17.6.1992 ARCHIVIO 🟧 «Falcone e Borsellino in esilio perché erano nel mirino dei clan»

 

 

RETROSCENA RIVELAZIONE DI UN GIUDICE  Era l’estate del 1985 e Palermo attendeva l’evento del secolo. Il maxiprocesso, tanto temuto, contestato, aborrito da schiere di garantisti, prendeva corpo.
Giovanni Falcone e il suo gruppo, cioè, si accingevano a spazzare la facile ironia di quanti ridacchiavano convinti che «quelli del bunker» non ce l’avrebbero fatta e sarebbero rimasti «sepolti dalla mole delle loro stesse carte».
La mafia capiva, invece, il reale pericolo cui andava incontro. Già allora aveva decìso di chiudere i conti con quei giudici «testardi». Voleva uccidere Falcone e Borsellino, la mafia.
In quella torrida estate i boss pensavano ad una strage. Programmavano di sterminare anche i familiari dei due magistrati. Sette anni prima di questo recente, tragico 23 maggio, avevano già condannato a morte i loro nemici giurati. Il piano fu sventato e per mettere al sicuro le «vittime designate» si pensò di trasferire tutti all’Asinara.
Un mese all’isolamento, in carcere con mogli e figli. Con un finale a sorpresa: al ritorno Falcone e Borsellino pagarono di tasca loro il «soggiorno».
La rivelazione è di Antonino Caponnetto che fu consigliere istruttore a Palermo dopo che un’auto bomba disintegrò il giudice Rocco Chinnici. Caponnetto ne prese il posto e, divenuto amico più che «capoufficio» di Falcone, Borsellino e di quel pugno di magistrati in prima linea, inaugurò la stagione dei «pool antimafia».
Non ha mai dimenticato il suo amico Giovanni, il consigliere Caponnetto. Non lo dimenticò quando lasciò Palermo, dopo 4 anni di vita in caserma. Non lo ha dimenticato dopo la strage.
Lo ricordano tutti, ai funerali, il vecchio giudice attaccato alla bara di Giovanni, bagnato di pioggia e lacrime. Spesso si è imposto il silenzio, anche quando il veleno del Palazzo di giustizia intossicava l’ambiente dove si muovevano Falcone e i suoi collaboratori. Ora ha deciso di parlare, Caponnetto.
Ha scritto un lungo articolo che uscirà nel prossimo numero di «Suddovest», un trimestrale di Agrigento. «Ricordo di Giovanni», lo ha titolato: una ricostruzione della loro storia comune, dell’euforia per il lavoro.
Ma anche il racconto dei «torti subiti», degli «attacchi immotivati», dello scientifico smantellamento di quella «esaltante» esperienza palermitana. «Una stagione – scrive Caponnetto – turbata soltanto dal “soggiorno obbligato” cui Giovanni, Paolo e i loro familiari furono costretti presso l’isola dell’Asinara, per sottrarli a grave ed incombente pericolo, segnalatomi tempestivamente da persona di assoluta fiducia e credibilità». «Ed al loro ritorno – continua il magistrato – con grottesca ed inesorabile puntualità lo Stato provvedeva a far pagare ai suoi due fedeli e coraggiosi servitori il conto del “soggiorno obbligato”».
Come andò? Lo ricorda lo stesso Paolo Borsellino. «La notizia che la mafia progettava qualcosa contro di noi e dei nostri familiari – dice – giunse dalla squadra speciale di agenti carcerari che raccoglieva voci ed umori delle celle. Adesso questa squadra non esiste più. Ricordo che fummo presi, io, Giovanni, sua moglie Francesca, mia moglie e i miei tre figli.
In 48 ore ci portarono all’Asinara: in aereo fino ad Alghero, poi a Porto Torres via terra ed infine nell’isola con la motovedetta degli agenti». «Era difficile – prosegue Borsellino – continuare a lavorare.
I telefoni funzionavano male e non avevamo con noi le carte. Giovanni era riuscito a portarsi appresso la parte che riguardava l’omicidio Dalla Chiesa. Per me era più difficile perché, per quello che dovevo fare, avrei dovuto portare all’Asinara circa 800 volumi». Durò circa un mese l’«esilio».
Un mese trascorso a sollecitare il rientro, «perché era più importante lavorare al maxiprocesso che rischiava di essere vanificato dalla scadenza dei termini di custodia cautelare». E la storia del pagamento delle spese di soggiorno? «E’ vero, pagammo – noi e i familiari – diecimila lire al giorno per aver utilizzato la foresteria del carcere, sei stanzette, e in più pagammo i pasti». Come mai? «I magistrati fuori sede – spiega Borsellino hanno diritto alla missione.
Ma quella era una missione particolare. Avremmo dovuto chiedere il rimborso. Non lo facemmo, allora avevamo cose più importanti da fare».
Ricorda nel suo articolo, il giudice Caponnetto, che «Giovanni e Paolo amavano raccontare questo particolare sorridendo e quasi scherzandoci sopra: ma so che quella grossolana fiscalità deirAmministrazione li aveva sorpresi ed amareggiati».
«Ma altre e ben più gravi amarezze attendevano Giovanni».
L’allusione è rivolta alla «velenosa campagna di stampa, ben congegnata, condotta sotto la bandiera del garantismo». E’ un atto d’accusa implacabile, quello di Caponnetto.
Non risparmia politici, come Marco Pannella ed Ombretta Fumagalli Camili, alla quale, tra l’altro, rimprovera di aver definito il maxiprocesso un «contenitore utile soltanto ad appagare le esigenze sceniche di qualche magistrato».
Non risparmia la stampa, il Giornale di Sicilia e il Giornale di Montanelli.
Definisce «forsennati» e «denigratori» alcuni articoli. Un esempio? Lino Iannuzzi «osava scrivere» di Falcone e De Gennaro «sono i maggiori responsabili della débàcle dello Stato di fronte alla mafia…». E non risparmia il palazzo di Giustizia: «Non erano molti quelli che amavano Giovanni».
Caponnetto racconta la «delegittimazione» di Falcone, passo dopo passo: la bocciatura al posto di consigliere istruttore, quella ad Alto commissario, la «guerra» della prima sezione della Cassazione, la negazione del «teorema Buscetta», lo smembramento dei processi di mafia. E la partenza da Palermo.
Decisa, spiega Caponnetto, perché, da procuratore aggiunto, Giovanni «venne a trovarsi in una situazione difficile, nel senso che – a quanto mi confidava – non gli veniva data la possibilità di muoversi e di operare secondo le sue attitudini ed abitudini». «Si sentiva – scrive Caponnetto – come un leone in gabbia». Francesco La Licata