Prove nascoste, rivelazioni illegittime, intercettazioni imbarazzanti: è la rumorosa caduta dei magistrati «integerrimi» che oggi ricevono censure e condanne. Ma molti, nonostante questo, restano al loro posto. Perché la legge non sempre è uguale per tutti
«Intercettateci tutti!». Vabbè, proprio tutti no. In certi casi, la macchinosa pratica diventa superflua. Come si potrebbe, per esempio, dubitare della congenita rettitudine dei campionissimi dell’antimafia? La polemica esortazione è il grido di battaglia dei Cinque stelle. I probi si sollevano contro la legge che vuole limitare gli ascolti.
Ma lo stentoreo invito va rimodulato se al cellulare confabula Roberto Scarpinato, già paladino della lotta alle cosche e adesso sommo fustigatore a Palazzo Madama per conto del Movimento. «Il governo così favorisce la criminalità!» assalta il senatore. Bisogna ascoltare, ascoltare, ascoltare. Poi, però, capita l’imprevisto.
L’ex procuratore generale di Palermo siede nella Commissione parlamentare antimafia, a cui dà lustro e sostanza. E dal nuovo pulpito, chiede di secretare le sue conversazioni con l’ex pm Gioacchino Natoli, indagato lo scorso luglio a Caltanissetta per favoreggiamento alla mafia nell’inchiesta sulla strage di via d’Amelio. Insomma, l’accorata incitazione stavolta va adeguata alla spiacevole circostanza: intercettateli tutti, ecco.
Siamo alle solite. E sono condensate nella profezia che spesso trafigge gli appassionati colpevolisti. È l’indimenticabile lampo del socialista Pietro Nenni: a fare il puro, motteggiava, c’è sempre qualcuno più puro che ti epura. Ma non c’è solo il giovanile Scarpinato, con la sua criniera argentea che ricorda quella di Beppe Grillo, progenitore dei manettari. Dal parlamento alle procure siciliane, passando per il palazzo di Giustizia milanese, sono tempi cupi per alcune leggende del giustizialismo tricolore. Cadono gli integerrimi. Comincia la stagione dei moralisti moralizzati. Riavvolgiamo allora le bobine, sperando di non indispettire il senatore scelto da Giuseppe Conte per tornare alle scoppiettanti origini. Tutti in galera, dunque. Previe interminabili intercettazioni, ovviamente. Natoli, il 23 gennaio 2024, viene ascoltato per la prima volta dalla commissione parlamentare antimafia.
Tre mesi prima era già stato sentito Fabio Trizzino, genero di Paolo Borsellino e avvocato dei figli del magistrato ucciso in via d’Amelio.
Aveva contestato a Natoli l’archiviazione nel 1992 dell’indagine sui fratelli Buscemi, imprenditori mafiosi vicini a Totò Riina, poi soci dell’imprenditore Raul Gardini.
L’ex faceva parte del pool di Falcone e Borsellino, come Scarpinato. In vista delle audizioni, rivela La Verità, i due si sarebbero accordati su domande e risposte.
Solo che Natoli, già all’epoca, è intercettato. Così, i loro colloqui finiscono nelle carte dell’inchiesta nissena.
Assieme a Natoli, ex membro del Csm, è indagato anche Giuseppe Pignatone: ex procuratore capo a Palermo, Reggio Calabria e Roma. Dal 2019, dopo un’inarrivabile carriera nella magistratura, è presidente del Tribunale Vaticano.
Torniamo a Scarpinato, però: l’inquisitore che tentò di inchiodare Giulio Andreotti, assieme a Natoli tra l’altro. Resta agli atti il resoconto stenografico della seconda audizione, il 1° febbraio 2024. Natoli non fa mistero del suo rapporto con il senatore grillino, «carissimo amico e collega». E il carissimo Roberto, dopo aver pazientemente aspettato, gli rivolge «alcune domande molto sintetiche». Tutto concordato? Falsissimo, replica Scarpinato. Che chiede comunque di secretare i colloqui. Seguono vivaci polemiche. «È la doppia morale dei senza morale» rinfaccia Matteo Renzi. «Cosa ha da nascondere Scarpinato?» rincara il centro destra.
La presidente della commissione, Chiara Colosimo, propone dunque di escludere dai lavori i parlamentari con conflitti d’interesse. Il riferimento non è solo a Scarpinato, ma pure a un altro primatista della legalità arruolato da Conte: il deputato Federico Cafiero De Raho, vice presidente della commissione bicamerale ed ex capo della Direzione nazionale antimafia. In quegli uffici lavorava Pasquale Striano: il tenente accusato dalla procura di Perugia di aver creato una centrale illegale di dossieraggio, scaricando notizie riservate su politici e imprenditori. A chi servivano queste informazioni? Possibile che nessuno se ne sia accorto? Anche la commissione promette di investigare. Solo che il suo vicepresidente ha guidato proprio la Dna, dove avrebbe imperversato Striano. Altro formidabile cortocircuito, quindi.
A Brescia, intanto, giunge a compimento l’indagine sul procuratore aggiunto uscente di Milano, Fabio De Pasquale. Trent’anni sulla breccia inquisitrice. Un mito assoluto per i giacobini tricolore. Tra tutti, riecheggia lo scalpo più leggendario. È l’unico che è riuscito a far condannare Silvio Berlusconi, per la frode fiscale sui diritti televisivi. Ora tocca a lui: condannato a otto mesi per aver nascosto alle difese alcune prove che scagionavano gli imputati del processo Eni. Dimostravano che il principale teste dell’accusa era un calunniatore interessato, mosso da ansia di vendetta verso la multinazionale. La sentenza viene preceduta, lo scorso maggio, da una pirotecnica delibera del Consiglio superiore della magistratura. Decide di non confermare De Pasquale nell’incarico di aggiunto. La motivazione è sbalorditiva: «Risulta dimostrata l’assenza dei prerequisiti della imparzialità e dell’equilibrio, avendo reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti, nonché senza senso della misura e moderazione». E lo dicono adesso? Dopo un trentennio di pluridecorato servizio, rutilanti inchieste e tintinnanti ammanettate? Comunque, niente paura: nonostante il «modus operandi consolidato» del pm, De Pasqualecontinua a fustigare. Così come il magistrato condannato assieme a lui: Sergio Spadaro, ora pm della procura europea. La scorsa settimana ordina dunque perquisizioni alla Regione Lombardia, sospettando gare d’appalto truccate.
Assonanza dopo assonanza, restiamo a Brescia. Negli stessi giorni, un altro togato archivia un procedimento nato da una querela di Andrea Padalino: ex giudice di Mani Pulite, poi pm a Torino. Indagato e poi assolto per supposti favori, aveva deciso di querelare i colleghi inquisitori. Ma non ci fu nessun complotto ai suoi danni, conclude adesso il tribunale di Brescia. Che trasmette però le carte alla procura di Milano per valutare l’ultimo episodio: riguarda Armando Spataro, ex capo della procura torinese, che fu iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di «rifiuto in atti di ufficio». Nel vecchio esposto, infatti, Padalino denunciava: sarebbero state occultate due relazioni, «la prova decisiva e insormontabile» della sua innocenza. Per la procura bresciana, non c’è stato alcun illecito. Ma le verifiche ora proseguono a Milano. Intanto, a luglio 2024, Padalino è stato punito dal Csm, nonostante l’assoluzione: sospeso dalle funzioni per diciotto mesi e trasferito dal tribunale civile di Vercelli a quello dell’Aquila. Con tutto il rispetto, però, il tonfo più rumoroso resta quello di Piercamillo Davigo detto «Piercavillo»: vessillifero di Mani Pulite, indomito capo corrente, consigliere del Csm, simpatizzante grillino, opinionista del Fatto Quotidiano. Una leggenda vivente: schiavettoni, querele, indici puntati. Uno smodato giacobinismo seguito dalla definitiva nemesi. Lo scorso marzo Piercavillo è condannato in appello per rivelazione di segreto d’ufficio, a un anno e tre mesi. Secondo i giudici di Brescia, nella primavera 2020, ha divulgato i verbali di Piero Amara sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria».
I giudici catechizzavano l’ex magistrato già nella sentenza di primo grado: «Smarrimento di postura istituzionale». Piercavillo, comunque, ricorre in Cassazione. Dimentico di un suo folgorante insegnamento professato in tv: «L’errore italiano, secondo me, è stato proprio quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. No, non aspettiamo le sentenze. Se io invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non sono costretto ad aspettare la Cassazione. Smetto subito d’invitarlo a cena». Chiaramente, questo vale solo per i poveri cristi. E soprattutto per i cinghialoni che affollano i partiti.
La caccia a quei mangiapane a tradimento è il pallino investigativo diventata immutabile teoria: «I politici che delinquono vanno mandati a casa, senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». A differenza dei flagellatori condannati: quelli restino al loro posto, per carità. Ma la frase-cult, che ha formato legioni di manettari, rimane l’ancor più audace variante sul tema: «Non esistono politici innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove». Solo che poi tanti ex magistrati si buttano in politica. Vale pure in quel caso il teorema del supremo fustigatore fustigato? Ovviamente no. Nessuno s’azzardi a scalfire la loro buonissima fede. Né tantomeno a intercettarli. Anche Conte commenta sgomento: «Non provate vergogna quando organizzate queste ridicole batterie per attaccare i campioni dell’antimafia?». Come dar torto al Torquemada di Volturara Appula? Un paladino è per sempre.