A decidere fu il lancio della monetina, testa o croce. «Uscì croce e chiedemmo il cambio ai colleghi del turno pomeridiano, che arrivarono a Villagrazia di Carini e ci sostituirono. Se invece fosse uscito testa avremmo riaccompagnato noi il giudice Borsellino in via D’Amelio, e il cambio lo avremmo fatto dove c’era l’autobomba. Che sarebbe successo? I colleghi arrivati prima avrebbero notato la macchina sospetta o, com’è più probabile, saremmo morti anche noi?». Il vice-sovrintendente di polizia Nicola Catanese — 59 anni, in servizio da 36, uno dei capiscorta di Paolo Borsellino — se lo chiede da trent’anni. Da quel 19 luglio del 1992 in cui salutò il magistrato nella sua casa sul mare per apprendere, qualche ora dopo, che era stato ammazzato insieme a chi avrebbe dovuto proteggerlo. Poteva toccare a lui, la sorte decise che fossero altri.
Essendo fuori Palermo dal mattino, c’era la possibilità di attivare lo straordinario (guadagnando qualcosa in più su una busta paga non ricca) e spostare il cambio turno al rientro in città; ma si poteva anche chiedere il rimpiazzo all’orario previsto, fuori Comune. Un’alternativa decisa da una coincidenza: il compleanno della futura moglie di Catanese, nata il 20 luglio, che viveva a Messina come lui. «Io tendevo ad accumulare i turni di riposo — ricorda il poliziotto — per avere qualche giorno in più quando tornavo a casa, e quella domenica avevo deciso di non rientrare. Dunque potevamo rimanere con il giudice fino al ritorno a Palermo. Verso fine mattinata, da una cabina telefonica, chiamai Sofia, la mia fidanzata, e le confermai che non sarei andato, ma si dispiacque. Così pensai di farle una sorpresa e di andare, senza dirglielo. Tornai dai colleghi e dissi: io vorrei smontare, voi che dite? Eravamo in sei, il responso fu tre a tre. A quel punto potevo decidere io, ma per non scontentare nessuno scelsi di affidarmi alla monetina: testa restiamo, croce chiediamo il cambio». CORRIERE DELLA SERA
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Nicola Catanese (a detsra) col figlio di Borsellino, Manfredi
Il messinese Nicola Catanese caposcorta di Borsellino: “Cambiai turno: salvo per un testa o croce”
Trent’anni e un numero di processi di cui è difficile tenere il conto. Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente, poi l’atto d’accusa contro quello che è stato definito «il depistaggio più grave della storia repubblicana» e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro. Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell’attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte dell’agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla, fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull’eccidio di quella indimenticabile domenica del 19 luglio 1992. Quel giorno in via d’Amelio, insieme con Paolo Borsellino, persero la vita gli agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli.
E si interroga ancora su una delle vicende più intricate e misteriose legate alla mafia siciliana, l’assistente capo messinese Nicola Francesco Catanese, 59 anni, in servizio da 36, che fu uno dei capi scorta di Paolo Borsellino, e scampò alla strage di via d’Amelio perché quel giorno fu di turno la mattina, e si salvò da quella tragica fine che toccò ai colleghi che quel 19 luglio gli diedero il cambio. «Credo molto nel destino e, probabilmente, era scritto che quel giorno non dovevo essere io a morire» ha raccontato qualche anno fa alla Gazzetta de Sud. La figura del giudice Borsellino è rimasta però impressa nei suoi ricordi, e d’altronde non potrebbe essere altrimenti: «Era una persona molto umile, pacata, tranquilla. Sapeva quel che faceva e svolgeva il suo lavoro con professionalità, ma soprattutto ci voleva bene come se fossimo figli suoi, e si metteva sempre a nostra disposizione. Proteggerlo era il nostro lavoro, ma si può dire che lui facesse lo stesso con noi».
«Da qualche giorno – ha raccontato Nicola Catanese in questi giorni al Corriere della Sera – lo vedevo nervoso e più preoccupato del solito, così il lunedì precedente la strage gli chiesi se ci fosse qualcosa che non andava. Borsellino mi rispose “Sono dispiaciuto per voi”. Domandai perché e lui aggiunse: “Perché so che è arrivato l’esplosivo destinato a me, e mi dà angoscia pensare che possano colpire anche voi”.
Alla vigilia della strage, Catanese voleva tornare a casa per festeggiare il compleanno della futura moglie, nata il 20 luglio, e che viveva a Messina come lui. Ma decidere chi dovesse essere di turno quel giorno fu il lancio della monetina, testa o croce. “Uscì croce – spiega Catanese al Corsera – e chiedemmo il cambio ai colleghi del turno pomeridiano, che arrivarono a Villagrazia di Carini e ci sostituirono. Se invece fosse uscito testa avremmo riaccompagnato noi il giudice Borsellino in via D’Amelio, e il cambio lo avremmo fatto dove c’era l’autobomba. Che sarebbe successo? I colleghi arrivati prima avrebbero notato la macchina sospetta o, com’è più probabile, saremmo morti anche noi?”.
Rientrato in caserma a Palermo, Catanese si cambiò e partì per Messina. Arrivato a casa in riva allo Stretto, trovò la madre in lacrime che gli gettò le braccia al collo: «Non capivo perché, e mio padre mi indicò il televisore con le immagini della strage; si sapeva che c’erano dei poliziotti morti e pensavano che io fossi tra loro. Rimasi a lungo immobile davanti alla tv – racconta ancora al Corriere – piansi anch’io. E a Sofia, la donna che poi diventò mia moglie dissi: “Sono vivo grazie a te”. Perché è andata proprio così». GAZZETTA DEL SUD 22.7.2022
«Io, caposcorta di Borsellino all’ultimo cambiai turno: salvo per un testa o croce»
L’agente nicola Catanese a 30 anni dalla strage: devo tutto a mia moglie: stavamo per sposarci, era il suo compleanno e voleva che stessi con lei, così le feci una sorpresa. «Il magistrato mi disse: è arrivato l’esplosivo per me, ma temo più per voi.
A decidere fu il lancio della monetina, testa o croce. «Uscì croce e chiedemmo il cambio ai colleghi del turno pomeridiano, che arrivarono a Villagrazia di Carini e ci sostituirono. Se invece fosse uscito testa avremmo riaccompagnato noi il giudice Borsellino in via D’Amelio, e il cambio lo avremmo fatto dove c’era l’autobomba. Che sarebbe successo? I colleghi arrivati prima avrebbero notato la macchina sospetta o, com’è più probabile, saremmo morti anche noi?». Il vice-sovrintendente di polizia Nicola Catanese — 59 anni, in servizio da 36, uno dei capiscorta di Paolo Borsellino — se lo chiede da trent’anni. Da quel 19 luglio del 1992 in cui salutò il magistrato nella sua casa sul mare per apprendere, qualche ora dopo, che era stato ammazzato insieme a chi avrebbe dovuto proteggerlo. Poteva toccare a lui, la sorte decise che fossero altri.
Il compleanno della moglie e il cambio di turno
Essendo fuori Palermo dal mattino, c’era la possibilità di attivare lo straordinario (guadagnando qualcosa in più su una busta paga non ricca) e spostare il cambio turno al rientro in città; ma si poteva anche chiedere il rimpiazzo all’orario previsto, fuori Comune. Un’alternativa decisa da una coincidenza: il compleanno della futura moglie di Catanese, nata il 20 luglio, che viveva a Messina come lui. «Io tendevo ad accumulare i turni di riposo — ricorda il poliziotto — per avere qualche giorno in più quando tornavo a casa, e quella domenica avevo deciso di non rientrare. Dunque potevamo rimanere con il giudice fino al ritorno a Palermo. Verso fine mattinata, da una cabina telefonica, chiamai Sofia, la mia fidanzata, e le confermai che non sarei andato, ma si dispiacque. Così pensai di farle una sorpresa e di andare, senza dirglielo. Tornai dai colleghi e dissi: io vorrei smontare, voi che dite? Eravamo in sei, il responso fu tre a tre. A quel punto potevo decidere io, ma per non scontentare nessuno scelsi di affidarmi alla monetina: testa restiamo, croce chiediamo il cambio».
Il lancio della monetina e l’autobomba
Croce. Dopo poco, a Villagrazia arrivarono le due pattuglie guidate da Agostino Catalano e Claudio Traina, insieme a Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Antonio Vullo. Tutti saltati in aria con Borsellino tranne Vullo, l’unico superstite della strage di via D’Amelio. Cinque vittime «collaterali» selezionate dal caso, come in una sliding door, di un attentato dato per certo dallo stesso bersaglio. Al punto di preoccuparsi non per sé, ma per i morti che si sarebbe tirato dietro.
«Disse: è arrivato l’esplosivo per me, ma temo per voi»
Come racconta Catanese: «Da qualche giorno lo vedevo nervoso e più preoccupato del solito, così il lunedì precedente la strage gli chiesi se ci fosse qualcosa che non andava. Borsellino mi rispose “Sono dispiaciuto per voi”. Domandai perché e lui aggiunse: “Perché so che è arrivatol’esplosivo destinato a me, e mi dà angoscia pensare che possano colpire anche voi”. Io cercai di tranquillizzarlo, poi ne parlai con gli altri colleghi: eravamo tutti coscienti del rischio che correvamo, e decidemmo di continuare a proteggerlo. Con la paura, certo, ma anche con la convinzione di fare una cosa giusta, tentando di farla nel miglior modo possibile. Anche perché il giudice si faceva volere bene, ci trattava sempre con grande rispetto e riguardo, non potevamo abbandonarlo».
la visita del giudice alla madre
Le sirene quasi sempre accese, la tensione al massimo in ogni spostamento, l’attenzione ai minimi particolari, nella consapevolezza che non tutti i pericoli si potessero evitare: «Il giudice doveva continuare a fare la sua vita. Non sempre, ad esempio, poteva aspettare che arrivasse la seconda macchina di scorta prima di muoversi da casa». Accadde pure alla vigilia della strage, il pomeriggio del 18 luglio. «Mi comunicò che doveva andare dalla madre, era con un’altra persona, probabilmente un medico. Io gli dissi di attendere qualche minuto, il tempo di far arrivare l’altra auto, ma lui aveva premura, volle partire subito, e così fece arrivare la staffetta direttamente in via D’Amelio».
Le troppe auto parcheggiate in via D’Amelio
In quella strada Catanese era già stato altre volte — «di solito la domenica mattina dopo la messa, anche se noi sconsigliavamo le abitudini fisse» — e aveva notato con disappunto le tante auto parcheggiate davanti al portone dove entrava Borsellino: «Segnalai la situazione al dirigente dell’ufficio, si sarebbe dovuta istituire la zona rimozione, ma in quel periodo non era facile per le proteste dei residenti, le concedevano solo per le abitazioni dei potenziali obiettivi». Davanti a casa Borsellino fu messa solo qualche settimana dopo la strage di Capaci.
La 126 carica di tritolo
Grazie al mancato divieto di parcheggio, i mafiosi poterono sistemare la Fiat 126 carica di tritolo davanti al civico 19 di via D’Amelio. Probabilmente la sera di sabato 18 luglio o la mattina di domenica 19: in trent’anni di indagini non si è arrivati a ricostruire nel dettaglio le ultime fasi della preparazione e dell’esecuzione dell’attentato. Quella domenica il magistrato cambiò programma, rinviando la visita alla madre al pomeriggio. «La mia squadra montò alle 7 — racconta Catanese —, e verso le 9 il giudice mi avvisò che saremmo andati nella casa di Villagrazia».
La gita al mare
Borsellino aveva deciso di trascorrere qualche ora al mare con la moglie, il figlio e alcuni amici. «Avvertii la staffetta — continua il caposcorta — aspettammo il suo arrivo e siamo partiti. Verso la tarda mattinata decise di fare un giro in motoscafo, io provai a dire che non era prudente ma lui andò ugualmente. Chiamai la sala operativa per sapere se c’era una motovedetta o un elicottero in zona per controllare, ma mi risposero di no. Dopo nemmeno mezz’ora il giudice tornò a casa. Poi arrivò l’ora di cambio turno, telefonai alla mia fidanzata e tirai la monetina».
«Sono vivo grazie a te»
Rientrato in caserma a Palermo, l’agente scelto Nicola Catanese si liberò dell’equipaggiamento, salì sulla sua macchina e partì per Messina. Senza avvisare nessuno, e senza sapere nulla della strage. Arrivato a casa, aprì la porta e trovò la madre in lacrime che gli gettò le braccia al collo: «Non capivo perché, e mio padre mi indicò il televisore con le immagini della strage; si sapeva che c’erano dei poliziotti morti e pensavano che io fossi tra loro. Rimasi a lungo immobile davanti alla tv, piansi anch’io. E a Sofia, la donna che poi diventò mia moglie dissi: “Sono vivo grazie a te”. Perché è andata proprio così». di Giovanni Bianconi 17.7.2022 CORRIERE DELLA SERA