giovanni gli porse la borsa e gli disse: «E se adesso arriva qualcuno che tenta di aggredirmi, tu che fai? Gli chiedi di darti il tempo di impugnare la pistola? Come fai a proteggermi se tieni la mia borsa in mano? Tu devi avere entrambe le mani libere».

D’altronde Giovanni era da tempo nel mirino di Cosa nostra. A lui che si era precipitato sul luogo dell’agguato al giudice Gaetano Costa, un collega disse: «Pensa un po’, ero proprio sicuro sarebbe toccata a te». Era il 6 agosto 1980.

Dopo l’omicidio di Costa, procuratore capo a Palermo, gli atti delle sue indagini vennero trasmessi all’Ufficio di Istruzione e l’inchiesta fu assegnata a Falcone, subito sottoposto a un servizio di scorta con tre volanti della Polizia. Tutti eravamo consapevoli del grave pericolo che incombeva, si percepiva nell’aria. Nei mesi successivi Giovanni Falcone diventò il magistrato più scortato d’Italia.

Due agenti con giubbotto antiproiettile lo precedevano quando entrava nella sua stanza, con altri tre dietro; un elicottero si alzava in volo quando doveva spostarsi e ancora altri due uomini erano di guardia dietro la porta di casa sua. Giovanni sosteneva che tutti dovevamo essere prudenti. Redarguiva il collega che non aveva compreso i pericoli a cui andava incontro con le sue indagini solitarie, o che ancora non aveva capito che il ruolo che avrebbe dovuto assumere rappresentava una minaccia per gli uomini di Cosa nostra, o che avesse deciso di andare in vacanza proprio in mezzo ai mafiosi. Quest’ultimo era il mio caso.

Nell’estate del 1986 o 1987, adesso non rammento con precisione, mi accordai per prendere in affitto una bella villa in territorio di San Nicola l’Arena, borgata marinara di Trabia, a pochi passi dal mare, e mi scappò di parlarne con Giovanni. Non l’avessi mai fatto! O forse è stato meglio così: mi aggredì dandomi dell’incosciente, ricordandomi, se me ne fossi dimenticato, che quella era una zona ad alta densità mafiosa, che la posizione della casa, che gli avevo descritto, avrebbe consentito un attentato sia dalla terraferma sia dal mare, e ingiungendomi, alla fine, di lasciare perdere.

In effetti, Giovanni aveva ragione di preoccuparsi per la mia incolumità, perché la zona in cui avrei dovuto trascorrere la vacanza è la stessa in cui, nel 1989, avvenne una mattanza di “uomini d’onore” cui facevano riferimento gli anonimi del cosiddetto “corvo”, dei quali mi occuperò più avanti.

Ma purtroppo Giovanni non pensò abbastanza alla sua incolumità quando, sempre in quel 1989, prese in affitto la nota villa sul mare all’Addaura, posizionata come quella in cui avevo deciso di trascorrere l’estate un paio di anni prima, in una zona ad alta densità mafiosa.

Una villa dove sarebbe stato possibile progettare un attentato dinamitardo ai suoi danni, come in effetti accadde, fortunatamente senza esito. Almeno in quella occasione.

Come accennavo, sulla morte si scherzava anche per allontanarne il pensiero. Quando noi giudici istruttori ancora occupavamo i locali al piano rialzato del Tribunale, un giorno il consigliere Rocco Chinnici, nel corso di una riunione, quasi a esorcizzare il pericolo che già incombeva sul pool, così ci rassicurò, tra il serio e il faceto: «Ragazzi, vi ho reso immortali; ho fatto montare vetri antiproiettile sulle finestre delle vostre stanze e così non correrete più alcun pericolo».

Falcone e Borsellino si divertivano invece a scriversi a vicenda i necrologi. Paolo diceva: «Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa quando ti avranno ammazzato. In questo mondo ci sono tante teste di minchia. Teste di minchia che tentano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello, quelli che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero. Ma oggi, signore e signori, davanti a voi, in questa bara di mogano costosissimo, c’è il più te- sta di minchia di tutti. Uno che si era messo in testa, niente di meno, di sconfiggere la mafia applicando la legge».

E poi c’è una scena nel film di Giuseppe Ferrara “Giovanni Falcone”… Un film che fotografa con molto realismo il nostro lavoro, perché l’autrice della sceneggiatura, Armenia Balducci, ebbe più volte a contattarmi, a nome del regista, per apprendere come e dove operavamo (anche se poi, in alcune scene, mi inquadrano mentre fumo, e io, ripeto, non ho mai toccato una sigaretta). Dicevo, c’è una scena in cui Paolo e Giovanni scherzano sulla loro morte, finché uno dei due sbotta: «Ma se ammazzano prima Guarnotta!»

Anche alla Questura di Palermo, allora chiamata «l’avamposto delle ombre perdute», Ninni Cassarà e Francesco Accordino, capo della sezione investigativa il primo e dirigente della sezione omicidi della Squadra mobile il secondo, passando davanti alla lapide che all’ingresso ricordava i poliziotti caduti in servizio, spesso scherzavano sulla propria fine, osservando che i loro nomi ci sarebbero stati bene lì, sulla lapide dei caduti.


Una difficile scelta di vita in una Palermo pronta ad esplodere

Falcone, Borsellino e Di Lello avevano la scorta già da qualche anno, erano protetti giorno e notte, mentre io all’epoca arrivavo in ufficio, accompagnavo i miei figli Debora e Michele a scuola o mia moglie Lidia in giro per negozi utilizzando la nostra autovettura.

Sapevo bene che quando ti assegnano la scorta la tua vita cambia immediatamente e per molto tempo. Anche per tutta la vita lavorativa, anche quando sei ormai in pensione, come è capitato a me e a tanti colleghi.

Così mi presi qualche giorno per riflettere e ne parlai a lungo in famiglia. Non avevo la vocazione dell’eroe e sapevo perfettamente a cosa andava incontro un giudice che si fosse occupato di mafia in quel periodo a Palermo.

La città era una santabarbara pronta a esplodere. E infatti esplose. Era spaventosa Palermo in quegli anni, spaventosa.

Ma proprio per questa ragione – la situazione estremamente critica in cui versava la nostra Palermo – ero anche consapevole che fosse giunto il momento di fornire il mio pur modesto contributo a quella causa comune.

In famiglia il lungo “dibattito” lo chiuse mia moglie con una frase. Una sera, dopo cena, ritornando sull’argomento, mi guardò e con un soffio di voce mi disse: “Dall’emozione che ho colto nelle tue parole e dalla luce nel tuo sguardo, sono sicura che hai intenzione di accettare il nuovo incarico; cosa aspetti ancora, accettalo, se ritieni che sia tuo dovere, non solo come giudice ma come uomo”.

Oggi come allora sono convinto che non ci fosse altra risposta possibile. Il mio sogno, all’inizio della carriera, era di fare il giudice istruttore. E quel sogno mi stava portando dentro il pool antimafia, anche se in quel momento non mi rendevo conto di star entrando nella storia di Palermo, della Sicilia e di questo Paese. Veramente non me ne sono reso conto neanche negli anni a seguire: io volevo fare il giudice, solo il giudice. Con la toga addosso mi sono sempre sentito una persona normale. Certo, rileggendo gli avvenimenti di quella stagione, in effetti tanto normale tutta questa storia non lo è stata.

Ma si tratta di una consapevolezza che è arrivata dopo, molto dopo, con il trascorrere del tempo, ritornando con il pensiero al nostro lavoro, alle malevole critiche subite, ai tentativi di destabilizzare il pool, ma soprattutto alla sorte toccata ai colleghi che se ne sono andati, che non ci sono più.

Presa la decisione di accettare la proposta del consigliere Caponnetto, lo contattai per comunicargli la mia disponibilità. “Sono con voi”, gli dissi, ed ero contento, anche perché contagiato dall’entusiasmo con il quale Falcone, Borsellino e Di Lello si dedicavano da mesi a quel lavoro che, ora, sarebbe diventato anche il mio.

Dopo quella telefonata la mia vita è significativamente cambiata perché, con i colleghi giudici istruttori e con i pubblici ministeri della Procura (Giuseppe Ayala, Giusto Sciacchitano, tra gli altri), che mi piace ricordare, e grazie a loro, ho vissuto un’esperienza giudiziaria unica e irripetibile. Ho trascorso un periodo che mi ha arricchito dal punto di vista professionale, ma anche segnato profondamente sul piano umano, rinsaldando in me, con passione e dedizione, i valori della legalità e della giustizia.
A distanza di tanti anni, mi sono chiesto come mai Caponnetto e gli altri avessero pensato a me. Credo ‒ credo, certezze non ne ho ma un po’ di esperienza sì, vista l’età e visto tutto quello che ho vissuto con quei miei colleghi, con quegli uomini ‒ di avere trovato delle risposte.


Le riunioni del lunedì, i riti e le regole del pool di Palermo

Come si svolgeva l’attività quotidiana? Il pool aveva un calendario preciso. Ogni lunedì ci riunivamo nella stanza di Giovanni Falcone per fare il consuntivo della settimana precedente, riferendo sull’esito delle indagini, e per programmare quella che iniziava, decidendo quali attività ognuno di noi avrebbe dovuto svolgere. All’occorrenza, ci ritrovavamo anche nel corso della settimana.

Ciascuno di noi quattro (ma in seguito pure Gioacchino Natoli, Ignazio De Francisci e Giacomo Conte, entrati a fare parte del pool dopo il trasferimento di Paolo Borsellino a Marsala), quando rientrava dalle frequenti rogatorie in Italia o all’estero, disponeva che copia degli atti istruttori fosse recapitata agli altri colleghi, con sopra un post-it sul quale era annotato, per esempio, “A Leonardo, per parlarne”.

Va detto che il pool antimafia non era un organo giudiziario previsto dall’allora vigente codice di procedura penale; la sua costituzione era stata resa possibile dalla facoltà riservata al consigliere istruttore, ai sensi dell’articolo 17 delle Disposizioni Regolamentari del codice di rito, di delegare a ognuno di noi le stesse indagini.

La strategia che si voleva attuare era, dunque, di affidare a un gruppo di magistrati, all’inizio davvero esiguo (come dicevo, noi quattro più il consigliere), tutte le indagini sulla criminalità organizzata comune e di tipo mafioso, in modo che ognuno di noi espletasse quelle assegnategli, ma i risultati venissero portati a conoscenza degli altri colleghi, affinché un prezioso patrimonio di informazioni non andasse disperso ‒ come spesso era accaduto in passato – e servisse anzi per prendere decisioni congiunte, a partire da una visione globale delle strutture e dei dinamismi di Cosa nostra, e anche per minimizzare i rischi personali.

Dunque, la filosofia del pool si basava sulla constatazione che, essendo quella consorteria un’organizzazione unitaria e verticistica fatta di mandanti ed esecutori materiali, era necessario accumulare, elaborare notizie e dati che consentissero ai componenti del pool di avere una visione complessiva del fenomeno mafioso, e nel contempo di affinare la propria professionalità.

Questa strategia non avrebbe avuto successo se non avessimo avuto, con tutte le nostre forze e capacità, l’obiettivo comune di restituire la Sicilia ai siciliani onesti, senza gelosie, invidie, smanie di protagonismo, tutti per uno e uno per tutti, tetragoni a ogni tentativo esterno di fomentare zizzanie e malcontento tra noi.

Sui criteri seguiti per la selezione dei componenti del pool e sull’unico, comune, superiore interesse perseguito fin dalla sua costituzione, e ribadito con fermezza, si soffermò poi Giovanni Falcone nel corso della sua audizione del 31 luglio 1988 davanti la Prima Commissione Referente del Consiglio Superiore della Magistratura, quando scoppiò il cosiddetto “caso Palermo”, su cui ritornerò, e le tensioni tra Csm e pool antimafia erano ormai molto forti.

“Quando si è costituito il pool, poiché già sapevamo quali sarebbero stati gli attacchi esterni per cercare di sgretolarlo, per cercare di inserire problemi di attrito, abbiamo curato di fare in modo che tutte le componenti ideologiche e culturali della magistratura fossero presenti, e abbiamo lavorato insieme e continuiamo a lavorare, almeno fino a questo momento, in pieno accordo mettendo da parte totalmente problemi che non siano esclusivamente istituzionali”.

Due sono gli elementi che hanno caratterizzato l’azione del pool.

Accanto all’intenso scambio di informazioni, c’era lo sviluppo di quello che poi sarebbe stato mediaticamente inteso come “il metodo Falcone”.

Si tratta di un modo di procedere che, in seguito, è stato adottato dalla magistratura inquirente, facendo tesoro delle intuizioni di Giovanni.


Rocco Chinnici, il giudice che aveva capito tutto e non si piegava

Di mattina eravamo sempre in giacca e cravatta, ma specie nei pomeriggi e nelle sere d’inverno, terminati gli impegni ufficiali, Giovanni e io ci mettevamo un po’ in libertà, indossando un maglione: ricordo che il mio era verde, quello di Giovanni rosso, i nostri colori preferiti.

Lavoravamo in silenzio con le porte delle nostre due stanze aperte, e più volte è accaduto che, a una certa ora, lui mi dicesse: “Leonardo, si è fatto tardi, leviamo il disturbo allo Stato”. Una delle non poco frequenti battute scherzose di Giovanni? Forse, ma pensando alla storia di Giovanni Falcone, a tutto quello che gli è accaduto e che ha dovuto subire e a come è stato demolito il pool antimafia dopo l’avvento del consigliere Antonino Meli in quel nefasto 1988, quella sua battuta mi è apparsa negli anni sempre più profetica. «Togliamo il disturbo allo stato…».

Uno snodo fondamentale, del quale avrò modo di parlare nel prosieguo. Noi del pool avevamo quindi abbandonato le stanze utilizzate in precedenza, mentre il consigliere Caponnetto aveva occupato la stanza che era stata del suo predecessore. Il consigliere Rocco Chinnici.

All’Ufficio di Istruzione avvertivamo ancora la sua presenza, a tutti noi mancava molto. L’uomo che aveva gettato il seme per la nascita del pool era anche fisicamente imponente.

Pieno di vitalità, possedeva una grande esperienza in materia di mafia, parola che pronunciava all’antica con due effe: non diceva mafia, diceva “maffia”.

Era poco incline al compromesso, era duro e di tanto in tanto irascibile; un uomo tutto d’un pezzo, come si suol dire.

Per questo Cosa nostra lo riteneva molto pericoloso.

Ricordo il suo passo pesante che risuonava nel corridoio il pomeriggio, quando a volte veniva a vedere se ci fosse ancora qualcuno.

Apriva la porta di una delle nostre stanze e, constatato che il collega era intento sulle carte, quasi si scusava, chiarendo che non era sua intenzione controllare la nostra presenza in ufficio ma solo accertarsi se, per caso, non avessimo dimenticato le luci accese…

Il giorno della sua uccisione ero a Trabia, nella casa al mare. Mi stavo facendo la barba e, informato da un amico dell’accaduto, corsi subito a Palermo. Ricordo che Falcone era in Thailandia per una rogatoria.

Come ho raccontato, alla strage sopravvisse Giovanni Paparcuri, autista di Falcone ma quella mattina addetto alla guida dell’auto blindata assegnata a Chinnici. Paparcuri riportò ferite gravissime delle quali, a tanti anni di distanza, patisce ancora le conseguenze.

Il giorno del funerale, terminata la funzione religiosa, mentre colleghi portavano sulle spalle la bara, io li precedevo reggendo, con le mani tremanti per la commozione, il “tocco” di Chinnici posato su un cuscino di velluto.


Con l’uccisione di Rocco Chinnici i boss pensavano di averla scampata

A Firenze Antonino Caponnetto aveva lasciato una moglie – non certo felice della sua partenza verso una destinazione così pericolosa – e tre figli. Per andare dove? Per venire a Palermo a sostituire il consigliere istruttore Rocco Chinnici che il 29 luglio 1983 Cosa nostra aveva fatto saltare in aria con un attentato alla libanese, un’autobomba fatta scoppiare in città, in mezzo ai palazzi, ai negozi, alle persone che a quell’ora uscivano da casa.

Ma Caponnetto faceva anche ritorno alla sua terra natia, la Sicilia, dove era nato il 5 settembre 1929, a Caltanissetta, una delle tappe della carriera del padre.

Riservato, schivo, l’arrivo di Antonino rese contenti, ma solo inizialmente, molti addetti ai lavori, imprenditori, commercianti, professionisti nell’orbita mafiosa e, forse, qualche avvocato penalista palermitano, dai quali fu visto e soppesato come un magistrato innocuo e incolore, di passaggio, uno che ci avrebbe messo chissà quanto tempo prima di impadronirsi della “materia”, capire la struttura e le dinamiche dell’organizzazione criminale che il suo predecessore aveva iniziato a contrastare con un gruppo di giudici istruttori. E comunque, sempre meglio lui “che quel rompiballe di Chinnici con la sua fissazione della mafia”, per giunta con due effe, come la pronunciava.

Per quegli “addetti ai lavori” e per tanti altri, dopo l’uccisione di Chinnici, la città di Palermo poteva tornare a respirare, a vivere se stessa come sempre, poteva tornare alla sua calma, alla sua indifferenza, alle sue abitudini, alla sua convivenza “tranquilla” con la mafia e i mafiosi.

Debbo essere sincero. Dopo avere appreso che era stato designato il dottor Antonino Caponnetto, sostituto procuratore generale in servizio a Firenze, e dopo averlo conosciuto personalmente, fu istintivo in ciascuno di noi fare il confronto con il suo predecessore.

Vedevamo una persona di una certa età, 63 anni, esile, non proprio in salute, del quale ignoravamo se fosse competente in materia di criminalità organizzata ‒ mentre Rocco Chinnici era aitante, fisicamente imponente, pieno di vitalità e molto esperto di mafia. E ci chiedevamo se il Csm avesse designato il magistrato giusto per sostituire il “nostro” Rocco Chinnici. Ma ci volle pochissimo per constatare di che pasta e tempra fosse fatto il nostro nuovo consigliere, al di là dell’aspetto fisico.

Aveva lasciato a Firenze la sua famiglia per condurre a Palermo una vita monastica, divisa esclusivamente tra l’ufficio e, per motivi di sicurezza, una spoglia stanza della caserma Cangialosi della Guardia di Finanza. Più che una stanza era quasi una cella: un lettino, un piccolo bagno e un comodino con i suoi libri, Le Confessioni di Sant’Agostino e La Recherche di Proust. La sera, lì in caserma, se arrivava entro le nove, a volte riusciva a trovare i piatti caldi della mensa dei finanzieri.

In generale, cercava di rispettare gli orari ma quando non ce la faceva se la cavava con un piatto freddo che gli facevano trovare nella sua stanzetta. I suoi unici momenti all’aperto, la sua ora d’aria, come quella dei carcerati, li trascorreva nel chiostro seicentesco del convento domenicano di Santa Cita (Santa Zita, più propriamente), trasformato in ospedale militare nel 1850 e, successivamente, nella caserma Cangialosi.

La sua dedizione al lavoro era davvero straordinaria. Antonino Caponnetto rimaneva in ufficio con noi, e più di noi, fino a tarda sera. Ci aveva perso quasi la vista a collazionare più e più volte quelle circa novemila pagine della ordinanza-sentenza che aveva aperto la strada al primo Maxiprocesso contro i boss di Cosa nostra.

Era prodigo di consigli, ci incoraggiava nei non rari momenti di difficoltà. Ci spronava a non mollare mai, a credere che il nostro impegno avrebbe potuto redimere, rendendola migliore, la nostra terra bagnata col sangue versato da tanti rappresentanti delle forze dell’ordine e da innocenti vittime del massacro voluto dai “Corleonesi”, scesi allora a Palermo per un regolamento di conti con le “famiglie” del capoluogo, per la conquista della supremazia nel campo della criminalità organizzata.


La svolta, l’arrivo di Antonino Caponnetto e la creazione del “pool”

In quella caserma e nel suo ufficio trascorse tantissimi week-end e festività per non impegnare in servizio i suoi “angeli custodi”, visto che “anche la scorta ha una famiglia”, come soleva dire.

Antonino Caponnetto, nei suoi quattro anni e mezzo di permanenza a Palermo, percorse quasi esclusivamente le strade che lo conducevano dalla caserma all’ufficio. Soltanto un paio di volte, se non ricordo male, noi del pool uscimmo tutti insieme per partecipare a cerimonie pubbliche. Quando accettammo l’invito ad assistere all’anteprima del film Cento giorni a Palermo del regista Giuseppe Ferrara, dedicato al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa.

E poi la volta in cui ci recammo (mancava soltanto Falcone perché all’estero per una rogatoria) a Prato su invito del sindaco per la consegna del “Gigliato d’oro”, l’antica moneta pratese, simbolo della prima repubblica cittadina, in “segno della solidarietà che questa città intende concreta- mente esprimere con la Sicilia degli onesti che, ne siamo convinti, è certamente la Sicilia dei più”.

Quando Caponnetto arrivò a Palermo gli chiesero se non avesse paura di morire. Lui rispose che, a 63 anni, bisogna pur familiarizzare con l’idea della morte. Ben detto, perché immediatamente arrivarono le minacce.

Sul telegramma inviatogli dall’alto commissario Emanuele De Francesco in occasione del suo insediamento, qualcuno appose una striscia di carta che cambiava l’espressione “le auguro successo” con “le auguro occiso”. Un affettuoso saluto palermitano di benvenuto da parte degli uomini di Cosa nostra. Venuto a conoscenza dell’“augurio”, ma non solo per questo, l’alto commissario De Francesco dispose che venisse subito installato uno spesso vetro blindato alla finestra dell’ufficio di Caponnetto, perché fuori, proprio di fronte, chiunque poteva transitare o posteggiare la sua autovettura.

Nella prima riunione che tenne con i colleghi – allora non facevo ancora parte del pool e quindi ne fui informato in un secondo tempo –, Caponnetto chiarì subito che era sua ferma intenzione proseguire sulla linea tracciata dal suo predecessore. Anzi, assicurò che voleva andare oltre. L’obiettivo a brevissimo termine – ci mise solo una decina di giorni a elaborarlo dal suo arrivo – era di costituire un gruppo di giudici istruttori che si occupasse esclusivamente dei processi di mafia.

Un pool specializzato che ripristinasse, nel pieno rispetto delle norme penal-processuali, il predominio del diritto e della legalità contro la violenza, l’arroganza e la tracotanza non più tollerabili della criminalità organizzata comune e, soprat- tutto, di Cosa nostra, che aveva assunto le preoccupanti proporzioni di un vero e proprio Stato illegale nello Stato.

Musica per le orecchie di Falcone, Borsellino e Di Lello.

La creazione del pool voleva anche accreditare l’idea di una responsabilità collettiva degli atti: tutti dovevano sapere tutto delle indagini svolte da ciascuno. Non ci sarebbe più stato il singolo giudice istruttore responsabile di una singola istruttoria, e per questo esposto al pericolo di minacce o di attentati.

Il consigliere Caponnetto, applicando l’articolo 17 delle disposizioni regolamentari del codice di procedura penale, dispose l’assegnazione a ognuno dei componenti del pool di tutte le indagini sui reati di mafia, intestandosi il relativo processo.

Era anche un modo di operare a maggiore garanzia della sicurezza dei magistrati. Perché non ci fosse un altro caso come quello del procuratore Gaetano Costa che in solitudine, nella primavera

del 1980, aveva firmato un ordine di cattura contro gli Spatola e gli Inzerillo, i quali ne avevano decretato la fine. Il magistrato avrebbe avuto assegnata la scorta, finalmente, il 7 agosto 1980, e lo stesso giorno sarebbe partito in vacanza con la famiglia.

Ma venne ucciso da un killer il 6 agosto.


«Non eravamo lo stato, ma un piccolo avamposto in una terra pericolosa»

Per prendere confidenza con il nuovo e difficile compito, Caponnetto si giovò della collaborazione di Falcone, che lo mise al corrente dei risultati conseguiti dal “gruppo”.

In particolare, gli descrisse la struttura di Cosa nostra secondo le ancora incomplete conoscenze sino ad allora acquisite, lamentando che all’azione di contrasto del fenomeno mafioso fosse stata di ostacolo una quasi totale omertà, il pilastro su cui da sempre si basavano il potere e la sopravvivenza di Cosa nostra.

E infine lo mise in guardia, avvertendolo che in quel Palazzo avrebbe trovato ben pochi amici. Molto pochi.

Noi avevamo una fiducia totale in Caponnetto. A lui spettava la guida del pool ma aveva in Giovanni il suo punto di riferimento. E visto che eravamo solo in quattro, per lasciare il pool libero di occuparsi esclusivamente di Cosa nostra, Caponnetto si auto-assegnò anche molti procedimenti di altra natura, facendo registrare altissimi indici di produttività.

In un suo libro ha scritto di me che ero il più anziano dei giudici del pool, ma in quel caso si sbagliava. Sono nato infatti il 12 febbraio 1940, Falcone (nato il 18 maggio 1939) e Borsellino (nato il 19 gennaio 1940) erano perciò i più anziani, mentre Di Lello era il più giovane, essendo nato il 24 novembre 1940. Caponnetto aveva ragione, invece, quando diceva che ho sempre cercato di mantenere un ritmo di vita il più normale possibile. Per questo non rinunciavo alle mie partite a pallone e a tennis, nonostante mi esponessero a notevole rischio, facendolo preoccupa- re. Bontà sua, mi accreditava di una solida preparazione giuridica maturata nel corso degli anni e dovuta alle mie “variegate”, pregresse esperienze professionali.

Il suo prezioso impegno è proseguito anche dopo la fine dell’esperienza palermitana. Ritornato a Firenze, si è speso per incontrare gli studenti di ogni istituto per fare memoria del lavoro svolto dal pool e per rendere i giovani partecipi degli stessi principi e valori ai quali si erano ispirati quei magistrati, con i quali manteneva un legame profondo.

Non si era dimenticato del pool e di me. Ricordo, ad esempio, che avendo appreso dalla stampa che avevo depositato, il 5 gennaio 1995, l’ordinanza-sentenza che chiudeva l’esperienza del “suo” pool, volle che gli facessi avere copia degli undici volumi di cui il provvedimento si componeva, per complessive 1.750 pagine. Mi ringraziò commentando: “Ma quanto hai scritto!”

Infine, tengo cara nella memoria una delle sue frasi più belle e cariche di significato: “Ragazzi, godetevi la vita, innamoratevi, siate felici ma diventate partigiani di questa nuova resistenza, la resistenza dei valori, la resistenza degli ideali. Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare, di agire da uomini liberi e consapevoli. State attenti, siate vigili, siate sentinelle di voi stessi!

L’avvenire è nelle vostre mani. Ricordatelo sempre!”

Mi piacerebbe che queste parole fossero il testamento morale di “nonno Nino”, come veniva chiamato dai giovani che incontrava nelle scuole.

Dopo quei quattro anni intensissimi alla guida dell’Ufficio di Istruzione, Antonino Caponnetto aveva chiesto di essere trasferito a Firenze, certo che il suo posto sarebbe stato assegnato a Giovanni Falcone, che ne aveva fatto domanda e che vantava una straordinaria esperienza nella lotta alla criminalità organizzata.

Fino all’ultimo, però, avanzò dei dubbi su come sarebbero andate le votazioni al plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, ma fu rassicurato da Falcone che, illuso da falsi amici, era convinto di avere i voti necessari per la nomina. Ma di ciò che è accaduto in quel 1988 parlerò più avanti e a fondo, perché è una delle pagine più nere della recente storia d’Italia.

Nonostante gli omicidi avvenuti fra il 1979 e il 1980 (il capo della Squadra mobile Boris Giuliano, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il procuratore capo della Repubblica Gaetano Costa), in realtà sul fronte della lotta alla mafia non era successo nulla.

Qualcuno strillava per qualche giorno e poi tutto tornava come prima.

Ma noi eravamo stufi di stare a guardare e difenderci e così impostammo un lavoro che avrebbe prima o poi dato i suoi frutti. Anche in questo cambiammo la prospettiva, decidemmo che era la mafia a doversi preoccupare, lavorammo sul lungo periodo con costanza, tenacia e la tranquillità di chi sa di avere imboccato la strada giusta.

Però noi non eravamo lo Stato, tutto lo Stato, eravamo solo un piccolo avamposto in una terra pericolosa che aveva bisogno di essere sostenuto. E questo, in verità, successe solo qualche volta.


Il pool antimafia gioca in attacco, lo Stato quando va bene di rimessa

Poi c’era Peppino Di Lello, il pupillo di Rocco Chinnici. L’uomo di sinistra che, dopo avere vissuto, dando il meglio di sé, l’esaltante e irripetibile esperienza del pool, ebbe una lunga e prestigiosa carriera politica. Deputato alla Camera in Abruzzo sino al 1996, parlamentare europeo per il Partito della Rifondazione Comunista sino al 2004, senatore della Repubblica, sempre per quel partito, sino al 2008.

A rifletterci bene, in quest’epoca di forti divisioni, mi viene da ridere nel pensare come sia stato possibile che uno capace di andare in manifestazione con i metalmeccanici indossando la tuta blu sia riuscito a lavorare senza problemi con Borsellino, “monarchico” e aderente al Fuan. Ma erano altri tempi e le situazioni estreme contribuiscono a cementare le amicizie. Un po’ come succede in guerra. E Palermo era in guerra.

Di Lello è un abruzzese dal fisico esile e già allora aveva alle spalle una vita difficile. Eppure lavorava come un matto senza risparmiarsi. Per noi era l’intellettuale, il filosofo.

La mattina del 28 settembre 1984 era in corso il saluto di commiato al nostro cancelliere dirigente, andato in pensione, quando Giovanni si avvicinò a me, Paolo e Giuseppe e, quasi sottovoce, ci diede appuntamento alle tre nel “bunkerino”, perché aveva appreso che in un noto settimanale sarebbe stato pubblicato lo scoop della collaborazione di Tommaso Buscetta, che avrebbe inevitabilmente compromesso l’esito delle nostre indagini e, soprattutto, avrebbe messo in allarme i sodali di Cosa nostra nei cui confronti, in realtà, si era divisato di emettere mandato di cattura non prima del 4 ottobre 1984.

Nel primo pomeriggio passai a prendere Paolo, che mi attendeva affacciato al balcone della sua abitazione all’ottavo piano e mi faceva ampi segni di salire a casa sua. La cara, dolce, indimenticabile Agnese chiese cosa dovessimo fare e Paolo, di rimando, con tono scherzoso, le rispose: “Non ti interessare e, per favore, preparaci il caffè”.

Quella sera Giovanni aveva fatto preparare dei panini accompagnati da birra e frutta da consumare in ufficio, perché pensavamo di trattenerci sino a tarda notte.

Verso le nove Di Lello decise di andare a casa per cenare con la sua famiglia, mentre noi restammo nei locali del “bunkerino”. Alle undici non aveva ancora fatto rientro in ufficio, così lo contattammo al telefono e apprendemmo che era andato a letto, convinto che avremmo continuato l’indomani il nostro lavoro. Il buon Ninni Cassarà mandò qualcuno a prenderlo e poco mancò che, per la fretta, Peppino rientrasse in ufficio in pigiama.

Alle tre del mattino del 29 settembre 1984 firmammo il mandato di cattura n. 323/84 RGUI nei confronti di circa 360 imputati.

Ecco, ripensando ai componenti di quel meraviglioso gruppo, mi viene facile utilizzare una metafora calcistica e definire Falcone come il nostro Maradona, Borsellino invece era una mezz’ala che sapeva dare la palla (ricordate un certo Rivera?). A me, scherzosamente, concedete invece il paragone con Gigi Riva (da sempre il mio idolo), oppure – parlando di giocatori più recenti – penso a Luca Toni, uno in grado di far salire la squadra e sostenere da solo il peso dell’attacco. Infine c’era Di Lello, uomo dalla grande visione, che rivestiva il ruolo di allenatore, capace di farci riflettere anche grazie alla sua profonda conoscenza del codice e della parte tecnica del nostro lavoro.

Eravamo tutti proiettati all’attacco, perché in quel periodo abbiamo cercato di non giocare semplicemente di rimessa, come ha sempre fatto lo Stato, reagendo con durezza solo nei momenti di emergenza. Anzi, a ben vedere, neppure in quei momenti lo Stato ha mai giocato in attacco.


Due giudici “complementari”, entrambi perfetta sintesi della Sicilia

In occasione del blitz di San Michele del 1984, dei circa 360 imputati soltanto uno venne tratto in arresto per errore di persona dovuto alla consuetudine, all’epoca da noi non presa in considerazione, secondo cui il soprannome, l’“inciuria” nel dialetto siciliano, si eredita di padre in figlio, per cui il mafioso indicato dal boss “pentito” Salvatore “Totuccio” Contorno come “Peppino Garibaldi” non era la persona che credevamo ma il figlio, che aveva ereditato l’“inciuria” dal genitore. Naturalmente, scoperto l’arcano, provvedemmo immediatamente a scarcerare il mal capitato.

La logica emergenziale non ci è mai appartenuta, come dicevo in precedenza, anzi cercavamo i riscontri agli elementi indiziari acquisiti con cura certosina, con attenzione, fino allo sfinimento, per non commettere gli errori del passato, quando rinvii a giudizio non basati su prove certe, granitiche si erano conclusi con sentenze di assoluzione per insufficienza di prove, vero fiore all’occhiello per ogni mafioso. Falcone, come ha raccontato anche Peppino Di Lello, era attento a stralciare posizioni che richiedevano ulteriori riscontri.

È stato, tra tanti altri, il caso di Bruno Contrada, il poliziotto più famoso di Palermo, sul cui conto aveva reso dichiarazioni Tommaso Buscetta senza però scendere in molti particolari circa la sua asserita “vicinanza” a Cosa nostra. Il capo della Criminalpol, Gianni De Gennaro, preoccupato, sollecitò ulteriori chiarimenti. Ma Buscetta, interrogato da Falcone, ritenne di non dovere aggiungere altro a quel poco che aveva riferito sul conto di Contrada.

Pertanto non ritenemmo di adottare alcun provvedimento. Soltanto dopo le stragi, nel dicembre del 1992, all’esito di ulteriori indagini, venne spiccato mandato di cattura nei confronti del funzionario in ordine al reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Nel maggio 2007 è passata in giudicato la sentenza che lo ha condannato a dieci anni di reclusione, quasi interamente scontata tra carcere e domiciliari. La lunga vicenda giudiziaria di Contrada si è conclusa di recente con una sentenza della Prima Sezione della Corte di Cassazione che ha “annullato” e dichiarato “ineseguibile e improduttiva di effetti penali” la sentenza di condanna a dieci anni in esecuzione di un giudicato della Cedu, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha dichiarato quella sentenza “ineseguibile” perché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il contestato reato di concorso esterno in associazione mafiosa non “era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti”.

Va rilevato ancora che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno escluso che il verdetto della Cedu si applichi anche agli altri condannati per concorso esterno per fatti commessi prima dell’ottobre 1994, quando la tipologia del reato è stata codificata, perché “quel verdetto non è una sentenza pilota e non è espressione di una consolidata giurisprudenza europea”.

Tornando a noi, sapevamo di versare in una situazione di emergenza, ma questo non significava che dovessimo andare di fretta e mandare qualcuno in carcere senza prove.

Si procedeva veloci, ma attenti, cercando le prove punto per punto. Su tutto fummo rigorosi. Buscetta parlò per quattro mesi in segreto. Falcone verbalizzava a mano le sue dichiarazioni, poi passava i verbali a Caponnetto che ci teneva informati. Nulla mai trapelò. La mafia scoprì che Buscetta stava collaborando perché, dopo l’arresto in Brasile, si rese conto che era sparito nel nulla: non era in carcere, in Italia o all’estero, non era in un ospedale. Vuoi vedere che don Masino se la sta cantando?

Questo era Giovanni, una persona aperta, franca, leale, che dedicava tutto se stesso al lavoro con grande impegno, professionalità e spirito di servizio.

Paolo era molto diverso, era estroverso, un po’ come me. Aveva un grande carisma, un’incrollabile fede cristiana, era amante della vita e incorporava una grande sicilianità, intesa come sentita espressione della sua appartenenza alla terra che gli aveva dato i natali, per cui si esprimeva spesso e volentieri in dialetto. E per questo lo prendevamo tutti in giro.

Solo lui sa cosa ha provato in quei terribili 57 giorni che separarono la morte di Giovanni dalla sua. Una corsa contro il tempo perché sapeva che il suo momento stava arrivando e che il tritolo per lui era già giunto a Palermo.

Era dotato di una grandissima umanità. I collaboratori di giustizia li conquistava grazie al suo carattere: la facilità nello stabilire relazioni e di entrare in sintonia con gli altri gli permisero di ottenere risultati eccezionali con alcuni “uomini d’onore”, che si fidavano solo di lui.

Al contrario, Falcone “conquistava” i criminali con un atteggiamento più freddo, serio, rispettoso. Sono celebri gli sguardi e i silenzi degli interrogatori di Giovanni, che lasciavano perplesso il pubblico ministero presente all’atto istruttorio. Oppure la sua capacità di partire da lontano per disegnare un quadro complessivo dei fatti.

“L’uomo d’onore” pensava di fornire chiacchiere senza costrutto e lui invece accumulava preziose informazioni. Era sempre Falcone che guidava il gioco, ma i suoi interlocutori non se ne accorgevano. A volte aveva invece bisogno di poche informazioni per completare il suo puzzle. Era capace anche di andare negli Stati Uniti per porre soltanto qualche domanda a un collaboratore. I colleghi d’oltreoceano lo guardavano stupiti, ma lui tornava soddisfatto, col suo solito enigmatico sorriso.

Giovanni e Paolo erano due felici espressioni della Sicilia. Uno era laico, l’altro molto cattolico, uno era orientato a sinistra e l’altro a destra, uno senza figli perché non voleva fare nascere orfani, così soleva dire, e l’altro di figli ne aveva tre, uno che ti guardava col sorriso appena accennato e l’altro dalla risata franca, aperta. Erano straordinariamente complementari.


Quei momenti di vita “leggera” vissuti con Falcone fuori dal bunker

La Guardia di Finanza produsse un grande contributo che servì di base per le indagini, oltre a fornire utili consigli pratici che diedero i loro effetti. E se oggi la Gdf è partner abituale di molte procure, allora questo affiancamento si presentava come una strada tutta da percorrere e dava il via a un gioco di squadra che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a Cosa nostra.

In questa prospettiva, assicurarono il loro impegno e la loro professionalità funzionari come Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli (venuto a mancare il 20 marzo 2013 e al quale mi legava un forte rapporto di amicizia), Alessandro Pansa, tutti funzionari di pubblica sicurezza che nel tempo, uno dopo l’altro, sono stati nominati capi della Polizia. E ancora, l’allora capitano dell’Arma dei Carabinieri Angiolo Pellegrini (oggi generale di corpo d’armata in pensione, ma per me sempre “il capitano”, stretto collaboratore di Giovanni Falcone), che ho avuto il piacere di incontrare di nuovo dopo molti anni, nel 2018, in occasione del conferimento a entrambi del Premio internazionale Joe Petrosino.

Ora, a distanza di tantissimo tempo, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato in Italia e all’estero, avendo segnato una svolta epocale, delineato uno spartiacque definitivo rispetto ai precedenti sistemi di indagine in uso nel contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata.

Visti dall’esterno, noi giudici del pool potevamo sembrare quattro matti, dalla mattina alla sera chiusi in un ufficio blindato… e forse un po’ matti lo eravamo davvero. Ma lì nel “bunkerino”, se non altro, ti sentivi un po’ più al sicuro rispetto a quando andavi in giro.

Ci occupavamo di mafia, delitti, droga, ci toccava interrogare criminali incalliti certamente non bene disposti nei nostri confronti. Per la verità, non lo erano neppure alcuni colleghi e qualche rappresentante della cosiddetta società civile, ma di questo vi dirò più avanti.

Insomma non un bel vivere e soprattutto con poco spazio per qualche intermezzo spensierato. Eppure, certamente anche per il clima di tensione nel quale eravamo immersi, i nostri rapporti personali divennero sempre più stretti e i colleghi diventarono amici.

A volte andavamo anche fuori a cena con le mogli in un ristorante che oggi non credo ci sia più, dalle parti di viale Michelangelo a Palermo.

Erano poche le serate dove ci lasciavamo andare, dove ci sentivamo davvero rilassati. Ne ricordo una in particolare: tutti seduti al tavolo, a me e ad altri sembrò che qualcosa si fosse posato sui capelli. Pensavamo si trattasse di una mosca o di un pezzettino di intonaco che si fosse staccato dal soffitto, ma guardandoci attorno cogliemmo Giovanni nell’atto di levare la mollica dal pane, farne delle piccole palline e lanciarle a tutti quanti noi.

Come degli adolescenti alla cena di fine anno scolastico, reagimmo con prontezza a quell’attacco proditorio e ne nacque una battaglia senza esclusione di… molliche, con conseguente vergogna finale quando ci rendemmo conto di averne lasciato sul campo un tappeto. Non so cosa abbia pensato il proprietario del ristorante, che magari all’inizio era pure contento di avere quel gruppo di magistrati nel suo locale.

Con Giovanni condividevo poi una grande passione per le penne stilografiche, quelle che si caricavano con l’inchiostro che, come mi è accaduto più volte, finiva con il tracimare dal contenitore con immaginabili, disastrose conseguenze. Un effetto devastante che si era verificato in misura particolarmente amplificata nel corso di una delle trasferte di lavoro. Portavamo nella tasca le nostre penne stilografiche (allora si usavano) e una volta in aereo, per un problema di depressurizzazione, la sua e la mia scoppiarono, inondando di inchiostro giacche, camicie e cravatte. Non era possibile cambiare gli indumenti inchiostrati perché non potevamo accedere alle valigie custodite in stiva ma, per fortuna, eravamo in inverno e, scesi a terra, ci imbacuccammo nei cappotti per nascondere il disastro.

Quando avevamo un po’ di tempo libero, andavamo da Bellotti De Magistris, all’epoca la bottega più fornita di Palermo, per visionare i nuovi arrivi di stilografiche, sui quali ci teneva puntualmente informati il titolare del negozio. Giovanni aveva maggiori disponibilità economiche, e quando comprava una penna il cui costo era fuori dalla mia portata ne faceva sfoggio con me. Ricordo che un giorno mi chiamò nel suo ufficio. Lo trovai che stava facendo finta di scrivere con una penna stilografica che – notai subito – doveva essere stato il suo più recente, costoso acquisto. Immaginai dove intendesse andare a parare e gli sedetti di fronte senza parlare, non volevo dargli soddisfazione, finché fu Giovanni a chiedere: “Ma tu non vedi niente di nuovo, non mi devi dire niente?” Io risposi: “Veramente sei tu che mi hai fatto venire nel tuo ufficio, cosa devi dirmi?” E lui: “Non vedi che sto scrivendo con una nuova penna? Ti piace?” E io di rimando: “Una penna nuova? Non me n’ero accorto, mi sembrava una di quelle che comprammo assieme”. Gli avevo rovinato la sceneggiata, me ne disse di tutti i colori e alla fine ci mettemmo a ridere come due ragazzini.


Penne stilografiche e papere, coppe e centinaia di sigarette fumate

Scrivo e man mano i momenti leggeri riaffiorano.

Qualche volta succedeva che Giovanni si divertisse a “scoprire” cognomi siciliani da tradurre… in lingua italiana. Una mattina venne da me e mi chiese: “Leonardo, che fine ha fatto quell’imputato che si chiama Assaggialuva?”

Gli risposi che non ricordavo nessun imputato con quel cognome. E lui: “Possibile che non ti ricordi?” Insomma andammo avanti per un po’ fino a quando non ammise che l’imputato di cui parlava era Mangiaracina, che in italiano si tradurrebbe in “assaggia l’uva” perché la “racina” nel nostro dialetto è l’uva.

E poi devo assolutamente raccontare di una trasferta fatta insieme negli Stati Uniti e in Canada. Quella volta fu necessario che io mi fermassi a New York ancora un giorno per un ultimo atto istruttorio, mentre Giovanni mi avrebbe preceduto a Montreal, dove l’avrei raggiunto, per un altro atto istruttorio. Poiché avrei dovuto pagare il soggiorno nell’albergo con la carta di credito, che avevo però dimenticato a casa, pregai Giovanni di occuparsi, insieme al suo, anche del mio conto. Mal me ne incolse, perché al ritorno a Palermo Giovanni iniziò a stressarmi per avere il saldo del debito. Un po’ stupito gli dissi che la somma anticipata gli sarebbe stata addebitata dopo qualche tempo e, quindi, non c’era alcuna premura. Ma non ci fu nulla da fare. Serissimo, insisteva. Ricorse an- che al latino: “Bis dat qui cito dat”, “dà due volte chi dà presto”, finché non scoppiò in una grossa risata. Mi stava prendendo in giro.

Ci si scambiava spesso anche piccole gentilezze. Come quando, al ritorno da una trasferta all’estero, Giovanni mi portò in dono la riproduzione di un monaco tibetano della quale si impossessò subito mio figlio, suo grande “tifoso” e oggi anche lui magistrato. O dopo il passaggio alla Procura, quando Giovanni mi regalò due quadri tra quelli che adornavano la sua stanza nel “bunkerino”, e che conservo gelosamente. Ma ripensandoci, mi è sorto il sospetto, chissà perché, che si sia disfatto di quelli che gli piacevano meno!

Falcone era anche un collezionista di papere. Andava alla ricerca di nuovi esemplari a ogni viaggio e li cercava di un materiale sempre diverso. Aveva cominciato la collezione perché all’inizio della carriera aveva commesso un errore, “una papera” appunto, e da quel momento, per ricordarsi di non commetterne più, incominciò a volersene circondare.

Quando la professoressa Maria Falcone, Presidente della Fondazione intitolata al fratello, di cui sono consigliere, mi propose di assumere l’incarico di Segretario generale, le risposi, celiando, che avrei accettato a condizione che mi avesse regalato una delle tante papere di Giovanni. Ne ho scelta una in legno e ora la tengo nel mio studio come una cosa estremamente cara. E mentre Giovanni accumulava papere, io collezionavo coppe.

Una volta Paolo Borsellino venne a trovarmi con il figlio Manfredi, all’epoca adolescente, in ufficio, dove avevo esposto in una bacheca i trofei vinti giocando a calcio. Restammo a conversare per un po’ e poi Paolo e il figlio lasciarono l’ufficio. Qualche giorno dopo Paolo tornò a trovarmi, bussò forte alla porta, dove “bussare” è un eufemismo perché stava quasi per buttarla a terra, e con la sua immancabile sigaretta all’angolo della bocca mi apostrofò in dialetto: “A vo’ sapere ’na cosa? Sabato scorso sarei subito tornato indietro e, se non c’era mio figlio, t’avissi ammazzato”. Sorpreso, gli chiesi cosa mai avessi fatto per meritare quelle sue parole minacciose, e Paolo chiarì: “Vuoi sapere cosa ha detto mio figlio Manfredi quando sono uscito dalla tua stanza? Ha detto: ‘Papà, hai visto quante coppe e medaglie ha ricevuto il tuo collega? Quello sì che è un giudice, non tu che non ne hai mai vinta una’”. Naturalmente ci facemmo una bella risata.

Le sigarette… Giovanni e Paolo fumavano tantissimo, soprattutto il secondo. Io invece non ho mai fumato in vita mia, eppure da una radiografia, effettuata per accertare eventuali segni di una bronchite, emerse addirittura che i miei bronchi erano “neri, come quelli dei fumatori”.

Insomma, ero rimasto vittima del fumo “passivo” accumulato nelle lunghe riunioni del lunedì e in altre occasioni. Ad esempio, anche quando gli davo un passaggio in macchina Paolo non rinunciava alla sua ennesima sigaretta e, a seconda che sedesse alla mia destra o alla mia sinistra, quando rientravo a casa mia moglie sentiva che la mia guancia destra o quella sinistra “odorava” di fumo.

Quel “comunista” di Falcone accusato di voler sovvertire la democrazia

Io, in tutta coscienza, credo che compito del magistrato sia quello di ristabilire il primato della legge, quando si ritiene sia stata violata. Se c’è stato un omicidio o si sospetta un traffico di droga, con il supporto della polizia giudiziaria io devo risalire ai colpevoli. E se questi presunti colpevoli fanno parte di un’organizzazione che si dedica per statuto alla progettazione e attuazione di fatti

criminosi e si chiama Cosa nostra, io devo combatterla.

Ma il magistrato deve essere “terzo”, disse qualcuno. Sicuramente lo è il giudice che in Tribunale deve decidere della colpevolezza o dell’innocenza dell’imputato, ma io che indago ho il dovere di individuare e perseguire i colpevoli cercando le prove a loro carico ma anche quelle a favore, come prescrive il codice di rito.

Mentre i criminali ammazzavano giornalisti, colleghi, poliziotti, facevano saltare autovetture con il tritolo, noi avremmo dovuto mantenere un certo aplomb nei confronti di quelle belve assassine. Siamo stati rigorosi e non ci siamo fatti travolgere dall’emergenza, infatti, abbiamo sempre cercato prove e riscontri, ma avevamo ben chiaro un fatto: quelli erano i nostri avversari. Siamo stati giudici, non giustizieri.

Eppure c’era chi diceva che la specializzazione dell’attività dei magistrati non andava bene, addirittura era contraria alla democrazia. Questa posizione, in realtà, ho sempre fatto fatica a capirla. Perché oggi esistono magistrati specializzati nei reati contro i minori, quelli più versati sul fronte delle indagini bancarie, ci sono stati il pool di Mani pulite e prima ancora quello contro il terrorismo, eppure la nostra democrazia mi sembra che goda di buona salute.

Migliorabile magari, ma ancora con una certa efficienza. E allora, forse era solo quel pool che non andava bene.

A tal proposito mi viene in mente il Manzoni, l’incontro dei “bravi” con Don Abbondio e la frase: “Questo matrimonio non s’ha da fare. Né domani, né mai”.

Infine, c’era un’ultima accusa, probabilmente la più sentita tra quelle che venivano mosse dal fronte dei nostri “amici” e che tradiva il suo vero, unico obiettivo. Secondo qualcuno il pool in realtà era strumentalizzato e stava lavorando per i comunisti. In quella terra di Sicilia, da sempre serbatoio di voti per la Democrazia cristiana, quei giudici, e in particolare quel “comunista” di Falcone, stavano lavorando per un cambio di governo.

Non riuscendo a vincere le elezioni il Pci stava manovrando per utilizzare la via giudiziaria che avrebbe scardinato un blocco di potere. Tutto questo, par di capire, anche con l’appoggio del monarchico Paolo Borsellino, da giovane animatore della formazione di destra del Fuan e che alle elezioni parteggiava per il Msi.

A forza di sentire certe accuse e insinuazioni, piano piano ci accorgemmo che l’opinione pubblica e il clima intorno a noi stavano cambiando. Ad esempio, Falcone se la prese molto quando i condomini del suo palazzo di via Notarbartolo, dove oggi c’è l’albero Falcone, scrissero al “Giornale di Sicilia” per prendere le distanze dal pericoloso condomino che metteva a rischio la loro incolumità e i loro beni.

Le lamentele sulle scorte erano un classico e trovavano sfogo sempre sulle colonne del “Giornale di Sicilia”, che pubblicava lettere come quella firmata da una signora che affermava di abitare nelle vicinanze di casa Falcone.

«Regolarmente tutti i giorni (non c’è sabato e domenica che tenga), al mattino, durante l’ora di pranzo, nel primissimo pomeriggio e la sera (senza limiti di orario), vengo letteralmente ‘assillata’ da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora io domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro? O quanto meno seguire un programma televisivo in pace?» «Perché non si costruiscono per questi ‘egregi signori’ delle villette alla periferia della città, in modo tale che, da una parte, sia tutelata la tranquillità di noi cittadini-lavoratori, dall’altra, soprattutto, l’incolumità di noi tutti che, nel caso di un attentato, siamo regolarmente coinvolti senza ragione».

Aveva ragione Giovanni quando lucidamente affermava: «La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Essa vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di cultura di Cosa nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione».

Già, la mafia… Sono passati quasi quarant’anni dall’“avventura” del pool che vi sto e mi sto raccontando. Ma c’è anche un lunghissimo prima, e c’è un dopo che giunge fino a oggi.


Falcone, le qualità umane e il suo altissimo senso delle istituzioni

Se Caponnetto era la nostra guida, Giovanni Falcone, accanto a lui, era il nostro leader. La sua autorità se l’era guadagnata sul campo.

D’altronde, se un magistrato come Rocco Chinnici aveva deciso di affidargli il processo Spatola qualche buon motivo doveva esserci. Era capace di iniziare la giornata alle cinque del mattino, andare in piscina (non sempre) e poi lavorare tutto il giorno fino a tardi.

Era dotato di carisma, di un intuito formidabile e di una memoria straordinaria.

La sua vita era dedicata al lavoro. Le sue giornate non avevano pause. Nonostante la sua autorevolezza, conservava un atteggiamento rispettoso e colloquiale nei confronti dei colleghi più giovani, mentre nei nostri confronti manteneva sempre un comportamento franco, leale, aperto, amichevole e anche protettivo.

Se avevi un dubbio su un mafioso, non ricordavi a quale “famiglia” appartenesse, lui era in grado di ricordare non solo la “famiglia”, cioè il manipolo di “uomini d’onore” di cui faceva parte, ma anche tutta la sua parentela di sangue. L’unico che poteva stargli dietro era Paolo. Per questo fra i due si scatenavano ogni tanto accese discussioni su quello o quell’altro mafioso, sul curriculum, l’appartenenza, la parentela. Nessuno dei due cedeva. Una “camurria”, avrebbe detto Andrea Camilleri, anche molto divertente.

Giovanni sapeva ridere e scherzare, ma non aveva un carattere facile. Come se interponesse sempre una barriera fra sé e gli altri. Non era ottimista né pessimista, era realista. Era una persona riservata, ma quando oltrepassavi quella barriera scoprivi un uomo dalla grande bontà d’animo. Rammento che spesso chiedeva notizie dei nostri genitori e dei nostri figli, ed era sempre pronto a sostenerci nei momenti difficili o dolorosi, come è avvenuto in occasione del decesso di mio padre.

Quando Caponnetto salutò tutti per fare ritorno a Firenze, Giovanni pianse.

Falcone era pienamente convinto delle proprie capacità e di ciò che stava facendo. Lavorare con lui era impegnativo perché ogni giorno dovevi essere all’altezza del compito, perché lui non si concedeva tregua. Era schietto, non sapeva nascondere il giudizio su persone che riteneva non capaci, per questo si attirò molte critiche. Persino Chinnici, che pure lo stimava, nei suoi diari avanzò qualche dubbio sui suoi atteggiamenti. Ma possiamo solo immaginare il clima di paranoia del consigliere istruttore in quei giorni.

Il sense of humor di Giovanni era intonato al suo carattere. Gli piacevano le freddure, quelle battute che ci metti un po’ a capire e ti lasciano perplesso. Ai giornalisti che chiedevano come stesse, lui rispondeva “in piedi”, se era alzato, oppure “seduto” se non lo era, e se citofonavi e dicevi: «Sono Leonardo», lui rispondeva: «Io no».

Possedeva un altissimo senso delle istituzioni, che lo portò a collaborare con il consigliere istruttore Antonino Meli anche quando comprese che questi aveva deciso, con provvedimenti che non condivideva, di mettere fine all’esperienza del pool.

Giuseppe Di Lello e Giacomo Conte invece preferirono rinunciare alle loro deleghe.

Sempre per lealtà istituzionale, e anche per non essere coinvolto in un altro scontro come quello con Antonino Meli, Giovanni firmò la requisitoria del procedimento relativo ai delitti politici Reina, Mattarella e La Torre, le cui conclusioni non lo convincevano. Allora Falcone era Procuratore aggiunto mentre il capo dell’ufficio era il dottor Pietro Giammanco.

Vicende su cui tornerò ancora più avanti.

Altro che forcaiolo e altro che sceriffo, Giovanni era un cultore delle regole, dei codici, della legge. Nessuno di noi era un giudice “oltre le righe”. Eravamo garantisti, garantisti fino al midollo. Una volta, eravamo nel 1988, valutammo la possibilità di emettere un mandato di cattura nei confronti di uno dei fratelli Costanzo, a nome Carmelo, i potenti costruttori catanesi, i famosi “cavalieri”, sul cui conto aveva reso dichiarazioni il collaboratore

Antonio Calderone indicandoli come “vicini”, se non “interni”, al clan mafioso di Nitto Santapaola. Ricordo che discutemmo sino a tarda sera ma alla fine, poiché non ne eravamo sicuri al 101 per cento, quel mandato di cattura non lo emettemmo.


Le prime “scandalose” indagini bancarie, tutti contro Giovanni Falcone

Di fronte a questo scenario, la rivoluzione giudiziaria – come poi accadde per la mia vita professionale – partì con una telefonata. E fu quella che Rocco Chinnici fece a Giovanni Falcone. Senza tirarla tanto per le lunghe, il consigliere gli chiese la disponibilità a occuparsi del processo Spatola, l’inchiesta di cui si era già occupato il procuratore Gaetano Costa, ucciso dopo aver firmato in solitudine il mandato di cattura nei confronti di alcuni “uomini d’onore”.

Falcone, naturalmente, accetta l’incarico, inizia a indagare e, in breve tempo, intuisce che alcuni delitti di mafia sono legati fra loro, fanno parte di una logica associativa; per quanto riguarda il traffico di droga, realizza che era più facile seguire il denaro delle transazioni che andare a caccia delle raffinerie, ovvero di laboratori impiantati in Sicilia che per anni ci si era intestarditi a scovare. A Giovanni quel difficile lavoro sul campo sembrava troppo dispendioso e pericoloso.

Sarà anche per la sua preparazione giuridica e perché era un cultore del diritto bancario, ma le prove andò a cercarle nelle banche, provocando il panico nell’intera società siciliana.

Nel 1979 ebbe la brillante e, a quel tempo, eversiva idea di chiedere ai direttori degli istituti di credito di Palermo e provincia di inviargli le distinte di cambio di valuta estera per le operazioni effettuate a partire dal 1975. Fu un’intuizione rivoluzionaria che provocò un terremoto di reazioni immediate e scomposte. Come quella di un importante penalista palermitano che, nell’atrio del Tribunale, in modo che tutti potessero sentirlo, disse: “Ma dove vuole andare questo Falcone?”, dal momento che Giovanni aveva chiesto copia di un versamento da 300 mila dollari alla filiale siciliana della Cassa di risparmio per le province siciliane.

O come quando il presidente della Corte di Appello di Palermo Giovanni Pizzillo convocò il consigliere Chinnici per dirgli: “Ma cosa credete di fare all’Ufficio di Istruzione? La devi smettere di fare indagini nelle banche, così rovini tutta l’economia siciliana”. E gli suggerì di caricare di “processetti” Falcone, in modo che “così farà come ogni giudice istruttore: non farà più niente”. Ma Chinnici, ovviamente, non ascoltò il consiglio di sua eccellenza Pizzillo.

L’idea di entrare negli istituti di credito, considerati santuari inaccessibili, ebbe un effetto destabilizzante perché era impensabile, sino ad allora, che qualcuno potesse mettervi piede per effettuare delle indagini. La mafia lì dentro si sentiva al sicuro. L’ispirazione a procedere in tal modo venne a Falcone, così si racconta, dopo aver visto un documentario sulla storia di Al Capone, il principale gangster americano degli anni Venti, all’epoca del Proibizionismo. Per anni i federali cercarono di incastrarlo senza riuscirci, ma raggiunsero l’obiettivo quando, dopo che il boss era stato dichiarato “nemico pubblico numero uno”, fu formata una squadra di investigatori con il compito di esaminare le sue transazioni finanziarie. Alla fine Al Capone venne condannato alla pena di undici anni di reclusione per il reato di evasione fiscale.

Per la Sicilia, e l’Italia intera, stava davvero accadendo una specie di rivoluzione. E mi sarebbe piaciuto vedere da vicino le facce di quei funzionari di banca. Qualcuno rispose con prontezza alla richiesta, altri presero tempo e altri ancora chiamarono Falcone per chiedere chiarimenti. Ma non c’era nulla da chiarire: bisognava trasmettere la documentazione richiesta.

Fu grazie a questo metodo di lavoro, per esempio, che Giovanni riuscì a scoprire, nel 1979, che sotto il falso nome di Joseph Bonamico si nascondeva Michele Sindona, raggiungendo così la prova della sua presenza in Sicilia. Un passaggio fondamentale per quell’indagine.

D’altra parte, bisogna ricordarsi che, nonostante la leggendaria capacità di lavoro di Falcone e l’abnegazione delle forze dell’ordine, si lavorava in maniera artigianale, complice la mancanza di strumenti informatici. E infatti la sorella Maria mi ha confermato quello che già sapevamo, e cioè che anche i tavoli dell’appartamento in cui Giovanni viveva con la madre erano interamente coperti di assegni da esaminare. Ed era stato con l’aiuto di Ninni Cassarà e del giovane capitano della Guardia di Finanza Ignazio Gibilaro che Falcone aveva potuto mettere a fuoco i collegamenti fra Cosa nostra italiana e quella americana, resi manifesti nel corso dell’indagine cosiddetta “Pizza Connection”, e aveva compreso che la lotta alla criminalità organizzata doveva valicare i confini nazionali.

Allora crebbe anche la consapevolezza che la mafia avesse raggiunto un alto grado di contaminazione dell’economia legale, con effetti visibili quali la distorsione della concorrenza, l’imposizione dei prezzi e dei ribassi nelle gare di appalto.


Una “rivoluzione copernicana”, il metodo Falcone fa paura alla mafia

Fu questo tipo di visione che, declinata dal punto di vista normativo, portò al varo della legge Rognoni-La Torre, che diede un forte impulso a questo tipo di indagini.

Anche in questo caso, come spesso per le normative antimafia, la legge è stata varata in risposta a due gravi attentati: l’uccisione di Pio La Torre (30 aprile 1982), segretario regionale del Pci siciliano, e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982), prefetto di Palermo inviato in Sicilia subito dopo l’omicidio del politico comunista.

La legge, varata il 13 settembre 1982, introdusse il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, il 416 bis del codice penale, e dispose importanti misure di prevenzione patrimoniali come il sequestro e la confisca dei beni.

I mafiosi andavano attaccati nel loro punto debole, “la roba”, cioè il denaro, i loro patrimoni. Perché un appartenente a Cosa nostra mette in conto che potrà essere arrestato e potrà trascorrere anni in carcere, rientra nei rischi della vita che ha scelto e può servire, nel suo mondo capovolto, anche ad acquisire prestigio e “promozioni” all’interno dell’organizzazione. Ma quello che teme e non può accettare è che lo Stato sequestri e confischi la sua “roba”. Questo no. Ed è proprio facendo leva su questo che Giovanni Falcone iniziò un’indagine che non aveva precedenti.

La nuova normativa permetteva di seguire le tracce lasciate dal denaro acquisito illecitamente e, atto vieppiù rivoluzionario, di mettere mano alla documentazione bancaria.

Il sistema del credito, infatti, costituisce uno dei nodi più importanti del riciclaggio di denaro sporco, ovvero del sistema per rendere puliti i capitali che provengono invece da attività illegali. E gli accertamenti sono indispensabili per capire quali modalità di finanziamenti siano stati utilizzati dalle cosche, incluso l’utilizzo di programmi di pubblico intervento nell’economia o di sostegno alle imprese che siano stati dirottati verso le casse di Cosa nostra.

Attraverso questo tipo di indagini, ieri e ancora di più oggi, si cerca di ricostruire dal punto di vista dinamico la storia di un patrimonio, la sua formazione ed evoluzione nel tempo. A ciò, man mano, si è affiancata un’attività inquirente che mira a conoscere il contesto socio-economico del territorio e quindi la realtà in cui operano i mafiosi.

Uno dei vantaggi principali, soprattutto pensando all’epoca pionieristica di certe inchieste, fu la possibilità di trovare connessioni fino ad allora impensabili tra le persone.

Finalmente la polizia giudiziaria ebbe la delega per accedere ai conti bancari anche senza l’autorizzazione del magistrato e senza che gli istituti di credito potessero negare l’accesso. Lo sviluppo di questo tipo di investigazioni portò inoltre, come felice conseguenza, l’avvio della stretta e proficua collaborazione con la Guardia di Finanza.

Solo per fare un esempio del lavoro svolto, nel volume 38 dell’ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985 si ricostruiscono i movimenti bancari con i quali Michele Greco ha fatto pervenire un assegno di tre milioni di lire a tale Bonaccorso Maria che lo ha girato a Greco Ignazio che, a sua volta, lo ha negoziato, ha prelevato venti milioni all’ordine della Olimar Costruzioni (sono elencati anche i soci) e poi ha tratto altri due assegni per altre persone.

Tutti questi movimenti, alcuni molto più complessi, interessarono ben 707 soggetti, ovvero tutti gli imputati della più volte menzionata ordinanza-sentenza.

Nasceva così il “metodo Falcone”.

Ma un giudice istruttore da solo non era in condizione di esaminare migliaia di documenti bancari, era necessario allestire una squadra, un pool di magistrati dediti esclusivamente ai reati di mafia. Furono queste alcune delle riflessioni che Giovanni condivise con Rocco Chinnici, il quale diede il via all’embrione del pool antimafia, poi formalizzato da Antonino Caponnetto prendendo spunto dalla lotta all’eversione.

Dal punto di vista procedurale, infatti, la figura del pool non era contemplata, visto che la regola parla di giudice monocratico. Gian Carlo Caselli e Ferdinando Imposimato, magistrati in servizio a Torino e Milano rispettivamente, impegnati in indagini sul terrorismo, avevano però già battuto questa strada. Con i loro consigli furono di aiuto a Caponnetto, il quale ricorse a un escamotage, come già evidenziato in precedenza, che gli permise di fare funzionare il pool. Peraltro, quell’espediente procedimentale aveva già resistito al vaglio della Corte di Cassazione, che aveva respinto il ricorso di alcuni terroristi.


Le casseforti svizzere e l’accusa di fare “turismo giudiziario”

Il lavoro che dovevamo affrontare era comunque immane. E nell’attività investigativa, oltre alla collaborazione degli uomini della Guardia di Finanza, va rimarcato che la collaborazione con la magistratura di altri Stati, in particolare la Svizzera, ci fece conseguire risultati insperati.

Per il compimento di atti istruttori in altri Paesi è necessario ricorrere all’istituto della rogatoria, la cui funzione è quella di rendere possibile, per l’autorità giudiziaria, non solo l’espletamento di atti processuali ma anche la raccolta di elementi di prova presso una diversa autorità giudiziaria, italiana o straniera.

L’esperienza maturata in tanti anni aveva insegnato a tutti noi che spesso le rogatorie venivano espletate con ritardo o in modo insoddisfacente perché il giudice richiesto era già impegnato in altre indagini, alle quali dava, comprensibilmente, la precedenza. E allora l’intuizione vincente fu di andare personalmente in altri Paesi a compiere atti o acquisire documenti e a conoscere i colleghi con i quali intrattenere rapporti di collaborazione.

Un’iniziativa che il consigliere aggiunto Marcantonio Motisi più volte aveva bollato come “turismo giudiziario”!

Falcone fu autorizzato a recarsi in Svizzera per una rogatoria. In quell’occasione conobbe Carla Del Ponte, procuratrice di Lugano, la più giovane in servizio in quell’ufficio, alla quale era stato comunicato che un magistrato italiano, anzi siciliano, un certo Giovanni Falcone, si era voluto scomodare per venire fin lassù, chissà perché… Da allora ebbe inizio un sodalizio professionale e un saldo rapporto di amicizia che diede frutti eccezionali.

A sua volta il magistrato elvetico venne a Palermo per interrogare esponenti mafiosi che, confidando sull’impenetrabile segreto bancario svizzero, avevano acceso conti correnti a loro nome sui quali pendevano delle indagini.

Lo stesso Salvatore Riina venne interrogato da Del Ponte, alla quale, in tono aggressivo, chiese perché fosse venuta fino a Palermo per perdere tempo, visto che si era rifiutato di rispondere alle sue domande. Poi alla fine, con un classico atteggiamento mafioso, si scusò.

Proprio lei, Carla Del Ponte, era presente a Palermo – come spiegherò meglio più avanti – il giorno del fallito attentato a Falcone, il 21 giugno del 1989, e chissà quanto questa vicinanza contribuì a che il muro del segreto svizzero, a un certo punto, iniziasse a cedere.

Un giorno arrivò la notizia che le autorità elvetiche erano pronte a consegnare copia della documentazione bancaria relativa a Vito Ciancimino.

Un’informazione riservatissima e clamorosa alla quale doveva darsi seguito nell’immediato perché un’eventuale fuga di notizie avrebbe rischiato di mandare a monte l’operazione.

Subito venne allertata la Guardia di Finanza che si occupò di ritirare la documentazione presso un istituto di credito di Chiasso e di consegnarla a Falcone, quasi fosse un importante trofeo.

In effetti, era come se il Palermo calcio avesse vinto la Coppa dei Campioni, ma lo sapevamo solo noi; e dubito che in certe zone della città, se alcuni mafiosi l’avessero saputo, ci sarebbero stati grandi festeggiamenti.

Oggi, come sappiamo, a distanza di tantissimi anni, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato, con risultati mai raggiunti prima, in Italia e all’estero.


Quando Falcone mise in scacco i boss senza sequestrare un grammo di eroina

L’indagine “Pizza Connection”, condotta dagli investigatori statunitensi, fornì a Giovanni preziosissimi elementi per il processo maxi-uno. Trovò così conferma l’intuizione di un giudice lungimirante – non visionario, come definito dai suoi detrattori – sulla necessità della collaborazione tra le nazioni per fare fronte comune, sul versante sia preventivo che repressivo, alle organizzazioni criminali che, già allora, facevano affari fuori i confini nazionali, spartendosi un mercato miliardario. E anche sulla scorta dell’esperienza maturata negli Usa e nel pool antimafia, Giovanni, lasciate le funzioni di Procuratore aggiunto presso la Procura di Palermo e assunte quelle di responsabile della Direzione Generale degli Affari Penali dell’allora Ministero di Grazia e Giustizia, si adoperò affinché il legislatore adottasse provvedimenti legislativi inediti, mirando a dotare la magistratura e le forze dell’ordine di strumenti innovativi di contrasto al crimine organizzato.

E non è un caso se oggi, nella scuola dell’FBI di Quantico, sia esposto il busto di Giovanni Falcone, per iniziativa di Louis Freeh, già direttore del bureau, in ricordo perenne della “più alta rappresentazione della Giustizia e dello Stato”. E anche una sala del quartier generale di Washington lo ricorda nella “Giovanni Falcone Gallery”.

“Pizza Connection” era in pratica il proseguimento del processo Spatola.

Il business si sostanziava nell’esportazione di droga per circa 2.000 miliardi di lire che vennero poi occultati nelle banche dello stato delle Bahamas e di altri Paesi offshore. Nel corso delle indagini, constatato che gli imputati parlavano al telefono in stretto dialetto siciliano, fu necessario inviare negli Stati Uniti poliziotti in grado di comprendere quel dialetto e tradurre in diretta le conversazioni telefoniche.

Il processo celebrato negli Usa, durato un paio di anni, non ebbe uno svolgimento del tutto tranquillo, a cominciare dalle necessarie precauzioni nella scelta dei giurati i cui nomi vennero tenuti segreti. Ma, nonostante l’adozione di questo accorgimento, uno di essi fu costretto a rinunciare all’incarico perché la sua famiglia aveva ricevuto delle minacce.

La cosa curiosa è che la “Pizza Connection” non registrò il sequestro di neanche un grammo di eroina. Tutto si basava sulla tracciabilità del denaro.

L’indagine mise in evidenza il ruolo della Sicilia come produttore di eroina. All’inizio i mafiosi siciliani ricorrevano alle doti professionali di chimici marsigliesi o corsi, come accertato grazie a una segnalazione della polizia francese che avvisò i colleghi italiani dell’arrivo di un certo André Bousquet, catturato con altri due francesi che risiedevano all’hotel Riva Smeralda di Carini dove dei poliziotti, travestiti da camerieri, li tenevano d’occhio. I pedinamenti portarono gli agenti di polizia fino al laboratorio dove lavoravano i francesi, e qui venne arrestato anche Gerlando Alberti, soprannominato “’u paccaré“, cioè l’imperturbabile, un personaggio della mafia degli anni Sessanta. Era l’agosto del 1980. Era la prima raffineria di droga scovata in Sicilia. A questa operazione fece seguito la scoperta subito dopo della seconda raffineria.

Un successo che Carmelo Jannì, proprietario dell’albergo dove i poliziotti avevano agito sotto mentite spoglie, pagò con la vita. Durante le fasi dell’arresto, infatti, in uno dei poliziotti i mafiosi riconobbero il cameriere che li aveva serviti in hotel. Collaborare con lo Stato poteva essere molto rischioso.

La fine dell’alleanza con i chimici francesi portò alla ribalta Pietro Vernengo che divenne il nuovo chimico, responsabile della raffinazione della morfina base e della produzione di eroina.

Vernengo però non si dimostrò all’altezza – era stato studente di chimica e per questo nel suo ambiente lo chiamavano “’u dutturi” – e combinò un disastro quando a New York ci fu una serie di decessi a seguito dell’assunzione della droga prodotta a Palermo.

Gli americani erano furibondi e a quel punto subentrò Francesco Marino Mannoia, che invece se la sapeva cavare molto meglio, e la situazione venne risolta.

Il traffico mondiale di droga inizia qui, da quelle raffinerie, situate dove Cosa nostra aveva il pieno controllo del territorio, che avevano bisogno di tanta acqua ed energia elettrica per funzionare. Per questo, nella zona della nostra casetta estiva di Trabia, succedeva a volte che la luce elettrica si affievolisse o addirittura si spegnesse.

Scoprimmo dopo che una raffineria era in funzione proprio da quelle parti. Dalle zone dove mancava spesso la luce partivano le indagini finalizzate alla scoperta dei laboratori che facevano ricca la mafia di Palermo.

Tutta questa storia è stata ricostruita, in quel piccolo bunker, grazie al prezioso lavoro e al diuturno impegno dei nostri due Dioscuri.

Un fil rouge, mai spezzato, ha legato indissolubilmente le vite e il comune destino di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dapprima, l’adolescenza trascorsa insieme nel rione di Palermo dove erano nati e le loro famiglie abitavano, poi la scelta, terminati gli studi scolastici, di iscriversi alla facoltà di giurisprudenza e la decisione di partecipare, conseguito con il massimo dei voti il diploma di laurea, al primo concorso utile per entrare in magistratura, superato brillantemente da entrambi. Poi, lasciati alle spalle gli anni di tirocinio e delle prime assegnazioni a sedi giudiziarie fuori Palermo, l’approdo di entrambi, in tempi diversi ma prossimi, all’Ufficio di Istruzione del Tribunale del capoluogo. Così tutto ebbe inizio.


Cosa nostra è una e verticistica, l’intuizione che ha cambiato tutto

Ripensando adesso al periodo iniziale, mi sovviene l’impatto che ha avuto su di me. Fin dal primo giorno ho capito che avrei dovuto cambiare completamente il modo di lavorare, e così i primi tempi non furono affatto facili, era necessario che mi adattassi, al più presto, al metodo di lavoro dei compagni della mia nuova esperienza.

Nei primi venti anni della mia carriera avevo quasi sempre svolto le funzioni di giudice monocratico, assumendo gli incarichi di giudice istruttore a Milano, Pretore del Mandamento di Niscemi prima e del Mandamento di Termini Imerese dopo, nonché di giudice istruttore penale presso quel Tribunale.

Queste funzioni mi consentivano di svolgere indagini e accertamenti e di adottare i provvedimenti conseguenti in piena e assoluta autonomia.

Nel pool invece ho scoperto un diverso approccio, quel metodo che poi è stato il segreto di una strategia vincente.

La nostra forza stava nel saper lavorare insieme, nella capacità del leader di tenere unito il gruppo, motivarlo e spronarlo. Elementi determinanti e affinati nel tempo.

La costruzione del pool avvenne per fasi successive. Rocco Chinnici ebbe due geniali intuizioni. Innanzitutto quando disse che “un magistrato non è un uomo separato dalla società”. Affermazione che si traduceva concretamente nella sua costante partecipazione a dibattiti, convegni e incontri con gli studenti.

Chinnici voleva parlare di mafia in tutti i luoghi e le maniere possibili, convinto che l’azione repressiva non potesse essere l’unica risposta dello Stato. Occorreva coinvolgere scuole, società civile, associazioni, perché alla fine prevalesse la cultura della legalità, fondamentale per prosciugare le sorgenti che alimentavano Cosa nostra.

Rocco Chinnici è stato il primo magistrato a uscire dal Palazzo di Giustizia e dall’ambito del suo lavoro per cercare di spiegare alla gente che la lotta alla mafia doveva essere un impegno di tutti, non solo di pochi poliziotti, carabinieri e magistrati.

La seconda intuizione è stata considerare la mafia un’organizzazione verticistica e unitaria. Non una congrega di bande in perenne competizione fra loro, ma un’organizzazione che potremmo definire “federale” e dotata di una certa unità.

Per questo motivo le indagini non potevano riguardare il singolo omicidio o la singola famiglia, ma dovevano essere improntate a una visione generale del “problema”, perché, come era successo, un fatto che per un magistrato non aveva un particolare significato poteva assumerlo per un altro. Importante era che le informazioni circolassero all’interno di un gruppo ristretto che si occupava solo di mafia.

Fare parte di quella squadra voleva dire anche di più.

Io, l’ultimo arrivato, venivo soppesato dai colleghi e soprattutto dovevo offrire piena disponibilità. La dedizione doveva essere totale, non c’erano feste o week-end. E se improvvisamente bisognava partire, ad esempio per il Canada, come è successo a me, si faceva la valigia e si andava, dopo avere ottenuto in fretta e furia da mia moglie il “benestare” per l’espatrio, essendo i nostri figli ancora minorenni.

E poi, quanti giorni prefestivi e, spesso, festivi trascorsi in ufficio per decidere sulle numerose istanze di libertà provvisoria inoltrate dagli imputati, o per adottare con urgenza altri provvedimenti. Al riguardo, essendomi stato affidato anche il compito di curare la gestione dei beni sequestrati ad alcuni imputati, nei momenti e nei giorni più impensati, di domenica o nei giorni di festa, mi è toccato occuparmi, insieme all’amministratore giudiziario, dei problemi più eterogenei, come ad esempio reperire un idraulico per una infiltrazione d’acqua da un appartamento a quello sottostante di uno stabile, al fine di evitarne l’allagamento.


La collaborazione con l’Fbi e l’inchiesta sulla “Pizza Connection”

Era l’ottobre del 1982 quando una delegazione italiana partecipò alla Conferenza internazionale delle forze dell’ordine tenutasi presso la sezione Criminalità organizzata del Federal Bureau of Investigation, l’Fbi, nella sede della sua accademia a Quantico, in Virginia.

Di quella delegazione faceva parte Giovanni Falcone che approfittò dell’occasione per prendere contatti, ben presto favoriti da cordiali rapporti personali, con le autorità giudiziarie che all’epoca erano impegnate nella complessa inchiesta condotta dall’FBI che aveva per oggetto un grosso traffico di droga tra Palermo e Stati Uniti gestito da mafiosi siciliani e “cugini” americani.

Era la nota operazione “Pizza Connection”, così denominata perché pizzerie e ristoranti venivano impiegati per coprire l’importazione dell’eroina dalla Sicilia e per tenervi i summit tra affiliati.

In quegli anni di febbrile attività di indagine, ben presto si intensificarono le rogatorie negli Usa di Giovanni Falcone, di tutti noi giudici istruttori e dei pubblici ministeri della Procura della Repubblica di Palermo, con l’obiettivo di acquisire elementi di prova da utilizzare nel processo pendente a carico dello Spatola e di altri trafficanti di armi e sostanze stupefacenti.

Ma anche per trarre insegnamenti, e farne tesoro, dall’esperienza maturata da investigatori e funzionari dell’Fbi, il principale corpo della polizia federale statunitense, e della Dea (Drug enforcement administration), l’agenzia anti-droga statunitense.

E fu possibile ottenere la preziosa collaborazione di Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di Manhattan, che sarebbe diventato sindaco di New York nel 1994, di Louis Freeh, componente prima e direttore poi dell’FBI, e di Richard Martin, procuratore del distretto di Manhattan.

Nel corso delle numerose rogatorie a New York, si aprì davanti ai nostri occhi un mondo nuovo, un metodo investigativo all’avanguardia, grazie anche alle conoscenze in tema di collaboratori di giustizia (figure ufficialmente introdotte nel nostro ordinamento soltanto nel 1991) e alla disponibilità da parte degli investigatori statunitensi di moderni strumenti di lavoro. Imparammo molto.

Quando entrammo nella sede dell’Fbi la nostra attenzione venne colpita prima dagli enormi boccioni d’acqua presenti in ogni ufficio, poi dalle agende elettroniche e dai computer utilizzati dagli investigatori con i quali avremmo collaborato.

Già Rocco Chinnici aveva più volte chiesto in dotazione questo tipo di strumenti, ma dal nostro Ministero non era mai arrivato nulla, per cui noi quattro e i pubblici ministeri ancora annotavamo i nomi degli imputati e le informazioni sul loro conto su quaderni e agende cartacee.

Ci volle del tempo perché qualcuno si interessasse alle nostre condizioni di lavoro e finalmente rivolgesse da Roma lo sguardo verso la Sicilia.

Fu Liliana Ferraro, magistrato in forza al nostro Ministero, a essere inviata a Palermo dal guardasigilli Mino Martinazzoli per verificare le condizioni in cui operavamo.

Fu una visita molto utile perché Ferraro rimase sorpresa nel constatare le condizioni disastrose in cui versavano gli uffici: scrivanie e sedie malandate, macchine per scrivere obsolete o mal funzionanti, molti faldoni custoditi alla bell’e meglio, anche per terra, perché mancavano armadi sufficienti per contenerli.

Le indagini bancarie, infatti, avevano comportato l’acquisizione di una enorme quantità di documentazione. Grazie all’interessamento della dottoressa Ferraro, i nostri uffici vennero dotati di nuove ed efficienti attrezzature, anche informatiche.


Palermo, una città “addormentata” che faceva finta di niente

Il nostro lavoro per qualche tempo venne ignorato da gran parte della città o peggio criticato, temuto, ostacolato. Era facile trovare qualcuno, imprenditore, commerciante, professionista che si lamentasse delle incursioni della Guardia di Finanza nelle banche e, soprattutto, di quel giudice, Falcone, un po’ troppo intraprendente.

La città guardava, non si schierava. Stava alla finestra in attesa di conoscere il vincitore.

Poi la collaborazione da “pentito” di Tommaso Buscetta e il blitz di San Michele attivarono un processo virtuoso. Buscetta era una figura particolare. Non era al comando di una “famiglia” ma era trattato lo stesso con grande rispetto. Era un capo e decise di parlare con Falcone che, forse, considerava una sorta di pari grado dall’altra parte della barricata.

Giovanni lo incontrò praticamente sempre da solo, verbalizzò a mano le sue dichiarazioni. Mentre lui parlava e l’inchiesta lievitava, c’era una Palermo che assisteva indifferente alla guerra di mafia. Nessuno sapeva ancora delle rivelazioni di Buscetta, tanto che, nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1984, partì il blitz di San Michele che portò in carcere oltre trecento persone senza che Cosa nostra avesse sentore di nulla. Il giorno dopo a Palazzo di Giustizia ci fu molta agitazione.

Da lì partì il momento d’oro del pool, se così possiamo dire, e dalle esigue disponibilità di uomini e mezzi alle quali ci eravamo abituati si passò a un largheggiare di risorse mai visto prima.

Il periodo tra settembre 1984 e maggio 1985 fu quello in cui il pool conseguì i primi positivi risultati.

Sentivamo e percepivamo con chiarezza che il clima attorno al nostro lavoro era cambiato. I colleghi mostravano sincero apprezzamento, molti chiedevano di entrare a fare parte del pool, volevano lavorare con noi. E l’attenzione e l’appoggio dello Stato ci incoraggiavano. Palermo era diventata una priorità per il nostro Ministero. Non era mai successo.

Anche il consenso dei palermitani era palpabile. “La gente fa il tifo per noi”, si spinse ad affermare Giovanni Falcone in un momento di entusiasmo, per come riferito poi da Paolo Borsellino in un suo cruciale intervento pubblico.

In realtà, Falcone era misurato nelle sue esternazioni, era diffidente, non contava troppo su quella improvvisa esplosione di vicinanza da parte della città. Infatti ci fu poco tempo per gioire. Quei pochi mesi passarono in fretta. Un nugolo di piombo ci fece ricordare, se mai ce lo fossimo dimenticati, che la guerra era ancora lunga e che altri morti avrebbero accompagnato il nostro cammino.

Mentre noi dovevamo fronteggiare attacchi che arrivavano da molte e differenti parti, la nostra “controparte” aveva un unico nemico: i giudici del pool e quel manipolo di poliziotti, carabinieri e uomini della guardia di finanza che ci collaborava.

Nell’immaginario collettivo è rimasta l’idea del pool, ma quando chiedi quanti giudici ne facessero parte senti dare cifre inverosimili che parlano anche di venti o trenta magistrati. Eravamo quattro, lo ribadisco, con Caponnetto che coordinava, e poi lievitammo a sei. Vista da lontano, Palermo sembrava una città dove il problema principale era la mafia. Poi arrivavi a Palazzo di Giustizia e vedevi che chi se ne occupava erano pochissimi magistrati. La maggioranza faceva tutt’altro.

Il terrorismo agiva soprattutto nel Nord del Paese e decine di magistrati con centinaia di uomini delle forze dell’ordine diedero la caccia alle Brigate rosse e alle altre sigle dell’epoca; in Sicilia, invece, occuparsi di mafia era una anomalia, una specializzazione nemmeno così qualificante. Numerose erano le obiezioni e le critiche al nostro lavoro. Giuristi, giornalisti, uomini politici a più riprese sostennero che la lotta alla mafia non è compito dei magistrati. “Il magistrato non lotta”, dicevano. E affermavano anche che, se questi – cioè noi del pool – fanno del contrasto a Cosa nostra uno degli obiettivi principali del loro lavoro, significa che non sono più affidabili, imparziali.


Il trasferimento a Milano e la prima inchiesta, Lutrig “solista del mitra”

Non era ancora questo il contesto storico in cui ho mosso i primi passi quando, dopo un breve periodo di uditorato a Palermo, sono stato trasferito al Tribunale di Milano e mi sono state assegnate dal Presidente Luigi Bianchi D’Espinosa le funzioni di giudice istruttore penale. Che colpo di fortuna! Da non crederci. Svolgere, sin dall’inizio della carriera, il lavoro che avevo sempre sognato. In seguito non sarebbe stato più possibile coprire quelle funzioni appena entrati in carriera. Quello di giudice istruttore era il mio lavoro, nel senso che era ciò che desideravo fare quando studiavo, chino sui libri.

Ho cominciato nella fredda, umida e nebbiosa Milano, allora non ancora “da bere”. Per me non era la destinazione ideale, troppo lontana da casa, dalla mia Sicilia.

Certo, si trattava di una sede importante, dove avrei potuto fare interessanti esperienze, e per un certo periodo ho pensato anche seriamente di fermarmi lì. Poi però le cose, come vedremo, sono andate in modo diverso, molto diverso.

Preso possesso del mio ufficio, mi venne assegnata una stanza occupata anche dal collega Rigillo ‒ fratello del noto attore Mariano Rigillo ‒, il quale fu prodigo di consigli e suggerimenti che mi furono davvero utili per la mia nuova esperienza. Tra i primi procedimenti, ricordo quello a carico di Luciano Lutring, uno dei protagonisti della malavita milanese di quegli anni, soprannominato “il solista del mitra” perché aveva l’abitudine di nascondere il fucile mitragliatore che utilizzava per i suoi crimini nella custodia di un violino.

Era specializzato in rapine e ne portò a termine centinaia, per un bottino, secondo quello che raccontò lui stesso quando fu arrestato, di circa trenta miliardi di lire. Io, giovane magistrato, fui colpito dallo spessore criminale del personaggio, uno che amava la bella vita, le auto di lusso e le belle donne; allora non potevo immaginare che, alcuni anni dopo, mi sarei imbattuto in efferati criminali, capaci delle peggiori barbarie, al cui confronto Lutring poteva essere considerato un ladro gentiluomo. È proprio vero che nella vita tutto è relativo.

Tra i procedimenti assegnatimi in quel periodo, rammento quello riguardante un reato di bancarotta fraudolenta da circa 800 milioni di lire, somma notevole all’epoca anche per l’opulenta Milano. Fu con quel processo che iniziai a interessarmi di scritture contabili e movimenti bancari, acquisendo un’esperienza che mi sarebbe risultata utile in seguito, una volta tornato a Palermo e entrato a fare parte del pool antimafia.

Sono tanti i ricordi della mia vita a Milano. Uno di essi è legato proprio al procedimento penale cui ho fatto testé riferimento. Il difensore (o uno dei difensori, non rammento con precisione) dell’imputato era Luigi Franchi, autore con Virgilio Feroci e Santo Ferrari de “I quattro codici per le udienze civili e penali”, un manuale, tra i tanti, utilizzato da studenti della facoltà di giurisprudenza, avvocati e magistrati.

Orbene, Franchi, nel presentarsi come difensore dell’imputato, non poté fare a meno di segnalarmi che era lui, proprio lui, l’avvocato Luigi Franchi, autore insieme agli avvocati Feroci e Ferrari de “I quattro codici”. Un modo di mettermi sull’avviso che avrei avuto a che fare, giovanissimo e inesperto magistrato appena arrivato in città, con un “Principe del Foro”.

Mi chiese se potesse omaggiarmi una copia dei “suoi” codici, nonostante una la tenessi bene in vista sulla scrivania, e io gentilmente ma fermamente rifiutai l’offerta; non perché ne fossi già in possesso, sia ben chiaro, ma perché non intendevo essere condizionato in alcun modo.

A distanza di quasi sessant’anni, conservo gelosamente la mia copia di quel manuale, sul quale è impresso il timbro “Ministero di Grazia e Giustizia” e il numero di matricola 1231, avendolo utilizzato per le prove scritte del concorso per uditore giudiziario, superato al primo tentativo.

A Milano rimasi solo un anno. Di quei mesi mia moglie Lidia e io, sposini, ricordiamo una vita casa e lavoro, un tranquillo e freddo condominio dalle parti di piazzale Corvetto, non più centro ma non ancora periferia, rapporti con i vicini di pianerottolo cordiali ma un po’ asettici.

Ricordo che arredammo la piccola ma graziosa casa presa in affitto (costo della pigione 46 mila lire, poco meno di un terzo del mio stipendio) con l’aiuto dei colleghi Armando D’Agati e Salvatore Martino, vincitori del mio stesso concorso e anche loro “esiliati” in Lombardia. Debbo essere sincero. Quando mi riferisco all’aiuto datomi da Armando e Salvatore, intendo dire che, non essendo mai stato portato per i lavori manuali, io dirigevo i lavori e impartivo ordini, loro due li eseguivano! In compenso, rimanevano nostri ospiti a cena.

Qualche volta veniva a trovarci lo zio materno di mio padre, il commendatore Ersilio Marcucci, che abitava a Piacenza e che si era interessato per l’affitto della casa di via Avezzana al numero 14. In quell’anno pensai spesso a cosa fare della mia vita.


Una scelta di cuore, il ritorno in Sicilia nella “sperduta” Niscemi

Ero giovane, molto giovane, con una moglie e una figlia ‒ nel frattempo era nata Debora ‒, ed era giusto così, pensare al futuro. Rimanere lì, a Milano, o tornare in Sicilia?

Quale occasione migliore, per lasciarsi definitivamente alle spalle, sia pure con tristezza e amarezza, una terra che non prometteva nulla di buono in termini di sicurezza, di vivibilità, di guardare con fiducia al futuro, di certezza di un domani in cui far crescere i propri figli. Abbandonare per sempre la terra dove ero nato e cresciuto oppure rimanere abbarbicato alle origini, affrontando le tante contraddizioni, i problemi strutturali ed endemici, le difficoltà ambientali di una terra meravigliosa che non può non amarsi, nonostante tutto?

Ciò che mi preoccupava non era l’esistenza della mafia, di questo non si occupava nessuno allora. Nel 1965 non avevamo la consapevolezza del fenomeno.

La mafia c’era e non c’era, c’era e non si vedeva, si sentiva e non si sentiva. Il problema vero erano le condizioni economiche e civili della Sicilia.

Alla fine di quell’anno di pensamenti e ripensamenti, vinse la Sicilia. Mi sarei presto accorto però che essere magistrato in questa terra avrebbe significato, come in realtà è accaduto, patire ancora più dolorosamente la perdita per mano mafiosa di coraggiosi colleghi.

Cadono sotto il piombo mafioso: Pietro Scaglione, procuratore capo della Repubblica di Palermo, il primo magistrato ucciso in Italia nel dopoguerra, il 5 maggio 1971. Poi Antonino Saetta, presidente di Corte di Assise d’Appello, assassinato insieme al figlio Stefano. Gaetano Costa, procuratore capo della Repubblica di Palermo. Cesare Terranova, consigliere di Corte di Appello, designato a dirigere l’Ufficio di Istruzione penale del nostro Tribunale. Rosario Livatino, giudice del Tribunale di Agrigento. Giangiacomo Ciaccio Montalto, sostituto procuratore a Trapani. E infine, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

La scelta fatta, lasciare Milano, mi ha costretto a vedere scorrere sangue, a raccogliere dolore e disperazione, ma come siciliano credo sia stato mio dovere tornare nella mia terra.

Ciascuno di noi può fare qualcosa, un piccolo passo, anche soltanto un piccolo passo purché sempre in avanti. E loro, i miei amici, sono stati “puniti” duramente proprio per avere voluto fare quel passo.

Vinse la Sicilia anche perché grande era il desiderio di tornare nell’isola e il più vicino possibile a Palermo: qui abitavano i miei genitori (sono figlio unico) e la famiglia di mia moglie. Fui combattuto per un lungo anno ma poi, su mia domanda, fui trasferito alla Pretura di Niscemi.

Da Milano, la città più “moderna” d’Italia e in pieno boom economico, a un paese dell’interno della Sicilia, circondato da campagne bellissime.

Devo dire che è stato un cambio di vita notevole, estremo. Non sapevo nemmeno in quale parte della Trinacria fosse Niscemi, me ne sono accorto dando uno sguardo alla carta geografica solo dopo avere presentato la domanda di trasferimento.

A Niscemi, provincia di Caltanissetta, ma sul versante sud, molto più vicina a Gela e al mare, ho trascorso tre anni e mezzo. Ci trasferimmo tutti là. Io, Lidia e la piccolissima Debora.

Ricordi veramente d’altri tempi.

Abitavamo una delle pochissime case con le stanze sullo stesso piano, presa in affitto tramite il collega Mario Fantacchiotti, vincitore del mio stesso concorso e giudice a Caltagirone.

Quando mia moglie usciva per fare la spesa, io rimanevo in casa per accudire nostra figlia di pochi mesi che dormiva dentro una cesta in vimini posata sul tavolo del soggiorno, attorno al quale passeggiavo ‒ sono sempre stato uno studioso “peripatetico” ‒ consultando codici, raccolte di giurisprudenza o atti processuali e, naturalmente, controllando che Debora continuasse a dormire.

Tre anni e mezzo a Niscemi. Tanti, se ci penso ora. E anni anche importanti per la mia formazione. Venni più volte applicato al Tribunale di Caltagirone, dove svolsi le funzioni di giudice monocratico e di componente del collegio, addetto sia al civile sia al penale, così arricchendo la mia esperienza anche come giudice di secondo grado, dato che all’epoca le sentenze del Pretore venivano appellate al Tribunale.


Le indagini con i carabinieri e i “presunti” mafiosi mandati al confino

La nostra vita privata consisteva nella saltuaria frequentazione della famiglia del notaio Tumbarello, alla sua prima assegnazione a Niscemi, e in quella, più assidua, con la famiglia, originaria di Salerno, del signor Sabato Voto, amministratore del feudo (ubicato in territorio di Niscemi) dell’ambasciatore Raffaele Guariglia, già ministro degli Esteri del Regno d’Italia e senatore del Partito Nazionale Monarchico. Con i Voto, che abitavano di fronte, si instaurò una sincera amicizia, che contribuì a non farci sentire soli; e la nostra bambina ben presto venne “adottata” da tutti.

Per il resto, nessuna frequentazione con gli avvocati del Foro, con i quali intrattenevo rapporti del tutto formali, non accettavo inviti a cena dai soci del più importante circolo del paese e non andavo al cinema perché il figlio del titolare era imputato in un procedimento pendente davanti la mia Pretura. Ritenevo che, essendo la sola autorità giudiziaria del posto, non fosse opportuno intrattenere altre frequentazioni oltre quelle con le famiglie Tumbarello e Voto, per le quali nutrivo la massima fiducia.

E con il sindaco sotto processo per danneggiamento?

Solo rapporti istituzionali. Ricordo ancora la folla incuriosita di cittadini che il giorno dell’udienza si radunò davanti la Pretura.

Naturalmente avevo un ottimo rapporto di collaborazione con il maresciallo Alampi, comandante della Stazione dei Carabinieri (dopo tanti anni, l’ho rivisto a Palermo con l’incarico di responsabile del servizio di traduzione dei detenuti), con il quale “ripulimmo” la zona da un buon numero di malavitosi, tra i quali un certo Salvatore Arcerito che mandammo al soggiorno obbligato, misura di sicurezza all’epoca in vigore. Ricordo che poco tempo prima la moglie di Arcerito bussò alla porta della nostra abitazione. A mia moglie, che aveva aperto, spiegò il motivo della “visita”, implorando che il marito non fosse allontanato da Niscemi. Tirò fuori da sotto il mantello che indossava un coniglio vivo, pregando di accettarlo in segno del rispetto che il marito nutriva nei miei confronti.

Lei venne subito mandata via e il marito inviato al soggiorno obbligato, in quanto pericoloso delinquente. Soltanto molti anni dopo ho appreso che si trattava del capo della “famiglia” mafiosa di Niscemi.

C’è un altro episodio che non dimentico. Avevo preso servizio a Niscemi da appena qualche giorno e nottetempo venni informato che era stato rinvenuto un cadavere alla periferia del paese. Accorsi sul posto. Si trattava di un omicidio, il primo fatto di sangue di cui mi sono dovuto occupare.

A Niscemi cambiarono anche le nostre abitudini di vita quotidiana, drasticamente. Per le cose più banali, che a Niscemi non erano affatto banali. Per esempio l’acqua.

Non c’era l’acqua corrente, servizio al quale eravamo abituati a Milano ma anche a Palermo. Uno choc per noi.

Dovevamo arrangiarci come facevano tutti. Riempire la vasca da bagno per fare scorta, usare i recipienti… avevamo la casa piena di bidoni. Era preziosissima l’acqua, la cosa più preziosa che c’era a Niscemi.

Quando lasciavamo il paese, io e Lidia ci accorgevamo di uscire da quel mondo dall’asfalto che scivolava sotto le ruote della nostra macchina.

Quando si rientrava nel mondo “normale”, in provincia di Catania, l’asfalto diventava meno ruvido, più liscio. Per noi era il segnale che stavamo rientrando a casa. A Palermo, dove c’erano tutti i nostri affetti. Quel viaggio era una vera e propria epopea: con la mia gloriosa Fiat 850 di color bianco puntavamo verso sud, in direzione di Gela e Licata, e dopo ci dirigevamo verso la Valle dei Templi. Per poi ‒ da lì ‒ “risalire” verso nord attraverso la vecchia strada statale, con la prua verso l’agognata Palermo. Un viaggio massacrante di circa cinque ore. Con frequenti soste, anche perché le condizioni delle strade all’epoca “agevolavano” il mal d’auto di mia moglie Lidia… Un’altra epoca davvero. Ricordi in bianco e nero.

Dopo Niscemi, via a Termini Imerese, città distante circa 45 chilometri da Palermo, dove, tra il mese di gennaio 1971 e il mese di febbraio 1979, ho ricoperto le funzioni di Pretore Mandamentale prima e dopo quelle di giudice “tutto fare” presso il Tribunale.

Niscemi era stata una buona palestra, visto che lì mi ero occupato di tutto e le sentenze le redigevo dettandole in presa diretta al dattilografo “prestato” dal Comune.

Avevo maturato una preziosa esperienza sia nel settore penale che in quello civile, per cui non ebbi difficoltà a svolgere le relative funzioni sia come giudice monocratico sia come componente dei collegi civili e penali. Nell’ultimo periodo di permanenza a Termini Imerese mi vennero affidate le funzioni, indovinate quali?, sì, proprio quelle di giudice istruttore, tanto per non perdere l’abitudine!


Ritorno a Palermo, il giudice Guarnotta e l’indagine su Marino Mannoia

In seguito, su mia domanda, sono stato trasferito al Tribunale di Palermo dove, dopo una breve permanenza presso la Seconda Sezione Penale, il 2 gennaio 1980 sono approdato all’Ufficio di Istruzione. Qui sono rimasto sino all’11 gennaio del 1995.

Alla Seconda Sezione Penale trovai un presidente che, per fortuna, comprese il mio desiderio di assumere le funzioni di giudice istruttore e perorò la mia “causa” presso il Presidente del Tribunale. Non ringrazierò mai abbastanza quel collega a cui devo l’inizio della mia “avventura” presso l’Ufficio di Istruzione di Palermo.

Ricordo che, quando tutto ebbe inizio, festeggiammo con una bottiglia di champagne. Prima, al momento di lasciare la Seconda Sezione Penale, il Presidente mi gratificò di una lettera di elogio perché in poco più di dieci mesi avevo redatto, oltre a ordinanze e decreti, circa cento sentenze, delle quali 25 depositate il 14 agosto, durante il periodo feriale del 1979.

Tutta quella produttività, però, avrebbe potuto giocare a mio sfavore perché il Presidente del Tribunale Franco Romano, che disponeva le assegnazioni, faceva parte di quella vecchia scuola che, senz’altro in buona fede, riteneva che all’Ufficio di Istruzione dovessero essere assegnati magistrati non particolarmente idonei per i collegi giudicanti penali e civili. Quando ci penso mi viene da sorridere perché a quella incomprensibile “selezione” sono sfuggiti, per fortuna, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, magistrati che hanno cambiato la storia della magistratura in Italia, che hanno “inventato” quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che è stato il Maxiprocesso, sotto la sapiente guida di Rocco Chinnici prima e di Antonino Caponnetto dopo.

Come cambiano i tempi.

D’altronde di mafia non si parlava, ci si occupava di altre realtà delinquenziali e molti magistrati pensavano che il vero esercizio del diritto stesse altrove, non certo in quell’ufficio che in fondo era un po’ roba da sbirri. Ovviamente, invece, la rivoluzione partì da lì. Ma questo serve per comprendere lo spirito dell’epoca: molta era la distanza che ci separava dai tempi attuali.

Appena arrivato a Palermo mi sono occupato di un grosso processo per sofisticazione di vino a Partinico, in quegli anni la capitale italiana della sofisticazione vinicola. Facevano il vino con lo zucchero, in paese c’erano serbatoi sotterranei di cemento armato dove si nascondeva il vino adulterato. Che altro? In ufficio ho trovato poi un armadio pieno di fascicoli contenenti gli atti di indagini relative a rapine, omicidi e sequestri.

Mi fu assegnato anche il procedimento a carico di Francesco Marino Mannoia, allora non ancora collaboratore di giustizia, alla cui latitanza pose fine il dottor Beppe Montana, capo della sezione “catturandi” della Squadra mobile della Questura di Palermo, grazie all’intercettazione di una conversazione telefonica tra il Mannoia e la sua amante Rita Simoncini, nella quale i due prendevano accordi per incontrarsi nel rifugio in cui il Mannoia trascorreva la latitanza. Nel corso dell’irruzione dei poliziotti, Rita Simoncini accusò un malore al seguito del quale perse i due gemelli che teneva in grembo, frutto della sua relazione con il Mannoia.

Ricordo che Montana mi chiese se fosse possibile estromettere dal rapporto inviato alla Procura, a me assegnato per la formale istruzione, il suo nome quale responsabile dell’operazione di polizia. Ma il fascicolo processuale era stato sicuramente fotocopiato, era passato per diverse mani, per cui feci presente che l’unica possibilità sarebbe stata quella di farmi pervenire una nota con la quale mi informava che, in realtà, non aveva partecipato all’operazione e che il suo nome era stato erroneamente inserito nel rapporto. Erano già tempi difficili, la tensione era alta.

Aveva paura di una eventuale vendetta e temeva per la sua vita? Ma non fu questo singolo fatto che ne decretò la morte. Montana fu assassinato perché a Cosa nostra facevano paura il suo coraggio e la sua determinazione nella caccia ai latitanti.

Approdato all’Ufficio di Istruzione, finita la felice esperienza presso la Seconda Sezione Penale, ho avuto l’opportunità di incontrare di nuovo Falcone e Borsellino dopo i tempi lontani dell’università quando, sia pure fuggevolmente, era capitato di incrociarci in attesa di “dare” una materia o di passeggiare nell’atrio della facoltà di giurisprudenza.

Parlando del più e del meno, Falcone e io scoprimmo di essere stati nominati presidenti di seggio a Bagheria, in occasione di una consultazione popolare (non ricordo se si trattasse di elezioni comunali o nazionali). All’epoca Giovanni non era stato ancora incaricato da Rocco Chinnici di istruire il procedimento contro Rosario Spatola, pertanto non era ancora sottoposto a servizio di scorta.

Allora ci organizzammo in modo che, a turno, ognuno di noi utilizzasse la propria autovettura (la mia Alfa Romeo grigia e la sua Alfa Sud bianca) per raggiungere Bagheria nei giorni delle votazioni. Durante i tragitti, ricordavamo le rispettive esperienze di lavoro vissute dall’entrata in carriera (Giovanni alla Pretura di Lentini e poi alla Procura della Repubblica di Trapani), ma mai avremmo potuto anche soltanto immaginare cosa il destino avrebbe riservato a entrambi negli anni successivi. Ed è proprio di questo che desidero parlare, del pool, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Peppino Di Lello e degli altri colleghi, Giacomo Conte, Ignazio De Francisci e Gioacchino Natoli, che ci hanno affiancato dopo il trasferimento di Borsellino alla Procura della Repubblica di Marsala. Voglio tornare a parlare di Antonino Caponnetto e del Maxiprocesso. E di tanto altro. Perché tanto, di bello e di brutto, è accaduto in quegli anni a Palermo.


Il processo sull’omicidio del capitano Basile, vergogna della giustizia

Quella di Giovanni rimane comunque, per me, la storia più tragica. È stato il magistrato più bravo d’Italia ma anche il più ferito. Una sorta di Aureliano Buendía con la toga, il colonnello dei Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez che condusse trentadue battaglie e amaramente tutte le perse. Gli venne preferito Antonino Meli quando si candidò a guidare il pool dopo Antonino Caponnetto. Un mese dopo, andò buca anche la nomina alla guida dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia perché gli preferirono Domenico Sica; si candidò alle elezioni dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura del 1990 e non venne eletto. Per la Procura Nazionale antimafia gli venne preferito Agostino Cordova.

Occuparsi seriamente e con tutto se stesso di mafia in Italia, nonostante molti lo sostengano, non è un buon viatico per fare una prestigiosa carriera in magistratura. Sarà un caso ma a nessuno di noi, a nessun altro del pool, è capitato. Non siamo diventati delle star, né volevamo esserlo del resto, e non ci avete visto spesso in tv. Forse anche questo faceva parte del marchio di fabbrica del pool antimafia.

Anche Paolo Borsellino aveva una storia particolare alle spalle. Prima di entrare a fare parte del pool, per un certo periodo di tempo, gli vennero tolte le indagini di mafia.

Accadde infatti che Paolo indagasse sull’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile (avvenuto la notte del 4 maggio 1980 a Monreale, comune nei pressi di Palermo) e riuscisse a portare a processo, con prove decisamente inoppugnabili, killer pericolosi come Giuseppe Madonia, Vincenzo Puccio e Armando Bonanno. Quella del processo Basile è una vicenda che dice molto della Sicilia di quegli anni e di Paolo Borsellino.

Madonia, Puccio e Bonanno vennero arrestati pochi minuti dopo l’attentato.

Era la prima volta che accadeva in un delitto di mafia. Con la sentenza di primo grado furono però assolti dalla Corte d’Assise presieduta da Salvatore Curti Giardina. Puccio, Bonanno e Madonia si difesero sostenendo che quella sera erano reduci da un incontro con donne sposate, delle quali non fornirono i nomi “per tutelarne l’onore”. Furibondo per l’assoluzione, Paolo riuscì comunque a mandare i tre al soggiorno obbligato in Sardegna, dal quale però fuggirono pochi giorni dopo.

Successivamente, Madonia e Puccio furono nuovamente tratti in arresto mentre Bonanno, secondo gli inquirenti, sarebbe rimasto vittima della “lupara bianca”, cioè ucciso e il suo corpo fatto sparire. Il 24 ottobre del 1984 furono riprocessati e condannati all’ergastolo, ma la sentenza venne annullata con rinvio dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale.

La sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello, presieduta da Antonino Saetta, che aveva confermato le condanne all’ergastolo degli imputati, venne annullata per difetto di motivazione.

In seguito alla fuga dal soggiorno obbligato di Puccio, Bonanno e Madonia, la famiglia di Borsellino si preoccupò molto, perché temeva la vendetta da parte di quei pericolosi killer che, sicuramente, erano rientrati a Palermo.

Intervenne il suocero di Paolo, Angelo Piraino Leto, anch’egli magistrato, cercando di convincere il genero a non occuparsi ancora di indagini di mafia. Ovviamente, senza ottenere alcun risultato. E allora provò a ottenere qualcosa dal consigliere Rocco Chinnici, facendogli presente la pericolosità dei processi affidati al genero. Paolo quando lo seppe si arrabbiò moltissimo, ma l’esito fu comunque che Chinnici in quella fase lo escluse dalle indagini di mafia.

Ecco perché, quando si racconta la nascita del pool, si ricorda che fu Falcone a convincere Caponnetto a “recuperare” Paolo – allora perduto fra fascicoli relativi a reati “bagatellari” –, il quale accettò con entusiasmo, naturalmente.

Con Paolo era facile entrare in confidenza tanto che intrattenemmo una affettuosa amicizia. Se Falcone era un moderato, lui era uno che “non la mandava a dire”, tanto da non esitare, nella famosa intervista a “Repubblica” e a “l’Unità” rilasciata nel luglio del 1988 a Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, a denunciare lo smantellamento del pool e la “normalizzazione” della Squadra mobile della Questura di Palermo.

Io e Paolo condividevamo un rito. Verso fine primavera ci portavamo al bar del Tribunale per consumare il nostro primo caffè freddo. Con il suo fare comunicativo e accattivante, e con l’indimenticabile sorrisetto sotto i baffi, Paolo pronunciava sempre la fatidica frase: “Leonardo, abbiamo vissuto un altro anno”, quasi a esorcizzare il pericolo che, ormai, incombeva su di noi. Anche dopo il suo trasferimento alla Procura di Marsala non mancavamo di celebrare quel rito all’inizio della bella stagione ma, in quel terribile 1992, non pronunciò la nostra frase d’intesa con l’espressione ammiccante degli anni precedenti. E non solo per il ricordo bruciante e doloroso del collega e amico Giovanni Falcone che, alcuni giorni prima, la barbarie mafiosa ci aveva portato via per sempre. Fu infatti chiaro – e me lo confermò in occasione dei nostri successivi incontri – che era impegnato, con tutto se stesso, in una disperata corsa contro il tempo per scoprire i nomi degli esecutori e dei mandanti della strage di Capaci, con la consapevolezza che bisognava fare in fretta, sempre più in fretta perché era certo che il tempo stesse per scadere anche per lui.


Il delitto Notarbartolo e poi per quasi un secolo la mafia fu “dimenticata”

È stato anche grazie alla fedeltà di tutti alla causa comune se neppure una notizia, una indiscrezione uscì da quelle stanze. Il che ci ha permesso di rimanere concentrati sul lavoro senza dover rincorrere articoli di giornale o fare fronte a polemiche su quanto avveniva all’interno del “bunkerino”.

Non sempre è stato così in altre vicende italiane. A tutti i nostri collaboratori va riconosciuto il grandissimo merito di avere dato il meglio di sé, spesso in condizioni difficili, e supplendo, a costo di sacrifici personali, alle già allora congenite e ben note insufficienze di organici e strumenti di supporto.

Con questo non folto gruppo di persone si cercò di affrontare la mafia del clan dei “Corleonesi” che, nella Palermo degli anni tra fine Settanta e inizio Ottanta, mise termine all’egemonia delle vecchie famiglie palermitane di Cosa nostra imponendo la dittatura di Totò “’u curtu”.

Già allora, un coraggioso magistrato, Cesare Terranova, aveva fatto domanda per essere nominato consigliere istruttore. Era stato deputato e componente della Commissione Parlamentare Antimafia ed era intenzionato, una volta acquisito il nuovo incarico (che gli addetti ai lavori davano per certo), a sferrare un decisivo attacco a Cosa nostra. Il 25 settembre 1979, Cesare Terranova venne ucciso per impedirgli di assumere quell’incarico. Un delitto preventivo.

Ma sulla cosca dei “Corleonesi”, che aveva lasciato una lunga scia di sangue, si sarebbe potuto avere la meglio se si fosse indagato più approfonditamente in alcuni casi e se, da parte dello Stato, non si fosse sempre agito in una logica emergenziale, a partire da quello che è considerato il primo delitto eccellente, consumato il primo febbraio 1893, l’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo, persona retta e onesta, già direttore generale del Banco di Sicilia ed ex sindaco di Palermo. Quel delitto provocò un acceso dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica. Anche se, inizialmente, nessuno osò fare nomi di mandanti ed esecutori di quel delitto. Da allora e, per quasi un secolo, la lotta alla mafia è stata quasi sempre un susseguirsi di risposte a feroci attentati, come l’insediamento della Commissione Antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli.

Nella borgata palermitana regno di Michele Greco, detto “il Papa”, capo della commissione provinciale di Cosa nostra, perirono la mattina del 30 giugno 1963 quattro uomini dell’Arma dei Carabinieri, due dell’Esercito italiano, e un sottufficiale del Corpo delle Guardie di P.S., dilaniati dall’esplosione di una carica di tritolo nascosta nel bagagliaio di una “Giulietta”, una delle prime autobombe impiegate da Cosa nostra.

Sì, perché altre auto imbottite di esplosivo erano state utilizzate nel corso della cosiddetta “prima guerra di mafia”. Addirittura un’altra auto, all’alba dello stesso 30 giugno 1963, era saltata in aria davanti il garage di Giovanni Di Peri, boss della “famiglia” di Villabate, provocando la morte del custode e di uno sfortunato passante.

Erano i tempi in cui le conoscenze dell’apparato strutturale e funzionale di Cosa nostra erano ancora frammentarie e parziali e, di conseguenza, era stata episodica e discontinua l’azione repressiva e punitiva dello Stato, e per di più contraddistinta da risultati deludenti: si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni Sessanta e Settanta, si erano chiusi i processi a carico di centinaia di mafiosi, celebrati a Bari e Catanzaro per legittima suspicione. Una risposta finalizzata quasi esclusivamente a individuare e colpire i responsabili di singole azioni criminose, viste in un’ottica parcellizzante e disancorata da una considerazione unitaria. Il fenomeno mafioso venne sottovalutato, forse inconsapevolmente ma colpevolmente, da coloro i quali avrebbero potuto e dovuto occuparsene, se è vero – come è vero – che ancora alla fine degli anni Settanta, anche da parte di rappresentanti delle istituzioni, si diceva che non ci fosse alcuna mafia da combattere, o che fosse una invenzione giornalistica per distogliere l’attenzione dei cittadini da chissà quali altri problemi o, addirittura, che fosse una voce messa in giro dal Partito Comunista Italiano per screditare la Democrazia Cristiana. Sull’autore di questa affermazione tornerò in seguito.


Melchiorre Allegra, il pentito di mafia nei reportage di Mauro De Mauro

È tempo, adesso, di parlare di loro. Sì di loro, perché senza non saremmo riusciti a conseguire i risultati che abbiamo raggiunto. E intendo farlo dopo tanto tempo – il tempo mette le cose al loro posto –, perché passati tutti questi anni credo, anzi sono sicuro, che il mio giudizio sarà meno condizionato, più oggettivo.

Voglio parlare dei collaboratori di giustizia, di coloro che la stampa e l’opinione pubblica chiamano “pentiti”. È veramente grazie a loro che il muro dell’omertà mafiosa è crollato, ed è anche grazie a loro che siamo riusciti a penetrare nei misteri di quella che era l’associazione segreta e criminale più potente del mondo occidentale: Cosa nostra.

Questa storia è così importante che bisogna raccontarla, raccontarla bene e per intero. Fin dal principio.

E se il titolo di questo capitolo allude alla “stagione dei pentiti” vissuta dal pool, va detto che andando indietro nel tempo scopriremmo che magistrati e inquirenti avrebbero potuto vivere “stagioni” analoghe anche prima del 1984, se solo avessero dato credito alle rivelazioni dei primi collaboratori di giustizia.

Non avremmo dovuto attendere quell’anno per squarciare il velo dell’omertà che, da sempre, aveva impedito di scoprire i segreti della mafia.

Mi riferisco, anzitutto, alla vicenda del medico Melchiorre Allegra, nato a Gibellina nel 1881 e morto a Castelvetrano nel 1951.

Con la sua confessione – rilasciata già nel 1937, pensate, quasi un secolo fa – sarebbe stato possibile avere un quadro sufficientemente esauriente di Cosa nostra, nella quale aveva “prestato servizio” e sulla cui organizzazione riempì 26 pagine di verbali. Allegra, per ragioni che ancora oggi non conosciamo, era stato tratto in arresto nel corso di una retata. Iniziò a collaborare descrivendo la struttura di Cosa nostra, come poi avrebbero fatto altri pentiti.

Parlò del rito d’iniziazione e della “commissione” – quella che viene chiamata anche “cupola”, l’organo direttivo e deliberativo, deputato anche a decidere questioni di carattere economico tra “famiglie” –, parlò di mandamenti, famiglie, capi decina.

Rivelò gli stessi termini usati da Tommaso Buscetta quasi cinquanta anni dopo.

Fece moltissimi dei nomi e cognomi di capimafia e di “picciotti” che abbiamo ritrovato nel corso delle nostre successive indagini: Calò, Cancemi, Montalto, Troia, Cuccia e tanti altri “avi” degli odierni “uomini d’onore”.

A conferma che la mafia in Sicilia è quasi sempre una tradizione di famiglia che si eredita, di padre in figlio, di generazione in generazione.

La storia venne alla luce negli anni Sessanta grazie al lavoro d’inchiesta di Mauro De Mauro, il giornalista rapito dalla mafia il 16 settembre 1970 e il cui cadavere non è mai stato ritrovato.

De Mauro scovò i verbali dell’interrogatorio di Melchiorre Allegra negli archivi della Procura della Repubblica di Trapani, e così quelle pagine, inspiegabilmente (per usare un eufemismo) dimenticate per lungo tempo nei cassetti di qualche magistrato, vennero pubblicate nel 1962 dal giornale “l’Ora” di Palermo, un quotidiano che ha rappresentato una fucina di altri ottimi giornalisti.

Eppure vennero a conoscenza della Commissione Antimafia solo un anno più tardi, quando li sottopose all’attenzione dei colleghi il deputato Girolamo Li Causi, allora segretario regionale del Pci. Senza sortire alcun effetto.


Accusati di pazzia, i “traditori” di Cosa Nostra mai creduti dallo Stato

Bisogna attendere quasi trent’anni prima che un altro “uomo d’onore” si decida a “saltare il fosso” e collabori con gli inquirenti. Si chiamava Luciano Raia, imputato nel processo a carico di Luciano Leggio + 63, sui quali pesava l’accusa di essere responsabili di nove omicidi perpetrati a Corleone tra il 1955 e il 1962, nonché di associazione per delinquere.

Nel gennaio 1966, agli inquirenti sembrò che il muro di omertà che sino ad allora aveva impedito di fare chiarezza su quei gravi fatti di sangue avesse finalmente ceduto grazie alla inattesa collaborazione di Raia.

Costui riferì di avere ascoltato nel carcere di Palermo le conversazioni fra due mafiosi sui delitti compiuti da Luciano Leggio e dai suoi uomini per eliminare la cosca capeggiata dal medico Michele Navarra, allora capomafia di Corleone.

Il processo venne celebrato a Bari per “legittima suspicione”, l’espediente “salvifico” al quale si ricorse a man bassa per ottenere in sedi più “congeniali” sentenze di assoluzione con formula ampiamente liberatoria o per insufficienza di prove oppure di condanna ma con applicazioni di pene irrisorie.

Con la sentenza del 10 giugno 1969 la Corte di Assise di Bari pronunciò l’assoluzione di Leggio e degli altri correi dalle imputazioni di omicidio, limitandosi a irrogare lievi condanne per i reati di associazione per delinquere semplice prevista dall’articolo 416 c.p. (all’epoca, non esisteva ancora il 416 bis c.p.).

La Corte di Assise, infatti, non credette alle propalazioni di Raia, dichiarandolo inattendibile perché si trattava di un soggetto più volte ricoverato in manicomio, omosessuale, che si era indotto a parlare soltanto dopo avere avuto assicurazione dal vice-questore Angelo Mangano che sarebbe stato aiutato sia per ottenere una eventuale libertà provvisoria (era accusato di estorsione e di associazione per delinquere), sia per avere gli assegni familiari per i figli dei detenuti.

Uno “scenario” simile si ripeterà a Palermo alcuni anni dopo.

Il 30 marzo del 1973 successe qualcosa che avrebbe consentito a investigatori e magistrati più attenti e solerti di scoprire i segreti dell’organizzazione mafiosa.

In un verbale di dichiarazioni rese al dottor Bruno Contrada, commissario della Polizia di Stato, Leonardo “Leuccio” Vitale, nato nella borgata palermitana di Altarello di Baida e nipote di Giovanbattista “Titta” Vitale, capo del mandamento locale, anticipò di oltre un decennio le analoghe, ma più precise e circostanziate, rivelazioni di Tommaso Buscetta. Sia pure a livello delle sue parziali e incomplete conoscenze, trattandosi di un giovane aspirante “uomo d’onore”, Vitale descrisse l’organigramma delle “famiglie” mafiose operanti nella provincia di Palermo, facendo nomi e cognomi di numerosi sodali e di persone contigue a Cosa nostra.

Tra gli altri, menzionò Alessandro Vanni Calvello principe di San Vincenzo (il quale, quando aveva ospiti della sua stessa risma, era solito far loro riporre le armi dentro un mobile della sala d’ingresso). E poi anche Pippo Calò, il cassiere dell’organizzazione, e il corleonese Vito Ciancimino, a lungo assessore comunale ai lavori pubblici e per breve tempo sindaco, responsabile del cosiddetto “sacco di Palermo”, una spregiudicata devastazione architettonica compiuta attraverso una affaristica urbanizzazione della città.

Dimenticavo, “Leuccio” Vitale fece anche il nome di uno sconosciutissimo Totò Riina. Fu il primo. E riempì 42 pagine di verbale che avrebbero potuto risparmiare molti lutti e probabilmente cambiato la storia della mafia e dell’Italia, se le sue dichiarazioni fossero state prese in seria considerazione dagli inquirenti e dai magistrati dell’epoca.

In quel verbale, infatti, Vitale raccontò di una tangente contesa fra due “famiglie” mafiose, quelle di Altarello di Baida e della Noce. Fu Totò Riina a chiudere prepotentemente la disputa con la frase “Io la Noce ce l’ho nel cuore”, pronunciata nel corso di una “commissione”. Nessuno dei presenti, tra i quali i più autorevoli capi mandamento, ebbe qualcosa da ridire sulla decisione adottata da Riina.

Siamo nella primavera del 1973 e l’episodio è importante perché allora Riina, latitante da quattro anni, era ritenuto dagli inquirenti un “viddano”, un contadino. Pericoloso, avendo scatenato una sanguinosa guerra a Corleone, ma pur sempre un contadino non ancora in grado di sfidare le cosche del palermitano. E invece ‒ lo rivelò proprio Vitale ‒ aveva già una posizione apicale in seno a Cosa nostra.

Leonardo Vitale, soprannominato anche “il Joe Valachi di borgata”, con riferimento al mafioso siculo-americano della famiglia Genovese, però non venne creduto, anzi, essendo stato dichiarato seminfermo di mente ‒ ricordate Raia? ‒ e affetto da schizofrenia, venne condannato per i reati commessi e confessati e internato nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, dal quale fu dimesso nel giugno del 1984. E nessuna ‒ o quasi ‒ iniziativa giudiziaria venne intrapresa nei confronti delle persone chiamate in reità e correità.

Ma Cosa nostra non dimentica mai e il 2 dicembre 1984, qualche mese dopo il suo rientro a Palermo, punì il suo “tradimento” con due colpi di lupara che lo uccisero all’uscita dalla Chiesa dei Cappuccini, mentre era in compagnia della madre. Nella ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985, abbiamo voluto ricordarlo scrivendo: “A differenza della Giustizia dello Stato, la mafia percepì l’importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell’omertà. È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita”.


Da Di Cristina a Buscetta, paure e ossessioni di Totò Riina

Il 30 maggio 1978 venne ucciso a Palermo un importante esponente di Cosa nostra. Si trattava del boss Giuseppe Di Cristina, detto la “tigre” di Riesi per la sua ferocia, capomafia di quel paese, alleato e amico dei fratelli e “colleghi” catanesi Giuseppe e Antonio Calderone, ma acerrimo nemico dei “Corleonesi”, di Luciano Leggio in particolare.

Ben prima di quella data, avvertito e spaventato dopo l’uccisione di due suoi guardaspalle, Di Cristina aveva cominciato a sentire sul collo il fiato dei nemici, che lo braccavano da tempo (era già miracolosamente scampato a un attentato), e pensò di trovare rifugio e salvezza affidandosi allo Stato. Iniziò così a collaborare con il capitano dei Carabinieri Alfio Pettinato in un casolare della campagna di Riesi appartenente al fratello Antonio, anche egli ucciso dai “Corleonesi”.

È di tutta evidenza che Di Cristina non rimase folgorato sulla via per Damasco come Saulo di Tarso, divenuto poi San Paolo, perché il suo non era un sentito pentimento per le atrocità commesse, ma la collaborazione mirava soltanto a mettersi al sicuro e a vendicarsi fornendo agli inquirenti le informazioni giuste per mettere con le spalle al muro gli odiati nemici Leggio, Riina e Provenzano.

E anche se non gli servì a nulla, come si è avuto modo di ricordare, Di Cristina fece in tempo a profetizzare l’omicidio del giudice Terranova, a indicare la sede di una raffineria e, più in generale, a fornire un quadro completo delle attività del gruppo di “viddani” che ormai aveva conquistato il capoluogo siciliano a colpi di pistola.

Il capitano Pettinato e il brigadiere Di Salvo, che aveva assistito all’incontro, descrissero Di Cristina come un animale braccato e in preda al terrore. I suoi uomini più fidati erano già stati uccisi e lui stava attendendo la consegna dell’auto blindata che non arrivò abbastanza in fretta.

“L’eliminazione del boss di Riesi – si legge nella ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985 – costituisce il primo passo di un lucido piano, attuato con feroce determinazione dai Corleonesi, per eliminare a uno a uno tutti i più potenti alleati di Stefano Bontate di modo che la programmata eliminazione dello stesso Bontate non avrebbe scatenato reazioni di sorta.

E l’errore di Stefano Bontate, in questa tragica partita a scacchi, è stato proprio di non avere capito in tempo il perverso piano dei suoi avversari”.

Le rivelazioni del Di Cristina furono importanti ma, anche in questo caso, non lasciarono il segno. I “Corleonesi” poterono continuare indisturbati, ancora per qualche anno, nel loro perverso disegno di conquistare la leadership in Cosa nostra. Se le informazioni ricevute dai collaboratori di giustizia fossero state recepite, riscontrate, traendone le dovute conseguenze, oggi racconteremmo una storia diversa. Perché tutte quelle notizie, sempre concordanti, sulla esistenza di una societas sceleris con le sue regole inviolabili, sono le medesime alle quali ha fatto riferimento nel 1984 Tommaso Buscetta.

Disattenzione, inettitudine, ignavia, incompetenza, chissà cos’altro, hanno impedito una efficace azione repressiva che avrebbe cambiato la storia. E purtroppo questi non sono stati gli unici casi.

Data la superficialità e, quasi, la noncuranza, con cui sono state considerate le “testimonianze” dei pentiti citati sopra, prima della collaborazione di Tommaso Buscetta non si aveva ancora un’idea precisa di come fosse organizzata Cosa nostra.

C’era quasi la contezza della sua esistenza da notizie che risalgono alla notte dei tempi, ma le regole interne, i rapporti tra gli “uomini d’onore”, le gerarchie non erano del tutto noti. Come constatò Falcone, “prima di lui, non avevo ‒ non avevamo ‒ che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare coi gesti”.

Grazie al “professore di lingue” e alle complesse indagini effettuate dal pool, appena costituito, è stato invece possibile indagare, finalmente, a fondo: i numerosi, efferati omicidi, il traffico di sostanze stupefacenti e di armi, i sequestri di persona, le rapine. E poi le estorsioni consistenti nell’imposizione del “pizzo”, cioè il pagamento di somme di denaro, a commercianti, imprenditori e professionisti, le cui attività si svolgevano nel territorio sotto la giurisdizione delle numerose “famiglie” mafiose operanti a Palermo e provincia.

Le indagini hanno consentito, soprattutto, di far luce sulla guerra di mafia combattuta tra il 1981 e il 1983, nel corso della quale vennero uccisi, a opera dei “picciotti” di Riina e Provenzano, “uomini d’onore” della fazione avversa quali Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo.

Allora fu consumata una vera e propria mattanza, una chirurgica resa dei conti che insanguinò la città di Palermo in nome del predominio egemonico di un clan, quello dei “Corleonesi”. Delitti che provocarono anche la fuga di centinaia di membri delle cosche perdenti, e che purtroppo sono stati considerati da troppi con indifferenza, quasi fossero una naturale conseguenza di un violento gioco di potere, quasi che quei poveri corpi strangolati, sfigurati, incaprettati (cioè legati con una corda stretta tra il collo e gli arti inferiori) o sciolti nell’acido, uccisi nelle maniere più atroci, non appartenessero anch’essi alla comunità umana e non fosse compito della società civile impedire quel massacro.

Il generale Dalla Chiesa, in un’intervista resa al quotidiano “l’Unità”, disse: “Il primo pentito lo abbiamo avuto nel ’70 proprio fra i mafiosi siciliani. Perché escludere che questa struttura possa esprimere un gene che finalmente scateni qualcosa di diverso dalla vendetta o dalla paura?

Ma questo può verificarsi soltanto nei momenti più alti dell’iniziativa dello Stato”.

Una frase profetica. Buscetta e poi gli altri collaboratori di giustizia non spuntarono fuori per un caso fortuito, ma perché compresero che stavolta lo Stato faceva sul serio, al contrario di quanto avvenuto in passato (ricordate le “voci” nel deserto di Alagna, Raia, Vitale e, in parte, Di Cristina?). E, soprattutto, erano scesi in campo magistrati credibili come Rocco Chinnici, Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, che avevano dimostrato con il loro quotidiano impegno di voler perseguire con forza Cosa nostra, incuranti dei pericoli ai quali sicuramente sarebbero andati incontro.

Ed è altresì da riconoscere che un apporto decisivo nel contrasto al crimine organizzato di stampo mafioso è venuto dalla collaborazione di “uomini d’onore” attendibili, passati dalla parte dello Stato.

I pentiti furono un chiodo fisso per Totò Riina, disposto a tutto pur di tappare loro la bocca. Il boss capiva che avrebbero potuto fare molto danno all’organizzazione, perché “si poteva mettere tutto il mondo contro di noi e non ci poteva fare niente”, soleva affermare con orgoglio, ma, aggiungeva, “se un uomo d’onore iniziava a parlare era un disastro”.

Per questo motivo ‒ oltre alla volontà di imporre alla politica l’annullamento del carcere duro per i mafiosi, regolato dal 41 bis e dell’ergastolo ‒ uno dei suoi obiettivi fu l’eliminazione della legislazione premiale sui collaboratori di giustizia. Per contrastarli decise che, se non si poteva ricorrere all’eliminazione diretta dei “pentiti”, gli si sarebbe fatta terra bruciata intorno eliminando i loro familiari, gli amici o le persone più care.


Quei collaboratori di giustizia poco conosciuti ma molto attendibili

Tommaso Buscetta è stato sicuramente il pentito più importante nella storia della mafia, ma in quei primi anni Ottanta, prima di lui, si fecero avanti per collaborare con lo Stato criminali che, pur non essendo “uomini d’onore”, avevano rapporti con Cosa nostra.

Penso ad esempio a Vincenzo Sinagra, un killer che non faceva parte di nessuna “famiglia”, ma “collaborava” con Cosa nostra. Arrestato nell’agosto 1982, vittima di un esaurimento nervoso, prese la decisione di “affidarsi” a Paolo Borsellino raccontando la sua vita criminale.

In particolare, ammise di avere partecipato ad alcune delle “imprese” delittuose di Filippo Marchese, capo della cosca di Corso dei Mille, un quartiere di Palermo, come la nota “strage di Natale”, quando a Bagheria la mattina del 25 dicembre 1981 un commando di killer a bordo di due autovetture, guidato da Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”, tese un agguato, sparando all’impazzata tra le strade del paese, a Giovanni Di Peri, capo della “famiglia” di Villabate, al suo vicecapo Antonino Pitarresi e al figlio di quest’ultimo, Biagio. Sul terreno rimasero Giovanni Di Peri, Biagio Pitarresi e Onofrio Valvola, un ignaro passante, mentre Antonino Pitarresi venne caricato su di una autovettura e ucciso in un secondo tempo perché ai killer erano terminate le munizioni.

Uno dei killer aveva lasciato un’impronta digitale sul volante di una delle macchine usate per l’agguato (era stata data alle fiamme ma non completamente distrutta), sulla quale venne disposta una perizia dattiloscopica, affidata a un collegio peritale di cui faceva parte il professore Paolo Giaccone, al cui esito si accertò che quella impronta apparteneva a Giuseppe Marchese, boss della “famiglia” di Corso dei Mille. Giaccone subì pressioni, tramite un comune amico suo e dei Marchese (del quale parlò alla moglie ma senza riferirne le generalità), perché “ammorbidisse” le conclusioni in modo da dare “spazio” alla difesa degli imputati. Ma Giaccone, da medico fedele al giuramento di Ippocrate, rifiutò ogni compromesso firmando così la sua condanna a morte. La mattina dell’11 agosto 1982, mentre si recava all’Istituto di Medicina Legale del Policlinico Universitario di Palermo, di cui era direttore, fu raggiunto da due killer e ucciso con tre colpi di revolver calibro 38 e due colpi di pistola Beretta calibro 9 parabellum.

La storia di Paolo Giaccone è la storia di un eroe borghese. Ci insegna che non è necessario rivestire particolari posizioni di potere per combattere ogni forma di illegalità, da chiunque sia posta in essere. Ciascuno di noi è chiamato ad adempiere al proprio dovere, qualunque sia il ruolo nella società, nella consapevolezza che ci sono stati uomini che hanno sacrificato il bene supremo della vita nell’azione di contrasto all’illegalità e alla criminalità.

Un altro “pentito”, Vincenzo Marsala, passò dall’altra parte della barricata dopo l’omicidio, avvenuto nel 1983, di suo padre Mariano Marsala, “uomo d’onore” della “famiglia” di Vicari, un paese del palermitano nella zona di Corleone. L’importanza della collaborazione è dovuta al fatto che Marsala nelle sue dichiarazioni diede risalto alla figura di Totò Riina, che da più di dieci anni era sparito dai radar di polizia e carabinieri. Peraltro, di Riina e Provenzano sono esistite per lungo tempo due vecchie foto diventate sempre meno “somiglianti” con il passare degli anni.

Le rivelazioni di Marsala permisero di accertare che la guerra in atto a Palermo aveva avuto tragici effetti anche in provincia.

L’attendibilità di Marsala è stata passata al vaglio della Corte di Assise di Palermo che, anche sulla base delle sue dichiarazioni, ha emesso sentenza di condanna per reati associativi a carico di vari mafiosi. Il pentito spiegò le regole elettorali di Cosa nostra, che da sempre votava per la Democrazia Cristiana, in quanto i suoi adepti “erano quelli che proteggevano maggiormente la mafia”. In particolare Peppe Marsala (capo mandamento di Vicari) appoggiava sempre Salvo Lima, ma tutta l’organizzazione “militava” a favore di altri esponenti della Dc come Mario D’Acquisto, Vincenzo Carollo e Mario Fasino.

La regola, la “consegna” fondamentale, a cui si dovevano attenere gli “uomini d’onore”, era quella di fare propaganda solo in favore della Dc, mentre era severamente vietato fare propaganda o votare per comunisti e fascisti.

Erano però previste delle eccezioni. Infatti si poteva votare per politici di altri partiti, ma a titolo esclusivamente personale o, per ricambiare favori ricevuti, e comunque con divieto assoluto di fare propaganda. Il rapporto con i politici, inoltre, non poteva essere mantenuto da un qualsiasi “uomo d’onore”, ma soltanto dai capi mandamento o da membri della “famiglia” con un grado piuttosto elevato nella gerarchia dell’organizzazione.


La cantata di Don Masino e i verbali scritti a mano da Giovanni Falcone

Tommaso Buscetta è stato il collaboratore per noi più importante, dicevo, perché ha svelato, con dovizia di riferimenti sempre riscontrati, i segreti di Cosa nostra. Perché i “valori” non erano più quelli di una volta, quelli in cui lui aveva creduto, ormai era diventata una comune organizzazione criminale. In particolare, sin dal primo interrogatorio ha dichiarato, e lo ha poi sempre ribadito: “Non sono un pentito. Non sono una spia né un informatore, né un criminale che prova piacere a infrangere le leggi e sfruttare gli altri”.

Nell’appunto che consegnò a Falcone il giorno del loro primo incontro c’era scritto: “Sono stato un mafioso e ho commesso degli errori per i quali sono pronto a pagare integralmente il mio debito con la giustizia senza pretendere sconti né abbuoni di qualsiasi tipo (allora la legge sui pentiti non esisteva ancora, ndr).

Invece, nell’interesse della società, dei miei figli e dei giovani, intendo rivelare tutto quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano”.

Parole impegnative di un mafioso che aveva uno spessore criminale importante e che, nonostante non avesse mai assunto ruoli apicali in Cosa nostra, godeva di grande rispetto nell’ambito dell’organizzazione. Anche in carcere era tenuto in grande considerazione, tanto che qualcuno era sempre pronto a preparargli il caffè e, quando era detenuto all’Ucciardone a Palermo, i suoi pasti arrivavano dai migliori ristoranti della città. Era uno che non aveva bisogno di alzare la voce per farsi sentire. A questo proposito, ricordo che a Giovanni Falcone, che per tre volte si era lamentato del disturbo arrecato da agenti della Questura di Roma dove si svolgeva l’interrogatorio, Buscetta fece notare con sentito rispetto che, in un caso simile, a un “uomo d’onore” di “peso” sarebbe bastato lamentarsi solo la prima volta e senza alzare la voce.

Don Masino era dotato di grande intuito e, durante la sua visita a Palermo che precedette lo scoppio della seconda guerra di mafia, si rese conto che qualcosa non andava, che il fuoco covava sotto la cenere. Tuttavia non capì subito la pericolosità dei “Corleonesi” e rimase perplesso di fronte agli omicidi eccellenti del 1979 che interrompevano una situazione di quiete che faceva molto comodo a Cosa nostra. Come già Tano Badalamenti, Buscetta pensava che “Cosa nostra non deve fare la guerra allo Stato”. Con lo Stato si convive, si cerca di approfittare delle sue debolezze, a volte tocca anche andare in galera, ma il quieto vivere porta business alla mafia. Anche per questo i sequestri di persona a un certo punto non furono più effettuati in Sicilia. Creavano allarme sociale, e soprattutto attiravano l’“attenzione” delle forze dell’ordine e della magistratura.

Buscetta, che assistette da lontano al massacro dei suoi parenti e amici, collaborò perché voleva salvare se stesso e quello che rimaneva della sua famiglia, e perché riteneva di avere trovato in Giovanni Falcone un magistrato di cui fidarsi. Quando venne arrestato in Brasile ed estradato in Italia, in aereo, dove rischiò di morire per la stricnina ingerita nel tentativo di uccidersi, ebbe modo di apprezzare la professionalità del dottor Gianni De Gennaro, che aveva curato la sua traduzione. Ma fu nel primo incontro con Falcone che gli fu posta una domanda alla quale Buscetta obiettò che ci sarebbe voluto molto tempo per rispondere.

Era il segnale che Giovanni colse al volo.

Il 16 luglio 1984 Tommaso Buscetta, presenti il pubblico ministero Vincenzo Geraci e il vice-questore Gianni De Gennaro, siede davanti il giudice istruttore Giovanni Falcone. Gli ribadisce la sua volontà di collaborare, ma con una premessa: “L’avverto, signor giudice. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. E con me faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?”

E la deposizione ebbe inizio. Il collaboratore di giustizia riavvolse il nastro della sua vita in un continuo, spesso tormentato flash-back, richiamando alla memoria per quattro mesi fatti, episodi, avvenimenti, riempiendo 329 pagine di verbali, scritti a mano da Falcone, senza che nulla trapelasse all’esterno. Due sedute quotidiane, un fiume di parole e un uomo, Buscetta, che aveva scelto Falcone come suo punto di riferimento, nonostante si rendesse conto degli ostacoli che avremmo potuto incontrare nel dare seguito alle sue dichiarazioni.


Il “Teorema Buscetta” e l’instancabile lavoro del pool antimafia

Nel corso degli interrogatori Buscetta ha sempre affermato che la “sua” Cosa nostra, come l’aveva conosciuta all’inizio della affiliazione, non esisteva più. Era diventata “la Cosa nostra” di Riina e Provenzano che non rispettava più le regole alle quali si erano da sempre attenuti gli “uomini d’onore” della vecchia mafia.

Collaborando, intendeva vendicarsi non solo di chi gli aveva ammazzato due figli, un fratello, un genero, un cognato e altri parenti per un totale di undici persone, ma anche di chi aveva sovvertito le regole che governavano la mafia di un tempo, la mafia di Bontate e Inzerillo, la “sua mafia”.

Ai suoi occhi, la Cosa nostra non era più quella in cui era entrato giovanissimo, per colpa soprattutto di Totò Riina. Era diventata la “cosa sua”. La “cosa di Totò Riina”.

Ad esempio, ricordò che per tre anni aveva condiviso la stessa cella con il responsabile dell’omicidio di un suo amico, comportandosi come se niente fosse, consapevole che, secondo le regole non scritte ma inviolabili di Cosa nostra, quell’uomo sarebbe stato ucciso al momento della sua uscita dal carcere. E così accadde.

Ricordò anche, con sofferenza e pur con orgoglio, come, torturato dalla polizia brasiliana, legato a un palo per ore sotto un sole cocente, torturato con le scosse elettriche, minacciato di morte, si fosse limitato a declinare le sue generalità.

La storia racconterà che Buscetta ebbe totale fiducia in Giovanni Falcone, non nello Stato. Ma in realtà quel giudice istruttore faceva parte, con gli altri uomini del pool, di una componente, sia pure minoritaria, delle istituzioni che voleva vederci chiaro sul perverso intreccio politico-mafioso-imprenditoriale, perché non tutto era stato ed era sempre e soltanto mafia.

Don Masino riteneva però che il tempo non fosse ancora maturo per aprire, con le sue rivelazioni, quel “vaso di Pandora” dove erano rimasti occultati segreti inconfessabili che, una volta svelati, non sarebbe stato più possibile celare, con gravi conseguenze sulla tenuta delle istituzioni. No, era più opportuno tacere, per il momento, in attesa che i tempi maturassero. Come in realtà avvenne.

Buscetta descrisse dettagliatamente l’organizzazione di Cosa nostra, raccontò la guerra di mafia di quegli anni che definì “non una guerra ma una caccia all’uomo”, fornì codici di interpretazione, svelò nomi di killer e mandanti di atroci omicidi.

Per noi del pool fu un salto quantico, da semplici artigiani diventammo dei professionisti, pur fedeli alla nostra linea per cui non potevamo prendere per oro colato tutte le affermazioni di un personaggio che, in definitiva, faceva parte delle cosche perdenti della guerra di mafia e aveva dichiaratamente in animo di vendicarsi dei suoi nemici giurati.

Così Falcone mise a dura prova gli inquirenti, disponendo oltre tremila riscontri alle dichiarazioni di Buscetta. Tutto il possibile andava verificato, occorreva che il “prodotto” della nostra fatica, l’ordinanza-sentenza nei confronti di 707 imputati, fosse sorretto da prove granitiche. Perché si affrontava una battaglia che il pool non poteva permettersi di perdere.

Eravamo coscienti che l’eventuale accoglimento da parte della Corte di Assise delle conclusioni alle quali eravamo pervenuti avrebbe provocato una grave crisi in Cosa nostra, incoraggiando l’arrivo di altri pentiti, invogliati a mettersi sotto l’ala protettrice dello Stato che aveva “vinto” la battaglia. Di contro, qualora le conclusioni del cosiddetto “sistema Buscetta” fossero state sconfessate da parte del collegio giudicante, ciò avrebbe tarpato ancora per molto tempo le ali alla risposta dello Stato.


E Ninni Cassarà trovò “Prima Luce” per decifrare la grande guerra di mafia

Alla inattesa collaborazione di Tommaso Buscetta fecero poi seguito quelle di Salvatore Contorno, Antonino Calderone e Francesco Marino Mannoia, per restare alle più importanti. E anche questi “uomini d’onore”, passati dalla parte dello Stato, ci hanno consentito di “spiare” all’interno di Cosa nostra.

Le dichiarazioni di Contorno hanno integrato quelle di Buscetta, che risultavano comunque un po’ datate perché quest’ultimo era dovuto scappare dalla Sicilia per rifugiarsi in Brasile, dove solo ogni tanto, e spesso incomplete e frammentarie, gli giungevano notizie sui parenti e sul progredire della mattanza dei “perdenti”.

In particolare, Salvatore Contorno già aveva fornito al dottor Ninni Cassarà, dirigente della Squadra mobile della Questura, informazioni sulla mafia, trasfuse nel rapporto dalla copertina rossa “Michele Greco + 161”, dove il “pentito” veniva indicato come “prima luce”, perché Contorno era stato il primo a “illuminare” il fitto buio nel quale erano celati fatti e avvenimenti accaduti in Cosa nostra negli anni precedenti.

Come è notorio, Contorno decise di collaborare soltanto dopo essere stato rassicurato sulle “buone intenzioni” di Giovanni Falcone, con il quale chiese di incontrarsi, e dei suoi colleghi, dei quali avrebbe potuto fidarsi.

“Totuccio” Contorno, soprannominato Coriolano della Floresta (come il protagonista del romanzo I Beati Paoli), affiliato alla “famiglia” di Santa Maria di Gesù di Stefano Bontate, fu prodigo di informazioni sul conto dei più autorevoli aderenti a Cosa nostra negli stessi termini in cui si era espresso Tommaso Buscetta.

Contrabbandiere di sigarette e poi trafficante di droga insieme ai cugini Grado, killer al servizio della sua “famiglia” sino all’omicidio di Stefano Bontate, la sua deposizione nel Maxiprocesso risultò di fondamentale importanza e viene ricordata anche per le vivaci reazioni degli avvocati per lo “slang” dialettale con il quale si esprimeva, così “stretto” da essere quasi incomprensibile anche per chi conosceva il dialetto palermitano.

Dopo avere scontato la pena irrogatagli, Contorno ebbe diverse vicissitudini, tornò in carcere, si trasferì negli Usa, rientrò temporaneamente a Palermo, come avrò modo di raccontare.


I quattro picciriddi uccisi, così Antonino Calderone decide di pentirsi

Antonino Calderone divenne un “uomo d’onore” per seguire il fratello Giuseppe, detto “Cannarozzu d’argento”, gola d’argento, e nonostante lo zio, altro “uomo d’onore”, lo avesse sconsigliato di intraprendere quella strada.

Giuseppe Calderone fu uno dei primi caduti nella guerra di mafia, ucciso grazie a un accordo fra il suo luogotenente Nitto Santapaola, esecutore materiale dell’omicidio, e Totò Riina.

Deceduto il fratello, Antonino Calderone si rifugiò a Nizza, dove aprì una lavanderia, ma si rese presto conto che anche la cittadina francese era frequentata da mafiosi della fazione opposta, che, prima o dopo, avrebbero scoperto il suo nascondiglio.

È stato un “pentito” importante perché diede preziose indicazioni: spiegò i rapporti tra imprenditoria catanese e mafia e si soffermò sui collegamenti con le cosche nissene e agrigentine. Le sue deposizioni provocarono una raffica di arresti.

E fra i tanti interrogatori effettuati il suo mi è rimasto impresso in modo indelebile.

Calderone era reo confesso dell’omicidio di quattro ragazzini: Benedetto Zuccaro (15 anni), Giovanni La Greca (14), Riccardo Cristaldi (15) e Lorenzo Pace (14), colpevoli di avere scippato e maltrattato la madre di Nitto Santapaola che era caduta e si era rotta un braccio.

Calderone, abbandonata Cosa nostra seguendo i consigli della moglie e con le stesse motivazioni di Buscetta e Contorno, raccontò che i quattro ragazzi erano stati sequestrati e rinchiusi in una stalla perché disturbavano la tranquillità del quartiere con continui atti di teppismo.

Vennero strozzati e buttati in un fosso. Quel delitto pesò molto sulla coscienza di Calderone. Me ne resi conto quando, nuovamente interrogato da me sulle modalità dell’omicidio, Calderone, al ricordo di quell’atroce delitto commesso insieme ad altri, smise di parlare, iniziò a singhiozzare e, in preda a una crisi di nervi, cadde per terra e non riuscì a riprendersi, tanto che dovetti interrompere l’interrogatorio. Il giorno dopo ripresi l’atto istruttorio, ma Calderone non fu ancora in grado reggere la tensione emotiva che gli procurava il ricordo della fine di quei quattro ragazzi.

L’interrogatorio venne condotto anche da Falcone, arrivato da Palermo nel primo pomeriggio, al quale avevano “consigliato”, per motivi di sicurezza, di pernottare in quel carcere. Mi propose di seguire anche io il “consiglio” ma risposi: “Giovanni, lo sai che ti voglio bene e per te farei qualunque cosa, tranne che passare una notte in carcere”.

Anni dopo, al termine di una udienza tenuta a Roma nel carcere di Rebibbia, Calderone chiese di essere ricevuto, acconsentii e mi trovai di fronte un uomo diverso da quello che avevo conosciuto anni addietro. Mi disse che l’avere collaborato a lungo con la giustizia gli aveva fatto rinnegare quei valori distorti nei quali aveva creduto e, soprattutto, l’avere confessato quel feroce assassinio facendo i nomi dei correi, e l’essersi cristianamente pentito per averlo commesso, gli consentiva di sentirsi in pace con la propria coscienza e di guardare in faccia i suoi figli finalmente senza vergognarsi. Ne fui compiaciuto, ma il mio pensiero corse anche a quei ragazzi ai quali la ferocia di

Cosa nostra aveva negato persino una sepoltura.

Sono convinto che quello di Antonino Calderone sia l’unico esempio di sincero “pentimento”, inteso come stato d’animo di rammarico, rimorso e dolore per un atto umanamente riprovevole.


Marino Mannoia rivela gli incontri tra Giulio Andreotti e i boss di Palermo

 

Un’altra storia particolare è quella di Marino Mannoia.

Anche lui faceva parte delle cosche perdenti, visto che era un affiliato della “famiglia” di Santa Maria di Gesù di Stefano Bontate. Soprannominato “Mozzarella”, faceva il chimico per l’organizzazione e si occupava della raffinazione di eroina quando ancora in Sicilia prosperavano raffinerie clandestine. Come si usava all’epoca tra appartenenti a diverse “famiglie” o alla stessa per rinsaldare i reciproci rapporti, gli fu combinato il matrimonio con Rosa Vernengo, figlia del boss Pietro Vernengo della stessa “famiglia” di Santa Maria Di Gesù, ma poi si innamorò di Rita Simoncini, la quale ebbe un ruolo importante nel suo processo di pentimento.

Nonostante fosse “uomo d’onore” di Bontate, era una sorta di freelance. Grazie alle sue competenze come “chimico”, lavorava anche per altre “famiglie” e questo gli consentì di sopravvivere alla seconda guerra di mafia e di trovare subito occupazione, questa volta alle dipendenze di Totò Riina. Quando decise di collaborare con lo Stato e la notizia iniziò a circolare, gli uccisero, oltre al fratello

Agostino, anche la madre, la sorella e la zia.

Ricordo di avere interrogato Marino Mannoia in una chiesa sconsacrata di Roma pochi giorni dopo il triplice omicidio. Gli chiesi se se la sentisse di sostenere l’interrogatorio, lui rispose affermativamente, “perché sappiamo che queste cose possono succedere”. Aggiunse che era dispiaciuto perché non gli era stato consentito di dare l’ultimo saluto alle sue parenti.

Una notazione di colore. Appreso che uno dei killer era stato identificato per tale Nicolò Eucaliptus, “uomo d’onore” il cui cognome non era certo comune in quel di Bagheria, dove era stata commessa la strage, Marino Mannoia osservò che non avrebbe mai pensato che anche uno straniero, forse un egiziano, fosse stato reclutato da Cosa nostra!

Marino Mannoia è stato l’autore delle rivelazioni su incontri che il politico Giulio Andreotti avrebbe avuto con capimafia palermitani, tra i quali lo stesso Stefano Bontate. Dichiarazioni ritenute veritiere nella sentenza di appello nel processo a carico di Giulio Andreotti.

Questo lungo “excursus” storico sulle collaborazioni di alcuni tra i più attendibili “pentiti” è servito a dimostrare come senza il loro aiuto non sarebbe stato possibile sferrare un attacco senza precedenti alla mafia, grazie anche a un metodo investigativo incisivo e innovativo.

Né avrebbe avuto fine la serie di sentenze di assoluzione per insufficienza di prove nei confronti di appartenenti a Cosa nostra che avevano contraddistinto, per esempio, i processi di Catanzaro e Bari celebrati alla fine degli anni Sessanta.

I pentiti si sono quindi confermati una risorsa indispensabile. D’altra parte va detto che confrontarsi con loro non era facile. Non è facile avere davanti un uomo che ha ucciso tanti altri uomini ‒ strangolati, sciolti nell’acido, fatti sparire per sempre ‒ e mantenere la calma e la lucidità che

ti permettano di fare il tuo mestiere di giudice. Siamo magistrati navigati, esperti, rotti a tutte le intemperie, ma alcune volte i sentimenti, le passioni possono prendere il sopravvento. È umano. Ecco, questo è un altro “dictat” a cui abbiamo sempre voluto e dovuto attenerci: mantenere la lucidità e non lasciarci condizionare da fattori diversi da quelli che ci dovevano guidare: il rispetto e l’osservanza della legge. Con un obiettivo sempre ben chiaro in testa: combattere l’insidiosa Bestia che devastava ‒ e devasta ‒ la Sicilia e l’Italia.

Lavoravamo con ogni energia per sconfiggere Cosa nostra.


La “previsione” di Buscetta, le stragi e una misteriosa trattativa

Era il mese di aprile del 1993. Mi recai in Canada per interrogare Tommaso Buscetta a conclusione dell’attività istruttoria dell’ordinanza-sentenza che verrà emessa il 5 gennaio 1995. Eravamo nel difficile, terribile, fosco periodo seguente le stragi di Capaci e di via D’Amelio e prima degli attentati di Roma, Firenze e Milano.

Al termine dell’interrogatorio, al quale partecipò anche il collega Gioacchino Natoli (nel frattempo transitato in Procura dopo l’entrata in vigore del codice Vassalli), chiesi a Buscetta se, secondo lui, sarebbero stati perpetrati in futuro altri omicidi eccellenti.

Ci pensò, rimanendo qualche secondo in silenzio e, alla fine, vaticinò che la strategia di Cosa nostra sarebbe cambiata: non avrebbe più compiuto attentati a rappresentanti delle forze dell’ordine, magistrati e imprenditori, ma bensì al patrimonio architettonico e artistico italiano.

Disse proprio così.

In effetti arrivarono le bombe di Roma, Firenze e Milano, che provocarono dieci vittime innocenti, tra di esse due bimbe. E poi decine di feriti e montagne di macerie.

Con le stragi la mafia intendeva mettere all’angolo lo Stato italiano, costringerlo a venire a patti, creando così le condizioni per quella che, processualmente, sarà nota come “la trattativa Stato-mafia”.

All’epoca ritenni che Buscetta avesse espresso soltanto una opinione personale e non una vera e propria previsione che sarebbe stata confermata, purtroppo, da quanto accaduto qualche mese dopo.

Ho raccontato anche a chi di dovere questo episodio, che mi ha colpito perché allora Buscetta viveva sotto protezione, isolato dal suo vecchio ambiente, senza nessuna frequentazione particolare. Eppure fu in grado di sfornare una previsione, rivelatasi esatta, paventando una serie di eventi rispetto ai quali non c’erano precedenti.

E allora pensai che o eravamo di fronte a un personaggio dall’intuito straordinario oppure qualcuno, che magari gli offriva protezione, gli aveva sussurrato questa possibilità. Ma se gli americani, che avevano Don Masino in custodia, erano al corrente di una simile “svolta” da parte di Cosa nostra rispetto alle sue sperimentate iniziative, possibile che nessuno avesse pensato ad avvisare per tempo i servizi italiani?

Oppure la notizia partì dall’Italia, dove qualcuno si sentì forse in dovere di chiedere l’opinione di un esperto come Buscetta su un simile cambiamento di strategia?

C’è da dire, però, che nell’orizzonte criminale l’ipotesi di usare l’esplosivo contro monumenti era già balenata grazie a Paolo Bellini.

Di chi si tratta? Ex militante di Avanguardia nazionale, assassino di Alceste Campanile, suo ex amico del Fronte della Gioventù poi passato a Lotta Continua, Bellini, nel febbraio 2020, ha ricevuto anche un avviso di fine indagine per la nuova inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna.

Di quell’attentato Bellini è ritenuto un esecutore che avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi ‒ questi quattro tutti deceduti e ritenuti mandanti, finanziatori o organizzatori ‒, oltre che in concorso con esponenti dei Nar già condannati.

Questa però è la parte della sua vicenda giudiziaria che meno ci riguarda, in questo frangente. Perché ciò che risulta interessante è che Bellini, nel 1981, era detenuto nel carcere di Sciacca, dove conobbe Antonino Gioè, che faceva parte della cosca di Altofonte e che più tardi avrebbe avuto un ruolo determinante nella strage di Capaci, occupandosi del confezionamento dell’esplosivo e del successivo posizionamento nei cunicoli sotto l’autostrada.

Gioè diede anche il segnale a Giovanni Brusca per azionare il telecomando che provocò l’esplosione.

Bellini, in accordo con l’Arma dei Carabinieri, instaurò una trattativa con Gioè, dietro il quale c’era Brusca, per effettuare uno scambio fra benefici di pena per cinque “uomini d’onore” anziani e malati e la restituzione di opere d’arte per decine di miliardi.

Siamo nel periodo che precede l’attentato di via D’Amelio, e la trattativa non andò a buon fine. Dopo le stragi però, con Riina in carcere, Bagarella, Brusca e Messina Denaro decisero di proseguire nella sfida allo Stato accettando un suggerimento che, tramite Gioè, arrivava da Bellini: posizionare, a mo’ di intimidazione, una bomba da fare ritrovare nella Torre di Pisa e siringhe di sangue infetto sulle spiagge di Rimini. Brusca ha raccontato di essere stato tagliato fuori dall’organizzazione degli attentati da qui in poi, ma di avere saputo che la decisione dei luoghi da colpire fu adottata da Matteo Messina Denaro, l’esperto d’arte dell’organizzazione.

Tutto questo per dire che è difficile comprendere come Buscetta abbia potuto sapere, isolato com’era, dei progetti dentro Cosa nostra, ma che l’ipotesi di colpire chiese, musei e monumenti circolava in qualche forma già da tempo all’interno dell’organizzazione.

Ripensando a quel colloquio, dopo molti anni continuo a chiedermi se Tommaso Buscetta avesse soltanto azzardato una sua ipotesi oppure avesse inteso fornire una precisa “anticipazione” sugli imminenti piani di Cosa nostra.

Se è valida la seconda ipotesi, da chi avrebbe potuto ricevere quelle informazioni? Difficile supporre che fosse stato avvisato dai suoi ex sodali. E allora, da chi?


Cambia l’aria a Palermo, per qualcuno il pool antimafia è “un problema”

Il 1984 è stato l’anno in cui il pool ha mietuto i primi importanti, determinanti successi nell’azione di contrasto a Cosa nostra. La inattesa e imprevista collaborazione di Tommaso Buscetta e, sulla scorta delle sue propalazioni, la emissione di un mandato di cattura (il cosiddetto blitz di San Michele) che portò in carcere oltre trecento persone tra “uomini d’onore” e soggetti vicini a Cosa nostra, convinsero l’opinione pubblica che, finalmente, si faceva sul serio, che era giunta l’ora di un definitivo regolamento di conti con la mafia, che da tempo, troppo tempo, seminava morte e terrore. Ma quel vento favorevole, che aveva gonfiato le vele del consenso per il nostro lavoro, ben presto smise di soffiare, cambiando direzione.

Ci si accorgeva che l’opinione pubblica e il clima intorno a noi stavano mutando, come se Palermo volesse sprofondare ancora nel suo passato, nella sua “normalità”.

Quale fosse la “normalità” a Palermo tornammo a rendercene conto quando nel 1985 vennero uccisi due funzionari della Polizia di Stato, Beppe Montana e Ninni Cassarà, e perirono, in un tragico incidente stradale, gli studenti Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella, investiti da un’auto della scorta mia e di Paolo Borsellino. Un episodio atroce, una storia triste, una storia di quella Palermo.

Il 25 novembre 1985 è stato l’ultimo giorno di scuola per Biagio Siciliano, 14 anni, e Maria Giuditta Milella, 17 anni, studenti del Liceo Classico Meli. Alle 13,35 un’Alfetta che scortava l’auto blindata in cui sedevamo io e Paolo Borsellino, dopo avere urtato contro una Fiat 127 che non si era fermata all’alt di un vigile urbano all’altezza dell’incrocio tra viale della Libertà e piazza Croci, piombava addosso a decine di studenti del vicino liceo che, terminate le lezioni, attendevano a una fermata di autobus di fronte l’istituto, per fare rientro a casa.

A seguito del violento impatto, ventitré studenti riportarono ferite, per fortuna non gravissime, mentre Biagio morì dopo qualche ora e Giuditta a distanza di cinque giorni dal ricovero in ospedale.

Fu una tragedia che sconvolse una città blindata che, ormai da qualche tempo, viveva in un clima di terrore e di violenza dovuto alle centinaia di morti per mano mafiosa nel giro di pochi anni. E dalla morte di Biagio e Giuditta anche le nostre famiglie furono sfiorate. No, non furono solo sfiorate, la mia famiglia davvero sprofondò in quel dramma. Mio figlio Michele, allora tredicenne, frequenta-

va quella stessa scuola ma non si trovava ad aspettare sotto la pensilina dell’Amat perché le lezioni della sua classe erano finite un’ora prima, alle dodici e trenta.

La fine di quelle due giovanissime vite ha lasciato un vuoto incolmabile nelle famiglie e un dolore straziante, una cicatrice indelebile in me e in Paolo, involontarie cause di quel terribile lutto, e ha centuplicato il nostro impegno nell’azione di contrasto a Cosa nostra.

Di recente, il Comune di Palermo ha intitolato a Biagio e Giuditta, vittime innocenti di mafia, una strada nei pressi del Liceo Meli. Nel suo commosso intervento, il Sindaco Leoluca Orlando ha ricordato come “in un momento ‒ si era proprio alla vigilia del Maxiprocesso ‒ in cui molti criticavano lo Stato che combatteva la mafia, criticavano le scorte e le sirene, i genitori e i compagni di Biagio e Giuditta reagirono con una straordinaria compostezza vivendo l’inconsolabile dolore senza una sola parola fuori posto, senza farsi trascinare nel gorgo delle emozioni più negative, cose che sarebbero state subito strumentalizzate da chi guardava con fastidio l’impegno dello Stato contro la mafia”.

In quei giorni, il consigliere istruttore Antonino Caponnetto parlò di grande consapevolezza civica e diede prova, anche in quel drammatico frangente, di essere un grande uomo. Era ritornato a Firenze, a casa sua, da ventiquattro ore appena, in una delle rare occasioni di libera uscita da Palermo in quattro anni e mezzo, quando ricevette la telefonata con la quale Paolo Borsellino in lacrime gli comunicava l’accaduto.

Paolo era distrutto dai sensi di colpa, non chiese ad Antonino di tornare ma lui non ci pensò due volte, prese il primo volo utile e si precipitò a Palermo per stargli vicino.

Purtroppo non ricevemmo uguale solidarietà da tanti cittadini palermitani, che, di contro, si esibirono in manifestazioni di intolleranza tutt’altro che edificanti, se non di misconoscenza del pericolo gravissimo che correvano i magistrati, non solo noi del pool si intende, impegnati in processi di mafia.

Già abbiamo detto degli strali a mezzo stampa dei condomini di via Notarbartolo, dove abitava Falcone, preoccupati che la sua sola presenza mettesse a rischio la loro incolumità personale. Ma anche le scorte dei magistrati, che percorrevano velocemente le strade cittadine, erano oggetto di vibranti e continue lamentele. Quelle lamentele che trovavano sfogo, forse per un caso, sempre sulle colonne del “Giornale di Sicilia”, che pubblicava lettere di protesta come quella che già abbiamo visto.


Con l’omicidio di Beppe Montana inizia una tragica estate di sangue

La dimostrazione che il “clima” era definitivamente cambiato, che il vento del consenso aveva da tempo smesso di soffiare, è data anche da un episodio vissuto da un componente della mia famiglia.

Si era nel periodo dopo le stragi del 1992. Mia moglie si trova in un negozio a cui accede una signora adirata perché aveva fatto molto fatica a parcheggiare la sua autovettura. Ad alta voce, si lamenta del fatto che, con “la storia della messa in sicurezza dei magistrati”, era impossibile trovare un posto dove parcheggiare l’auto per le numerose zone rimozione nei pressi delle abitazioni di magistrati impegnati in indagini di mafia. Non solo. La signora suggerisce un rimedio al problema. Perché non concentrare tutti quei magistrati in un luogo isolato, così, se li ammazzano, li ammazzano tutti lì?

Gelida, mia moglie le fece notare che non si sarebbe espressa in quei termini infelici e offensivi se uno dei suoi familiari fosse obbligato a muoversi con la scorta per i pericoli che correva perché stava facendo il suo dovere. Nel negozio calò il silenzio.

Non era facile vivere in una simile atmosfera di tensione, dove a volte sembrava che dessimo soltanto fastidio. Noi tutti sapevamo che il magistrato deve svolgere il proprio compito senza preoccuparsi di quel che pensa la gente. Non cercavamo il consenso, il plauso dell’opinione pubblica. Ma è altrettanto vero che, nella situazione in cui viveva Palermo, dove la battaglia era anche culturale, sarebbe stata appagante e incoraggiante la consapevolezza che la società civile fosse partecipe e attenta al nostro lavoro.

Mi accorgo che sto divagando, forse perché voglio allontanare da me il momento del ricordo di quei terribili giorni dell’estate di sangue del 1985.

Il primo a cadere fu Beppe Montana, commissario della Squadra mobile della Questura di Palermo, soprannominato “Serpico” perché era sempre in prima linea. “A Palermo siamo poco più d’una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà”. Così disse, in occasione di una retata finita con l’arresto di otto uomini di Michele Greco, in cui “il Papa” si era sottratto alla cattura.

Montana girava in moto nelle strade di Palermo e con il suo motoscafo controllava il largo della costa, in particolare la zona di Porticello, perché era convinto che i latitanti non si rifugiassero in altre parti del mondo ma si nascondessero dove avrebbero potuto contare su di un reticolo di protezioni e aiuti. In altri termini, nelle zone di appartenenza.

Montana morì il 28 luglio, una domenica piena di sole, sotto i colpi di due killer a viso scoperto. Ecco cosa era la lotta alla mafia di quegli anni. Una sorta di sfida all’O.K. Corral per le strade di Palermo e provincia. Ma era una sfida impari perché i cattivi erano più dei buoni che soli, ogni giorno, dovevano guardarsi le spalle.

Per l’assassinio di Montana c’era però un sospettato per avere partecipato all’omicidio o avere favorito gli autori. Si chiamava Salvatore Marino, aveva 25 anni, giocava a calcio in una squadra appena promossa in Serie D.

Nella sua abitazione furono rinvenuti dieci milioni di lire arrotolati in un giornale del 30 luglio 1985 (che riportava, a caratteri cubitali, la notizia dell’omicidio di Montana) e altri 24 milioni di lire nascosti in un armadio. Gli inquirenti non lo trovarono a casa ma il giorno seguente Salvatore Marino si presentò spontaneamente in Questura. Ne uscirà, cadavere, il giorno dopo.

Nessuno, all’infuori dei poliziotti che effettuarono il fermo e interrogarono il giovane Marino, sa cosa sia realmente avvenuto nel segreto delle stanze e della camera di sicurezza della Squadra mobile in quelle dodici ore, le più nere della Questura di Palermo, tra il pomeriggio dell’1 e l’alba del 2 agosto 1985. La versione ufficiale degli inquirenti, che esclude maltrattamenti e addebita la morte del Marino “ad un collasso e a violente convulsioni”, cozza contro quella dei parenti della vittima, che parlano di una vera e propria “esecuzione” rifacendosi ai numerosi lividi (gonfiori al volto e alle labbra, escoriazioni al naso, tumefazioni ai piedi) sul corpo del loro congiunto. Fu rinvenuto cadavere su una spiaggia palermitana, quella di Sant’Erasmo, dove sarebbe stato ritrovato dagli uomini della Squadra mobile.

Per qualche ora, Marino venne spacciato per un immigrato africano, anche per il colore scuro della pelle.

Il 5 agosto successivo, con provvedimento del ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro, vengono destituiti il capo della Squadra mobile, Francesco Pellegrino, il capitano dei carabinieri, Gennaro Scala, e il dirigente della sezione anti-rapine Giuseppe Russo. A tutti viene contestato il reato di omicidio colposo.

Quello Stato, spesso assente o distratto, questa volta interviene subito e non poteva essere altrimenti. Troppo grande era stato lo sfregio alla credibilità dell’istituzione che pure aveva lasciato sul terreno tanti suoi servitori, in ultimo Beppe Montana. Ma la lotta alla criminalità deve sempre essere condotta nell’ambito delle norme e delle garanzie di rango costituzionale. Se, anche a fronte di dolorosi avvenimenti che non solo ti toccano personalmente ma che riguardano persone con le quali hai lavorato e rischiato la vita, quelle norme di condotta non si rispettano sempre e comunque, se sei venuto meno ai tuoi doveri, hai perso credibilità, hai perso la fiducia riposta in te e nel tuo compito.

Lo penso e lo scrivo con tutto il rispetto che ho sempre avuto per un’istituzione come la Polizia di Stato, non solo perché in essa hanno militato mio nonno Leonardo, come già ricordato, funzionari dotati di non comune spirito di servizio, nostri compagni di un’avventura professionale e umana straordinaria, ma anche perché, per oltre trentaquattro anni, la mia sicurezza è stata affidata al solerte servizio di scorta o di tutela di agenti della Polizia di Stato.

La morte di Salvatore Marino fu un duro colpo anche per noi. Il clima favorevole che aveva accompagnato il nostro lavoro si era ormai dissolto e i giornali, sempre i soliti, rinnovarono gli attacchi.

Ma non finì tutto con quella morte in Questura.


Un’aula bunker tutta nuova per celebrare il processo che ha fatto la storia

L’8 novembre 1985 venne quindi depositata l’ordinanza-sentenza, che consta di 8.608 pagine contenute in 40 volumi con 22 allegati, il cui incipit recita: “Questo è il processo all’organizzazione mafiosa denominata Cosa nostra, una pericolosissima associazione criminosa che, con la violenza e la intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore”.
La strada verso il Maxiprocesso era ormai spianata.

Quando era in fase avanzata la stesura della ordinanza-sentenza realizzammo che le aule delle Corti di Assise del Palazzo di Giustizia non avrebbero potuto “ospitare” gli oltre quattrocento imputati rinviati a giudizio, in stato di detenzione e a piede libero, le parti civili, gli avvocati difensori, i testimoni. E tanto meno contenere il pubblico, i giornalisti e gli operatori televisivi, provenienti da tutte le parti del mondo per raccontare e trasmettere le fasi di quello che già era considerato nell’immaginario collettivo il più imponente processo mai celebrato al mondo contro un’organizzazione criminale.

Venne presa in considerazione ma subito abbandonata l’ipotesi di “spacchettare” il processo rinviando a giudizio gli imputati, opportunamente selezionati secondo i reati loro contestati, davanti diversi collegi. Questo perché si sarebbe corso il serissimo rischio che i diversi giudici coinvolti non percepissero la visione unitaria di Cosa nostra e ci fosse il pericolo di contrasti o difformità di giudicati tra i vari collegi. Venne esclusa anche la soluzione, sostenuta da una parte della classe forense, di celebrare il processo in altra città che fosse dotata di un’aula adatta alla bisogna. No, il processo poteva e doveva essere celebrato a Palermo.

Fu pertanto necessario costruire in tempi brevissimi una struttura, accanto al carcere borbonico dell’Ucciardone (per consentire il passaggio dei detenuti dalle loro celle all’aula senza pericolo alcuno), dove sarebbe stato possibile celebrare il processo in condizioni di assoluta sicurezza essendo stati previsti anche sistemi di protezione in grado di resistere persino ad attacchi missilistici. Venne completata in circa sei mesi, pochi giorni prima del 10 febbraio 1986, data di inizio del processo, grazie anche al lodevole impegno di Liliana Ferraro, vice-direttore generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia.

Quando vuole lo Stato è in grado di essere veloce ed efficiente.

La struttura è costata 36 miliardi di lire (circa 18,5 milioni di euro) e venne realizzata molto in fretta, con turni di lavoro che andavano dalle sei del mattino alle dieci di sera, senza giorni di riposo, e che vedevano impegnati 120 operai. Tempi record per le abitudini italiane e siciliane, soprattutto tenendo conto che vennero utilizzati quelli che per l’epoca erano sofisticati sistemi di sicurezza.

L’aula bunker, detta anche “aula verde” per il colore del pavimento, ha forma ottagonale e dimensioni mastodontiche, che consentono la contemporanea presenza di circa seicento imputati, “ospitati” nelle trenta gabbie poste di fronte lo scranno dei giudici, mentre numerosissimi e vasti spazi delimitati sono destinati agli avvocati, ai testimoni, agli imputati a piede libero e al pubblico. La definizione di aula bunker non era di certo “usurpata”.

Questo luogo simbolo della lotta a Cosa nostra da molti anni ogni 23 maggio viene “invaso” da studenti e studentesse delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, in occasione della premiazione di scuole o singole classi vincitrici del concorso indetto annualmente da Fondazione Falcone e Miur.
Le studentesse e gli studenti che oggi siedono sui banchi di scuola non erano nati il 23 maggio 1992, ma la partecipazione riscontrata di volta in volta e la profondità dei lavori realizzati, nonché la qualità dei percorsi di educazione alla legalità, cittadinanza e Costituzione, testimoniano quanto l’esempio di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, delle donne e degli uomini delle scorte e di tutte le vittime della criminalità organizzata sia vivo e attuale nelle nuove generazioni.
Da alcuni anni l’aula bunker è anche meta continua di turisti di ogni nazionalità in visita a Palermo, al pari dei monumenti e dei luoghi più famosi del capoluogo, attratti dalla opportunità di vedere con i propri occhi il “teatro” in cui lo stato sconfisse Cosa nostra.


Le critiche di certa stampa intorno al Maxiprocesso

Tornando indietro nel tempo, ricordo che al processo ci avvicinammo in un clima che, mano a mano, si fece sempre più rovente. Gli attacchi del “Giornale di Sicilia” ‒ ma dov’era la novità? ‒ si fecero quotidiani; improvvisamente ci fu un risveglio di attenzione, mai notato in precedenza, per il rispetto delle libertà civili. I giudici erano un pericolo per la democrazia… Anche la politica fece la sua parte mettendo le mani avanti e negando che ci potessero essere collegamenti fra Cosa nostra e la classe dirigente siciliana.

E infine presero una posizione borderline esponenti della Arcidiocesi di Palermo.

Dopo la “strage” di Ciaculli del 30 giugno 1963, Angelo Dell’Acqua, sostituto della segreteria di Stato, su iniziativa di Papa Paolo VI, inviò una lettera al cardinale Ernesto Ruffini, a Palermo dal 1946, con la quale invitava l’arcivescovo a valutare se non fosse “il caso, anche da parte ecclesiastica, di promuovere un’azione positiva e sistematica con i mezzi che le sono propri… per dissociare la mentalità della cosiddetta ‘mafia’ da quella religiosa e per confortare questa a una più coerente osservanza dei principi cristiani, col triplice scopo di elevare il sentimento civile della popolazione siciliana, di pacificare gli animi e prevenire nuovi attentati alla vita umana”.

Il cardinale Ruffini rispose in modo irritato e risentito.

Si disse sorpreso alquanto che si potesse supporre che la mentalità della cosiddetta mafia fosse associata a quella religiosa e aggiunse: “È una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali”.

Va ancora ricordato che, richiesto di spiegazioni da Papa Paolo VI sul caso dei frati di Mazzarino, finiti sotto processo, il cardinale Ruffini si lanciò in una loro difesa a spada tratta. Il palese intento di Ruffini era quello di giustificare il suo operato agli occhi del nuovo Papa e, soprattutto, smentire, oltre ogni evidenza, l’esistenza di collusioni tra clero e criminalità.

Prese una decisa e ferma posizione, invece, il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo metropolita di Palermo, il cui impegno contro Cosa nostra ha segnato una tappa importante nella storia della Chiesa siciliana. È rimasta nel ricordo di tutti, e all’epoca ebbe una clamorosa risonanza, la frase pronunciata durante l’omelia al funerale del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”, (“mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”), un esplicito atto di accusa contro lo Stato che temporeggiava nella stagione degli omicidi eccellenti.

Per alzare la tensione venne utilizzata anche la piazza, con manifestazioni organizzate contro l’arresto dell’ex sindaco Vito Ciancimino e la nuova politica del Comune che cercava di eliminare la piaga del clientelismo anche a scapito di posti di lavoro nelle municipalizzate.

I dimostranti portavano in corteo cartelli con le scritte “Con l’antimafia non si mangia”, “Viva la mafia e viva Ciancimino” oppure “Con Ciancimino c’era lavoro”.

Il giorno in cui si aprì il processo, il “Giornale di Sicilia” intitolò: “Silenzio entra la corte”. Nell’editoriale si avvertirono i lettori che da allora in poi il giornale si sarebbe astenuto da ogni commento. Come se non bastasse, vennero varate due nuove rubriche dal titolo “Mafia” e “Antimafia” per rispettare l’obiettività di giudizio.

Come se fosse normale avere una posizione equidistante tra mafia e antimafia. Il tutto ricordava i tempi in cui molti sostennero lo slogan “Né con le Br né con lo Stato” assumendo una posizione terza fra chi sparava e chi cercava di fare rispettare la legge.

Anche l’ultimo passaggio non fu facile. Bisognava trovare il magistrato che avrebbe assunto la presidenza della Corte di Assise. Compito dimostratosi arduo per il Presidente del Tribunale. Qualcuno dei primi designati adduceva indisposizioni presentando certificati medici, altri si giustificavano evidenziando di essere già oberati di lavoro che non avrebbe consentito loro di presiedere un processo che si prevedeva essere complesso e di lunga durata.

Alla fine e a sorpresa, la scelta cadde sul dottor Alfonso Giordano, che non si sottrasse al suo dovere.

L’ho conosciuto giovane sostituto procuratore della Repubblica a Palermo, nel corso del mio uditorato in quella Procura. Ricordo che si occupava, anche, di sostenere l’accusa nelle cause civili nelle quali è previsto l’intervento del pm.

Alfonso Giordano, una vita professionale quasi interamente dedicata al diritto civile, come da lui ricordato, non aveva mai pronunciato una condanna all’ergastolo. Per essere in grado di gestire quel processo, affrontò anche un suo percorso interiore che gli fece acquisire la tranquillità necessaria per affrontare i due anni di un dibattimento che vedeva alla sbarra il “gotha” di Cosa nostra. E lo fece in maniera egregia. Al suo fianco il giudice a latere, Pietro Grasso, che chiese e ottenne di essere trasferito dalla Procura al Tribunale per assumere quell’incarico. Non gli fu difficile, in considerazione della riottosità degli altri colleghi a ricoprire quel posto scomodo. Scelte coraggiose, ma ancora più coraggiosa fu la decisione di quei cittadini che accettarono di fare parte della corte come giudici popolari. Quando vennero convocati 50 cittadini tra i quali sorteggiare quelli che avrebbero composto la Corte di Assise, 37 non si presentarono, nove rifiutarono e quattro accettarono con “riserva”. I certificati medici fioccarono: gastroduodenite, coliche renali, problemi vascolari, malattie dell’apparato respiratorio, reumatismi. Venne sorteggiata anche la moglie di Pietro Grasso, il giudice a latere del Maxiprocesso, che dovette rifiutare per ovvie ragioni di incompatibilità. Alla fine qualcuno accettò e con fatica si riuscì a completare l’organico della corte anche con la nomina di giudici togati e popolari supplenti.


L’omicidio del piccolo Claudio Domino. Così la mafia gettò la maschera

All’inizio del processo ci furono le solite schermaglie procedurali: molti avvocati che protestavano, imputati che si lamentavano e avanzavano le più svariate richieste nel tentativo di impedire il regolare svolgimento del processo, simulando pazzia, crisi epilettiche, inghiottendo chiodi, cucendosi la bocca o denudandosi in aula. Si arrivò persino a ricusare il Presidente della Corte con l’accusa di avere suggerito una risposta a Salvatore Contorno.

Ma il Presidente Giordano, con mano ferma e decisa, seppe destreggiarsi tra gli ostacoli e condusse felicemente in porto quel difficile, complesso e mastodontico processo. Grazie a Giordano e Grasso il processo scivolò via. Non mancò qualche colpo di teatro, senza alcun effetto.

Luciano Leggio, che rinunciò, dopo averne fatto istanza, a confrontarsi con Buscetta, un giorno chiese di parlare e, a sorpresa, iniziò a raccontare del golpe Borghese, nella preparazione del quale erano stati coinvolti anche “uomini d’onore”. Il boss però ignorava che Buscetta aveva già detto della vicenda a Falcone e anche a Caponnetto, presente il giorno dell’incontro su richiesta del collaboratore stesso. Così, quando Leggio iniziò a parlare, il pubblico ministero, che aveva in mano la copia dell’interrogatorio di Buscetta, lo fermò, e il boss vide così svanire l’effetto della sua deposizione, con la quale forse intendeva inviare messaggi a qualcuno.

Dal suo nascondiglio anche Riina non fu contento dell’improvvisata di Leggio, che infatti fu poi avvisato in carcere di tacere: basta esibizioni.

Ma il processo, quel processo, non poteva concludersi che con un altro colpo di scena.

Durante l’ultima udienza, Michele Greco “il Papa”, che era stato arrestato il 20 febbraio 1986, appena pochi giorni dopo l’inizio delle udienze, prese la parola e rivolgendosi alla Corte declamò: “Auguro a tutti voi la pace, perché la pace è la tranquillità dello spirito e della coscienza, perché per il compito che vi aspetta la serenità è la base per giudicare. Non sono parole mie, ma le parole che Nostro Signore disse a Mosè…”

Un augurio di pace che non gli impedì di ricevere una condanna all’ergastolo.

E sempre “il Papa” si era rivolto a me con un atteggiamento simile quando, alla fine di un interrogatorio, mi disse: “Signor giudice, se lei mi lascia libero non sbaglia”.

Risposi che, nel suo caso, preferivo sbagliare. Richieste che se arrivano da un boss mafioso di quel calibro non ti lasciano indifferente.

Tra i tanti aneddoti, ricordo anche che, mentre era in corso il Maxiprocesso, mi recai al carcere dell’Ucciardone per interrogare Salvatore Contorno. Venni visto da qualcuno che ‒ in vena di facezie, per non pensare male ‒ mise in giro la voce che ero andato a trovare “Totuccio” per fargli omaggio, per conto del pool, di un vassoio di cannoli!

Nel corso del processo, ma fuori dall’aula, si registrarono diversi eventi che scossero Palermo. In particolare l’omicidio del piccolo Claudio Domino e l’articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia” pubblicato dal “Corriere della Sera”. Mentre le polemiche generate da quell’articolo meritano una trattazione a parte, ricordo qui l’omicidio perché ebbe un’importante risonanza proprio nell’aula bunker.

Palermo, 7 ottobre 1986, quartiere San Lorenzo. Claudio Domino, 11 anni, si trova in compagnia di due amici, quando viene richiamata la sua attenzione da un uomo a bordo di un motorino, che gli fa cenno di avvicinarsi. Il bambino acconsente ma il killer, appena Claudio gli è vicino, esplode a bruciapelo un colpo di pistola che raggiunge il bambino in piena fronte, uccidendolo.

Lo spietato e feroce delitto sconvolge una Palermo che, a quel tempo, segue il Maxiprocesso in corso a carico degli esponenti di Cosa nostra ma non lascia insensibile qualcuno di essi: Giovanni Bontate, fratello di Stefano (capo della “famiglia” di Santa Maria di Gesù), sceglie di rompere il silenzio affermando di comprendere il dolore dei genitori ma di rifiutare l’ipotesi che “un simile atto di barbarie ci possa sfiorare”, così implicitamente ammettendo l’esistenza e l’associazione a un’organizzazione mafiosa.

Il piccolo Claudio era figlio di uno dei titolari della ditta che gestiva il servizio di pulizia all’interno dell’aula bunker e le indagini susseguenti al delitto presero in considerazione diverse ipotesi sul movente di quel grave fatto di sangue che, tuttavia, rimane ancora irrisolto perché i responsabili non sono stati individuati e riconosciuti con sentenza.

Si è appreso da un mafioso “pentito” che Salvatore Riina per “vendicare” il piccolo Claudio avrebbe dato l’ordine di individuare e “scannare” i responsabili del delitto, evidentemente esecrabile anche agli occhi del capo di una delle più sanguinarie associazioni criminali.

Ma Claudio Domino è stato, di certo, l’ennesima vittima innocente della mafia che crudelmente ha stroncato la sua giovanissima vita, sottraendolo all’amore dei suoi genitori, i quali si sono fatti poi promotori di un progetto di crescita e tutela dei minori finalizzato a fare memoria del sacrificio del figlio e di altri 108 bambini, anche loro vittime innocenti della mafia.

È giusto e doveroso non dimenticare quell’azione efferata, disumana, del tutto estranea al nostro modo di concepire l’esistenza e, soprattutto, essa stessa negazione della cultura della vita.


Dal libro “C’era una volta il pool antimafia”, di Leonardo Guarnotta a cura di Domani

 

 

 

il BUNKERINO, le stanze di Falcone e Borsellino

 

 

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