3.5.2023 «DAI NERI ALLA MAFIA, UN FILO ROSSO LEGA LE STRAGI» di Roberto Scarpinato

3.5.2023 «DAI NERI ALLA MAFIA, UN FILO ROSSO LEGA LE STRAGI» di Roberto Scarpinato

Non vi sono a mio parere le condizioni perché venga accertata in sede giudiziaria la verità sui retroscena delle stragi del 1992 e del 1993.
Le responsabilità dei mandanti, dei complici esterni e le motivazioni politiche appaiono destinate a restare nell’ombra per ragioni analoghe a quelle che hanno segnato l’impotenza della giustizia a fare piena luce sui complici eccellenti di tutte le stragi che dal secondo dopoguerra hanno pressoché ininterrottamente insanguinato il nostro Paese.
Ragioni complesse tra le quali assumono un rilievo preminente i sistematici depistaggi posti in essere da esponenti di apparati statali, condannati in vari casi con sentenze definitive (stragi di Milano del 1969, di Peteano del 1972, di Bologna del 1980), segno inequivocabile di interessi politici sovraordinati a quelli degli esecutori materiali e il silenzio dei depositari di segreti scottanti per ragioni di autotutela personale alla luce di una realistica analisi dei rapporti di forza.
A questo proposito è particolarmente significativo che i depistaggi che hanno caratterizzato le indagini sulle stragi del 1992 e del 1993 siano una replica dello stesso protocollo operativo messo in opera da apparati statali per depistare le indagini sulle stragi neofasciste degli anni 70 e 80.
Mi riferisco alla sottrazione di documenti essenziali per individuare mandanti eccellenti (i documenti custoditi nell’abitazione di Salvatore Riina, l’agenda rossa di Paolo Borsellino, alcuni file delle agende elettroniche di Giovanni Falcone), alla creazione di false piste e di falsi collaboratori, proseguita anche dopo il caso eclatante di Vincenzo Scarantino sino a tempi recenti (si pensi al grave tentativo di depistaggio delle indagini su via D’Amelio posto in essere nel 2021 dal collaboratore Maurizio Avola), all’eliminazione di esecutori e di soggetti depositari di segreti scottanti, prima che potessero collaborare con la magistratura (Antonino Gioè, Luigi Ilardo).
Anche il silenzio di boss stragisti condannati all’ergastolo è una replica dei silenzi degli esecutori delle stragi neofasciste: non una libera scelta, ma il frutto di un calcolo calibrato dei pro e dei contro. Infine anche nelle indagini sulle stragi neofasciste, è accaduto che, così come per le stragi di mafia, siano stati assassinati personaggi che si temeva potessero rivelare informazioni preziose per risalire ai livelli superiori.
Oltre che dai depistaggi, il sigillo del potere e la compartecipazione di menti raffinatissime alla strategia stragista del 1992-1993 diretta a condizionare e orientare con il linguaggio delle bombe l’evoluzione politica del Paese in quella delicatissima fase storica nella quale la Prima Repubblica si stava sfarinando, è attestata da una molteplicità convergente di risultanze probatorie che non possono essere riassunte in questo breve spazio: dai comunicati della Falange armata che hanno accompagnato tutte le tappe cruciali della sequenza stragista, alla partecipazione di soggetti esterni alla fase ideativa ed esecutiva delle stragi, attestata da vari collaboratori di giustizia ritenuti pienamente attendibili (un solo esempio, la dichiarazione di Gaspare Spatuzza sul soggetto esterno che sovrintese alle operazioni di carico dell’esplosivo nella Fiat 126 per la strage di via D’Amelio).
Alla luce di quanto sopra esiste dunque nello stragismo dagli anni 70 sino agli anni 90 una straordinaria e inquietante continuità delle prassi operative dirette a impedire l’emersione del coinvolgimento della criminalità del potere nelle stragi. Continuità che sembra  collegare gli eventi del 1992/1993 a quelli precedenti.
Una esemplificazione paradigmatica di tale continuità emerge dalla sentenza della Corte di Assise di Bologna depositata il 5 aprile 2023, che ha condannato Paolo Bellini come esecutore della strage del 2 agosto 1980, unitamente a Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini. Paolo Bellini, uomo cerniera tra servizi segreti, destra eversiva, ’ndrangheta e Cosa Nostra, è lo stesso che nel 1991 e nel 1992 è presente in Sicilia in tutte le fasi cruciali della campagna stragista ed è in costante rapporto con Antonino Gioè, mafioso esecutore della strage di Capaci al quale suggerisce di innalzare il livello dello scontro con attentati a beni artistici nazionali, la stessa strategia messa in cantiere negli anni 70 da alcune frange della destra eversiva.
Nella stessa sentenza viene lumeggiata la responsabilità come mandanti della strage del 2 agosto 1980, di Licio Gelli vertice della P2 e di Umberto Federico D’Amato, direttore dell’Ufficio Affari riservati del ministero degli Interni, uomo Cia in Italia, capo filiera e mentore di vari vertici dei servizi segreti e delle forze di polizia sino agli anni 90.
Molteplici risultanze processuali attestano che Gelli, oltre a essere stato un riciclatore dei capitali della mafia, è stato promotore proprio negli anni 1991 e 1992 di un movimento politico nel quale confluirono esponenti delle mafie coinvolti nella esecuzione delle stragi, esponenti della destra eversiva e della massoneria.
Nel settembre del 1992 dichiarò in una intervista che occorreva un colpo di Stato, nel febbraio del 1993 giocò un ruolo determinante per costringere alle dimissioni il ministro della Giustizia Claudio Martelli, nell’estate del 1993 definì le stragi “espressione dello stato di esasperazione della popolazione oppressa da una classe politica corrotta”. Infine in vari momenti cruciali della sequenza stragista, emerge l’operatività di personaggi dei servizi. Si consideri, per citare solo uno degli esempi più noti e processualmente accertati, la presenza di uomini dei servizi mai identificati in via D’Amelio immediatamente dopo l’esplosione, incuranti dei morti e dei feriti e interessati solo a recuperare la borsa di Paolo Borsellino con l’agenda rossa.
Un altro filo rosso che fa emergere i collegamenti tra neofascisti, servizi segreti e mafia, è stato evidenziato nella motivazione della sentenza della Corte di Assise di Bologna depositata il 7 gennaio 2021 con la quale è stato condannato all’ergastolo Gilberto Cavallini.
La Corte ha dedicato un intero capitolo di circa cento pagine alla rivisitazione dell’omicidio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana assassinato a Palermo il 6 gennaio 1980, ritenendo fondato l’esito delle indagini condotte da Giovanni Falcone che aveva individuato gli esecutori in Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, gli stessi soggetti che pochi mesi dopo eseguirono la strage di Bologna.
In sostanza una pluralità convergente di fatti attesta che le stragi del 1992 e del 1993 non sono state solo stragi di mafia, così come quelle degli anni 70 e 80 non sono state solo stragi di isolati esponenti neofascisti, ma declinazioni le une e le altre di una lunga guerra sporca condotta nel tempo dai settori più reazionari del potere nazionale per orientare il processo politico, delegando l’uso della violenza a vari bracci armati tra cui destra eversiva e mafie. Questa è stata la cornice probatoria dell’indagine c.d. “Sistemi criminali” da me condotta con altri colleghi alla Procura di Palermo, le cui risultanze sono espressamente richiamate nella motivazione della sentenza della Corte di Assise di Reggio Calabria che il 24.7.2020 ha condannato all’ergastolo Giuseppe Graviano e Rocco Filippone nel processo c.d. “’ndrangheta stragista”.
Tutto questo e molto altro è rimasto ampiamente fuori dal c.d. processo Trattativa Stato-mafia, instaurato dopo che avevo lasciato la Procura di Palermo per assumere l’incarico di Procuratore generale di Caltanissetta. Quel processo ha avuto il merito di portare alla luce, vincendo reticenze, resistenze e mille ostacoli, una verità rimasta per lungo tempo occulta, e cioè che mentre una parte dello Stato era impegnata a fermare le stragi seguendo la via maestra di individuare i colpevoli neutralizzandoli con l’arresto, un’altra seguiva la via obliqua di traccheggiare segretamente con alcuni vertici mafiosi, tentando di conseguire lo stesso risultato venendo a patti con la componente meno bellicista.
La Corte di Cassazione ha assolto Mori, De Donno e Subranni con la formula “per non avere commesso il fatto” e non con la formula “il fatto non sussiste”.
Ha riconosciuto dunque che sono state acquisite le prove della consumazione del fatto reato contestato previsto dall’art. 338 c.p.
Ha dichiarato tuttavia prescritto il reato per i mafiosi derubricandolo a mero tentativo. Occorrerà attendere le motivazioni per comprendere le argomentazioni della Corte.
Sembra di capire che i mafiosi hanno effettivamente tentato di usare violenza e minaccia nei confronti dello Stato, e abbiano testardamente eseguito una strage dietro l’altra dal 1992 al 1993 nella pia illusione che qualcuno all’interno dello Stato prima o poi prendesse in considerazione le minacce o, peggio, che si siano lasciati turlupinare da qualcuno che ha fatto loro credere che le minacce fossero fruttuose.
In sostanza stragi eseguite da visionari disancorati dal principio di realtà o, peggio, da vittime di una sorta di circonvenzione di incapaci.
Resta inoltre da capire la spiegazione che la Cassazione darà alle condotte dei carabinieri imputati che le Corti di Assise di primo e di secondo grado di Palermo hanno concordemente ritenuto provate, e che quella di Appello ha definito poste in essere in “totale spregio del loro ufficio e dei loro compiti istituzionali”: perché ingannarono la Procura di Palermo consentendo ai mafiosi subito dopo la cattura di Riina di fare sparire tutti i documenti custoditi nella casa di quest’ultimo? Perché omisero di catturare Bernardo Provenzano consentendogli di continuare a mafiare e uccidere per anni, tanto da fare scrivere alla Corte di Assise di Appello “si resta davvero basiti di fronte all’abnormità delle anomalie, molteplici e reiterate”? Perché omisero qualsiasi attività di indagine su Paolo Bellini pur essendo stati informati che incontrava gli esecutori della strage di Capaci e potendo dunque impedire le ulteriori stragi? Perché Mori arrivò al punto di distruggere l’appunto scritto che gli era stato consegnato sulle attività svolte da Bellini? Sarebbe interessante inoltre capire i motivi dell’accanimento di Riina contro il pm Nino Di Matteo di cui auspicava l’uccisione, come risulta dalle intercettazioni delle sue conversazioni in carcere. Invito recepito da Matteo Messina Denaro che, come dichiarato dal collaboratore Vito Galatolo, ordinò anni dopo il suo omicidio con una autobomba, dichiarandosi disponibile a fornire un artificiere la cui identità però doveva restare ignota a tutti i mafiosi.
Se al di là della qualificazione giuridica delle condotte e delle responsabilità penali di coloro che furono a vario titolo coinvolti in tale vicenda – il merito di quel processo è stato di ricostruire doverosamente una parte oscura del periodo stragista, il limite, dal mio punto di vista, è stato di essersi spinto su un terreno improprio, e cioè quello di tentare di individuare le motivazioni complessive del piano stragista del 1992/93, senza avere i mezzi probatori per affrontare una tema così ampio e complesso, rientrante peraltro nella competenza di altre autorità giudiziarie. Tema che per i motivi sopra accennati, travalica di molto la specifica vicenda della c.d. trattativa.
Da qui la conclusione, a mio parere erronea, che le stragi erano state ideate solo dai vertici della mafia ed eseguite esclusivamente per interessi interni dell’organizzazione, e cioè per aprire e condurre la trattativa.
O peggio, lo sconfinamento sulle motivazioni della strage di via D’Amelio, che la sentenza d’appello ha ritenuto di potere ricostruire senza spendere un solo rigo sulle vicende della sottrazione dell’agenda rossa e della creazione del falso collaboratore Scarantino, effettuata a distanza di anni dall’esecuzione di quella strage.
Per questo motivo in fase di appello, la Procura Generale di Palermo di cui nel frattempo avevo assunto la direzione, ha circoscritto il tema di prova esclusivamente alle condotte integranti il reato contestato e la responsabilità degli imputati, senza sconfinamenti sugli altri temi sopra accennati.
Quanto sin qui esposto fa comprendere perché la sentenza della Corte di Cassazione che ha definito il processo sulla c.d. trattativa non costituisca affatto un punto di arrivo, né una tappa miliare, come tanti hanno commentato, essendosi occupata di una vicenda circoscritta, inidonea a fare luce sulle causali della strategia stragista e sulle sue complesse finalità politiche.
La partita delle stragi resta dunque ancora aperta e, purtroppo, vari segnali inducono a ritenere che resterà irrisolta.
La giustizia è praticabile infatti solo nei limiti e negli spazi non occupati dalla prevaricazione dei rapporti di forza, e alla luce della lezione della storia, lo stragismo italiano non appare riducibile a vicenda criminale giustiziabile, ma essere piuttosto questione inestricabilmente intrecciata a quella della lotta del potere, della democrazia e dello Stato.
(da “Il Fatto Quotidiano” del 3 maggio 2023)