ARCHIVIO 🟧 Strage di Via D’Amelio, il racconto di GIOVANNI LA PERNA, il poliziotto che quel giorno era lì in servizio

 

Quel giorno io feci una promessa ad Emanuela Loi: sarei diventato uno di loro e così è stato. “Anche io oggi faccio la scorta.”

 

Quel poliziotto si chiama Giovanni La Perna e, ancora oggi, quando parla di quel giorno i suoi occhi diventano lucidi e la sua mente vola a quella domenica pomeriggio in cui anche lui e altri colleghi avrebbero potuto perdere la vita. “Noi facevamo con le volanti assistenza entrata e uscita, cioè il capo scorta ci avvisava e noi andavamo sul posto in Via D’Amelio, a fare dei sopralluoghi accurati e se c’era qualcosa che non ci convinceva, non facevamo venire la scorta subito, prima facevamo un controllo approfondito e dopo chiamavamo la scorta che a questo punto poteva fermarsi.
Quel giorno, non abbiamo mai capito perché, questo non fu fatto, non ci chiamarono. Arrivammo solo quando era già tutto accaduto e abbiamo visto qualcosa che è difficile descrivere a parole. Ma nessuno mai ci hai aiutati a superare quello che abbiamo dovuto affrontare. Lo abbiamo superato solo grazie alle nostre famiglie.”

Cosa ti ricordi di quel giorno? “Che apparentemente era iniziato come tanti altri. Avevamo montato servizio alle 13.00 ma solo verso le 16:58 alla radio una volante della Questura di Palermo  comunica che “si è sentito un botto terrificante”. Ma la sala operativa risponde che non sa niente.
Noi eravamo al Foro Italico a circa 3 Km dal luogo della strage. Avevamo fra l’altro salvato una persona che stava tentando di buttarsi a mare. Eravamo contenti per questo.
Dopo pochi attimi un’altra volante dice di vedere del fumo e infine il terzo e ultimo messaggio che arriva e dice: “Emergenza. Attentato in via D’Amelio, una strage… emergenza…”. La sala operativa quindi ci dice di convergere tutti sul posto e di dare informazioni più dettagliate”

Che cosa hai visto quando sei arrivato lì? “Quello che un poliziotto non dovrebbe mai vedere, soprattutto dopo nemmeno un anno di servizio.
Trovai Beirut, anche se non ci sono mai stato, ho subito pensato alle immagini che avevo visto in televisione. Tutto era devastato. Due palazzi sventrati.
C’erano detriti ovunque e polvere e puzza di carne bruciata. Passavamo su ciò che restava del corpo dei nostri colleghi, anche se non avevamo idea che fossero loro.
C’era un uomo con una pistola in mano che venne caricato su una macchina. Solo dopo ho capito che si trattava di un collega. Sapevamo solo che il nostro compito di poliziotti era quello di prestare soccorso e così abbiamo fatto.
Qualcuno stava spirando e ti guardava per chiedere aiuto. Chiamammo subito i soccorsi ma questi non arrivavano, o comunque, quei minuti che passavano sembravano ore.
Non hai tempo per pensare. Una collega grida “sono tutti morti”.
Nel frattempo, arrivò un signore con un bambino in braccio che chiedeva aiuto. Era suo figlio, era ferito. Non ci pensai un attimo, avvisai il capo pattuglia che mi stavo portando nel più vicino ospedale e che sarei tornato subito.
Quel bambino, ho scoperto solo dopo qualche anno, era il nipote di un mio amico modicano.  Nel frattempo, ritornai sul posto.
Alzammo una macchina e trovammo il corpo di una donna, irriconoscibile. Solo dopo ho capito che si trattava di Emanuela Loi.
Noi eravamo molto amici. Avevamo la stessa età. Avevamo prestato servizio insieme. Scherzavamo sui nostri dialetti.
Lei era sarda ed io ero siciliano. C’eravamo salutati solo qualche ora prima. Ricordo ancora la sua immagine che scompariva dallo specchietto retrovisore mentre mi allontanavo con la macchina.
Sarebbe stata l’ultima volta quella in cui l’avrei vista. Poi iniziò un via vai di persone, soprattutto giudici, che guardando i cadaveri piangevano come bambini. Mi colpì, in particolare un signore anziano che iniziò a piangere a dirotto. Era il giudice Caponnetto.
In quel momento mi resi conto veramente di ciò che era accaduto. Era morto il giudice Borsellino ed i colleghi. Ebbi un attimo di smarrimento, mi chiesi chi me lo aveva fatto fare ad arruolarmi. Ricordo un carissimo collega che mi incitò, dicendomi che non potevo crollare proprio adesso.
Mi asciugai le lacrime e continuai a prestare soccorso a qualsiasi persona. Non solo, in quella giornata feci più arresti che in tutta la mia vita.
Purtroppo, mentre a terra i colleghi morivano avevamo a che fare con gli sciacalli che rubavano tutto quello che trovavano.
Solo verso le 22, dopo cinque ore di duro lavoro, un funzionario ci chiamò per farci fare una pausa. Poi verso mezzanotte quando la sala operativa richiamò la volante arrivata per prima sul posto, ci dissero di fare rientro.
Presi l’auto assegnatami e con tutto l’equipaggio rientrammo. Durante il tragitto nessuno parlò, il pensiero era rivolto ai colleghi morti ed alle loro famiglie.
Arrivati in caserma posai la macchina in garage, era sporca di sangue. Poi feci una doccia per togliermi quella puzza, ma non servì a niente. Non chiusi occhio per tutta la notte. In realtà non dormì per molte notti.”

A proposito di quella puzza che non riuscivi a toglierti di dosso, molti anni dopo hai deciso di mettere nero su bianco questi ricordi racchiudendoli in un libricino dal titolo che mi ha colpito molto “A 20 anni dalla strage l’odore che non mi lascia”. Ancora oggi senti quell’odore? “Quell’odore di carne bruciata, dei veicoli bruciati per molti anni non riuscivo a toglierlo di dosso. E ancora oggi quando devo intervenire sul luogo di un incendio e prestare soccorso mi tornano in mente quegli odori.”

Dopo 30 anni il ricordo di quel giorno è ancora vivo? “E’ ancora vivo soprattutto perché tutti noi che abbiamo vissuto quel giorno attendiamo ancora la verità. Attendiamo di seppellire i nostri colleghi perché crediamo che fin quando non capiranno perché sono morti non avranno pace e nemmeno noi avremo pace. Noi vogliamo conoscere la verità.
Quel giorno io feci una promessa ad Emanuela che sarei diventato uno di loro e così è stato. Anche io oggi faccio la scorta.”

In un certo senso anche tu hai fatto la scorta a Borsellino… “Dopo la Strage di Capaci, intensificarono i controlli nell’abitazione di Borsellino. In realtà noi non lo sapevamo che si trattava di casa sua.  Ci fu ordinato di metterci all’ingresso dell’androne di uno stabile e di non muoverci da lì finché non fosse arrivato il cambio a mezzanotte.
D’un tratto vidi una persona in pantofole uscire dall’ascensore, avvicinarsi a me e chiedermi cosa stavamo facendo lì. Era proprio lui, il giudice Paolo Borsellino. Gli spiegai che ci era stato ordinato quel servizio e che poteva avere altre delucidazioni dal capo pattuglia, che confermò le stesse cose. Il giudice, però, non ne voleva sapere e voleva che ce ne andassimo. Rientrò nell’ascensore dopo averci salutato con una stretta di mano, ringraziandoci per quello che stavamo facendo ma, ribadì che non aveva bisogno di questo servizio.
Così ho conosciuto Paolo Borsellino. Lo avevo visto solo in televisione accanto al suo grande amico Falcone. Poi lo rividi un altro paio di volte proprio in Via D’Amelio quando arrivava con la sua scorta per andare a trovare la madre”.

Che anni sono stati quelli che hai vissuto a Palermo? “Sono stato in servizio a Palermo dal 1991 al 1994. Sicuramente sapevamo di avere un compito difficile quello di garantire la legalità ad una città flagellata dagli omicidi di mafia, omicidi eccellenti, uccisioni di colleghi, tutti consapevoli che il nostro piccolo contributo era utile a fare rispettare la legge. Ma ciò che ricordo con chiarezza fu quello che non accadde prima delle stragi.”

In che senso ‘non accadde’? “Diciamo che dopo l’assassinio di Salvo Lima avvenuto il 12 marzo del 1992 ovvero esattamente due mesi prima della strage di Capaci, a Palermo non successe più niente. Non ci furono omicidi, furti, insomma non ci furono fatti rilevanti da un punto di vista della criminalità.
Passavamo le giornate senza fare niente, pensate che eravamo circa quarantacinque agenti in giro per Palermo ma non accadeva nulla. Eppure, gli anziani del luogo sapevano che in realtà quel periodo di calma era solo apparente, da lì a poco, dicevano, sarebbe successo qualcosa di eclatante.
La mafia, infatti, si stava organizzando e così fu ed il 23 maggio accadde la Strage di Capaci. E anche in questo caso gli anziani del posto dicevano che non sarebbe finita li.
Ed infatti dopo altri mesi di calma apparente, avvenne quella di Via D’Amelio.
Potete immaginare quanto fui felice quando arrivò il giorno del mio trasferimento da Palermo. Anche se oggi rimpiango quei tre anni passati lì, in mezzo a tanta brava gente, perché Palermo non è mafia, Palermo è una splendida città, con splendida gente, e con i colleghi che ho lasciato siamo rimasti molto più che amici, quasi fratelli. Uno fra questi è Antonio Vullo, l’unico agente sopravvissuto alla strage”.

Per molto tempo non sei riuscito a parlare di quel giorno perché? “Dopo giorni difficili, in cui avevamo anche dovuto assistere i familiari delle vittime, portare loro conforto anche se noi stessi avremmo avuto bisogno di essere aiutati e ascoltati, quando arrivai a Modica avevo solo bisogno di dormire e stare da solo.
Appena vidi la mia ragazza che oggi è mia moglie l’abbracciai ma non riuscì a piangere. Mi diressi verso la mia stanza e rimasi chiuso lì. Solo dopo molto tempo ho iniziato a parlare di ciò che un giovane poliziotto come me aveva visto e provato quel triste 19 Luglio.
So che molti dei miei colleghi ancora oggi non ne parlano. Sono trascorsi 30 anni da allora, sono padre di due splendide fanciulle, ma ogni volta che giunge questo triste anniversario, ho la morte nel cuore, non riesco a non piangere. E soprattutto oggi, che sono uno di loro, prego sempre il Signore di poter fare rientro a casa, dalla mia famiglia, ma non ho paura perché come diceva il giudice Borsellino “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.
Io sono un poliziotto e ho scelto di difendere questo Stato e questa Bandiera a cui ho giurato Fedeltà e soprattutto ho promesso a me stesso che non solo non avrei dimenticato i miei colleghi ma avrei fatto in modo che anche negli altri, attraverso il mio ricordo, restasse viva la loro memoria”.

 


Falcone: La Perna, tutti sapevano che dopo c’era Borsellino

“Quel 23 maggio del 1992 ero a riposo, lavoravo alla Volante e spesso facevo la staffetta al giudice Giovanni Falcone.

Lui era abitudinario, portava sempre l’auto.

Quel giorno a Capaci ho visto quell’auto: era spaventosa”. Lo ha raccontato, a Isernia, Giovanni La Perna, dirigente sindacale della Polizia di Stato in servizio a Palermo negli ’90. La Perna è intervenuto anche in via d’Amelio subito dopo la deflagrazione.
“Sapevano tutti che dopo Falcone c’era Borsellino.
Sia nel mese di maggio che nel mese di luglio del ’92, a Palermo non accadeva nulla: né rapina, né furti, nulla. Noi della Volante non facevamo interventi e quando c’era silenzio a Palermo significava che stava per succedere qualcosa. Di Capaci ho saputo dalla Tivù, mentre il 19 luglio ero in servizio. Quel pomeriggio vidi Emanuela Loi, ci salutammo e fu l’ultima volta.
Alle 16,58 sentimmo uno scoppio e vendevamo del fuoco sotto al Monte Pellegrino. Poi arriva la nota: via d’Amelio, strage, tutti morti. Arrivo e vedo Beirut. Vedo una donna, era Emanuela, mi inginocchio e piango. L’avevo vista due ore prima”. Non ho dormito per 3 giorni, la mia divisa aveva odore che non sopportavo. Per 20 anni non ho mai raccontato quello che ho visto, ma ho rotto il silenzio perché i giovani devono sapere la verità”.    ANSA 21.5.2022

 


“Siamo arrivati in via D’Amelio quando ancora non c’era nessuno, neppure i vigili del fuoco.

C’erano fumo, fiamme, palazzine sventrate, persone che correvano, che chiedevano aiuto. Abbiamo trovato il collega, l’unico che si è salvato, con la pistola in mano che ripeteva “I Colleghi tutti morti”. Gli abbiamo tolto la pistola, lo abbiamo caricato su una macchina e portato in ospedale.
Ero stato tante volte in quella strada e quel giorno non avevo capito che era il posto dove viveva la madre di Borsellino.
Quando abbiamo trovato il corpo di Emanuela Loi abbiamo pensavo che era una signora affacciata che con la forza di radiazione era caduta”.
Inizia così il racconto Giovanni La Perna, sindacalista Siulp, autore di “A vent’anni dalla Strage…L’odore che non mi lascia”.

“Non si capiva nulla, solo che bisognava dare soccorso. Mi sono trovato con un signore che aveva un ragazzo di circa sette-otto anni in braccio che ci diceva “Datemi aiuto”. L’ho caricato in macchina e l’ho portato all’ospedale accanto la Favorita, villa Sofia, e ho dato l’emergenza.
Sono subito tornato sul posto e ho cominciato a chiedermi cosa stesse succedendo. Sono arrivate tante persone, parecchie personalità che atterravano a poca distanza, in un luogo lì vicino adibito ad autosalone dal quale avevamo fatto rimuovere le auto per permettere l’atterraggio degli elicotteri.
Cercavamo di tenere a bada la folla.
Ricordo un collega che adesso è alla squadra mobile di Palermo che mi diceva: “Giovanni, non ti impressionare, vai avanti!”
Non riuscivo a capire. Poi ad un certo punto cominciati a focalizzare le varie personalità: Ayala, Caponnetto, un grande giudice, un uomo di settant’anni che ho visto appoggiarsi al suo capo scorta e piangere abbondantemente.
Quando ho iniziato a capire chi fossero tali personalità ho pensato subito ad Emanuela”.
Giovanni aveva conosciuto Emanuela Loi appena arrivato a Palermo, il 28 luglio 1991. In un primo momento fu mandato a fare la vigilanza alla fabbrica di Libero Grassi, dopo il suo assassinio, lo mandarono a fare vigilanza presso il reparto speciale dell’Ospedale Civico di Palermo dove erano ricoverati tutti i grossi pregiudicati. Durante una di queste vigilanze conobbe Emanuela Loi: “Entrambi vigilavamo un boss mafioso di cui avevo sentito il nome in televisione. La collega aveva circa un anno e mezzo di servizio, io solo alcuni mesi. Ci vedevamo prima del servizio, scherzavamo sui nostri rispettivi dialetti, sardo e siciliano. Sardi e siciliani ci chiamiamo cugini per via del mare che ci circonda”.

“Quando sapevamo che la personalità, sia che si trattasse di Falcone che di Borsellino, doveva andare in un determinato luogo, ci portavamo sul posto, controllavamo se c’era qualcosa di sospetto, sempre in contatto con la Quarta Savona, la sigla radio delle scorte di Palermo, e, se tutto era apposto, la facevamo entrare. Stessa cosa facevamo in uscita bloccando le macchine per liberare la via. Come riportato nel film “Paolo Borsellino” di Gianluca Maria Tavarelli, che ricostruisce la vicenda in maniera veritiera, con la consulenza dei familiari del giudice Borsellino, sia gli agenti delle scorte che noi delle volanti ci siamo lamentati più volte delle strade posteggiate in via Mariano D’Amelio”.
Normale routine, normale servizio, in una Palermo calma, tranquilla, una città che non doveva destare sospetti, pronta ad eruttare come un vulcano nella notte.
“Il primo campanello d’allarme che allora non è stato capito è stato l’assassinio dell’onorevole Salvo Lima. Quel giorno ero di servizio. Era il 12 marzo 1992 e subito si disse “È stato ucciso un politico, la mafia ha alzato il tiro”, ma nulla di più”.
A partire dalla fine di aprile, primi di maggio, a Palermo non accadeva più nulla, né reati minori, né omicidi eccellenti, una sorta di limbo all’interno del quale tutto rimaneva sospeso all’interno di una bolla silenziosa e quieta.
Solo i poliziotti più anziani raccomandavano alle nuove leve di stare attenti: “Occhio che sta per succedere qualcosa” dicevano a mezzo tono.

“Ricordo che il 23 maggio ero a casa, a Modica, ero alle prese con i preparativi del matrimonio. Quando nel pomeriggio accendo la televisione inizio a vedere cosa era successo. Aspettavo che il telefono di casa squillasse, che qualcuno mi chiamasse perché dovevo rientrare a Palermo, perché erano morti tre miei colleghi che, anche se non eravamo in confidenza, comunque conoscevo. A mensa spesso incontravo Antonio Montinaro e ci salutavamo.
Quando sono rientrato in servizio mi sono recato a Capaci. Ho visto la voragine.
Ho visto la macchina dei colleghi che era saltata totalmente in aria, l’auto del giudice Falcone.
La mafia ha raggiunto comunque il suo obiettivo, ma quella che è saltata in aria è stata la macchina dei colleghi, quella in cui viaggiava il giudice Falcone è andata a sbattere ad una velocità elevata contro il muro di calcestruzzo. Diverse volte avevo fatto da staffetta a Falcone. Con lui si camminava in maniera veloce, anche in città, per raggiungere l’obiettivo e non far capire che strada si prendesse, anche se lui era un abitudinario”.

“Una sera di caldo afoso chiamano la mia macchina e ci dicono di portarci in questura. Ci danno l’ordine di andare in via Cilea 97, presso l’abitazione del giudice Borsellino perché si doveva iniziare a fare la vigilanza. Ci danno l’ordine di indossare il giubbotto antiproiettile e il casco super ubott e di tenere il mitra in pugno. Mi piazzo sotto l’abitazione del giudice, un collega alle mie spalle e il capopattuglia rimane in macchina. Ad un certo punto, dall’ottavo piano, vedo un signore che si affaccia e inizia a farmi dei gesti. Riconosco la fisionomia del giudice, ma dall’ottavo piano non riesco a capire cosa mi dice. Lo vedo rientrare, dopo pochi istanti scende l’ascensore e appare il giudice Borsellino. “Comandi Signor Giudice” mi pronto a dire. Indossava un paio di pantaloni scuri, una maglietta e le ciabatte. Mi chiede “Agente, cosa fa qua?” Gli dico che ci hanno detto di fare la vigilanza. Lui ci dice che dobbiamo andare via, insiste più volte, “Non vi voglio qui. Adesso chiamo in Questura e mi informo” ci ripete, nonostante noi insistiamo che abbiamo ordine di permanere sotto casa sua. Mi saluta, mi stringe la mano ringraziandomi per quello che stavamo facendo e torna su in casa. Non avevo mai visto il Giudice. Fu l’ultima volta che lo vidi vivo”.
Poi quella domenica, iniziata come le altre, una domenica di caldo afoso, di quelle in cui si progetta un tuffo a Mondello, un po’ di svago, un po’ di refrigerio, una domenica normale nella quale Giovanni incontra i colleghi per andare a pranzare in mensa prima di uscire in servizio.
“Eravamo 12 macchine. Iniziamo il nostro giro. Ad un certo punto la Centrale ci chiama e ci dice di portarci alla Caserma Lungaro per prelevare il pranzo per un soggetto che era stato arrestato nella notte per oltraggio e resistenza ed era ancora nelle camere di sicurezza della Questura.
Mentre aspettiamo il sacchetto con il pranzo vedo arrivare una blindata. Si fermano i colleghi e scende Emanuela Loi. Un saluto veloce, uno scambio di simpatiche battute come sempre. Lei mi dice che stava andando a prendere la “Personalità”. “Manu, mi raccomando, occhio vivo” le rispondo. Lei ricambia. Nel frattempo, arrivato il sacchetto, metto in moto la 33, guardo nello specchietto e vedo Emanuela alza la mano in segno di saluto”.
Inizia così il giro di controllo, nella completa calma. Intorno alle 16,15 la volante viene chiamata dalla centrale operativa con l’ordine di recarsi presso il Foro Italico perché c’era un tentativo di suicidio. L’adrenalina sale.
Giovanni e i colleghi si preparano subito ad intervenire: “Volevamo fare qualcosa, dare il nostro contributo: eravamo ragazzi, quelli che volevamo sconfiggere la mafia”.
Si comincia dai piccoli-grandi gesti, quella domenica era stata la volta di un tentativo di suicidio, ma da qualche parte si deve pur cominciare.
“Convinciamo la suicida a desistere dall’insano gesto e, mentre stiamo per recarci verso l’Ospedale Civico, arriva una comunicazione radio che ci avvisa di un’esplosione e ci chiede se ne sapevamo qualcosa. Erano le 16,58. Da questo momento in poi comincia un susseguirsi di trasmissioni radio a distanza di tre secondi ciascuno. Una volante comunica di vedere del fumo dalla zona della Fiera del Mediterraneo. Subito dopo un’altra comunicazione: “Attenzione, c’è stata una strage in via Autonomia Siciliana. Sono tutti morti”. La sala operativa comunica a tutte le volanti di lasciare i propri territori e di convergere verso quei luoghi e vedere cosa fosse accaduto.
A quel punto non si è capito più nulla. Noi siamo partiti non tenendo conto del codice della strada, né dei semafori, di nulla: dovevamo arrivare lì il più presto possibile per capire cosa fosse successo.
Arrivati sui luoghi Palermo ci appare come Beirut: c’è fumo, ci sono persone che escono dalle case. Non riesci a capire cosa sta succedendo, non avresti neppure potuto immaginarlo.
Dopo aver soccorso il ragazzino tornai sul posto e cercai di arginare la folla che voleva entrare per vedere ciò che era accaduto.
C’erano già i colleghi della scientifica. C’erano i cadaveri. Un collega che sale al terzo piano del palazzo scivola e cadendo viene infilzato da un albero. C’erano pezzi di carne dappertutto.
C’era una donna, a terra, priva di gambe e di braccia, bruciata. Non si riusciva a capire chi fosse in volto”.
Calde lacrime invadono i grandi occhi celesti di un uomo fatto, un padre di famiglia, lasciando intravedere l’orrore di quel ragazzo che ha visto la mafia in faccia.

“Cerchiamo di dare soccorso. Arrivano le prime personalità. Io, come tutti i colleghi giovani, eravamo lì a guardare, a scrutare per cercare di capire. Borsellino, la mamma di Borsellino. Così mi viene in mente che quella donna che avevo visto qualche attimo fa in terra, denudata, subito coperta con un lenzuolo bianco, era proprio Emanuela Loi”.
Una collega, a distanza di anni, gli ricorda un’immagine che Giovanni aveva cancellato dalla propria mente per attenuare tutto il dolore che ancora oggi ricordando quegli eventi si riaffaccia con forza: Giovanni era inginocchiato, a terra, vicino al corpo di Emanuela. Piangeva. Appena vide la collega del suo corso venirgli incontro cercò di spostarla, di non farle vedere quel corpo, di proteggerla da un dolore tanto grande.
“Ricordo che c’era un uomo con una lamiera conficcata nel collo che ti guardava con lo sguardo di chi chiede aiuto, di chi non vuole morire.
Nel frattempo c’è stato uno sciacallaggio incredibile: alcune persone furono trovare in case che non erano le loro”.
I ricordi sono sempre vivi e si rincorrono sul piano immaginario di un cielo azzurro, velato di nuvole.
“Andammo avanti così tutta la giornata. Dovevo smontare alle 19, andai in caserma a mezzanotte. Non c’erano più macchine. La mia era piena del sangue del ragazzino che avevo accompagnato in ospedale. Rientrato iniziai a sentire quell’odore acre che mi ritorna ancora in mente quando c’è una macchina bruciata. È un misto tra il bruciare della lamiera, del colore, della benzina e della carne umana insieme. È un tipo di odore che non dimenticherò mai. Me lo sentivo addosso, anche dopo una lunga doccia, anche nei giorni successivi. Mi misi a letto ma non riuscii a dormire. Guardavo le immagini in tv di ciò che era accaduto per cercare di capire perché era stato fatto tutto questo”.
Alle 6 del mattino del 20 luglio Giovanni e alcuni colleghi uscirono presto, alle 6 per dare il cambio agli altri. La sua macchina fu una delle prime ad uscire. Destinazione: obitorio.
“Fui mandato all’obitorio per l’assistenza ai familiari. Cosa dovevi assistere? Mi chiedo ancora oggi.
C’erano anziani, giovani, c’erano tutti. Ricordo che un signore anziano appena ci vide ci disse: “Uno di quelli che sono lì dentro è mio nipote. Aveva la divisa come la vostra e ora non c’è più!”
Ti mettevi vicino a quelle persone cercando di dare loro coraggio. Forse ci voleva chi dava coraggio a noi! A 24 anni che coraggio puoi dare!”
Sono riflessioni che si pone, mentre con lo sguardo che vaga ritrova, in quel cassetto della memoria dove sono rinchiuse anche quelle terribili giornate che hanno fatto la storia d’Italia, un particolare, un’espressione, una voce, un volto.
“Fu fatta l’ispezione cadaverica. Oltre all’assistenza ai familiari dovevamo fare assistenza ai funzionari di Polizia Giudiziaria che vi partecipavano.

 

VIA D’AMELIO – L’attentato e le indagini