PAOLO BORSELLINO / A 33 ANNI DALLA STRAGE, RIECCO LA PISTA “MAFIA-APPALTI”

La pista Mafia-Appalti quale vero movente per la strage di via D’Amelio in cui saltarono per aria Paolo Borsellino e la sua scorta ormai 33 anni fa torna improvvisamente a riemergere: botto (o tric trac?) finale di Capodanno.

Succede dopo che in tutto questo tempo quella pista è stata regolarmente affossata, con un depistaggio scientifico, da una sfilza di magistrati, da politici omertosi e, peggio, collusi, dalle istituzioni che si sono rivelate sorde, cieche e mute.

Totalmente solitaria, invece, la battaglia delle rare mosche bianche che hanno battuto con costanza incrollabile quella pista, l’unica in grado di decodificare le due stragi che hanno cambiato l’Italia, Capaci e via D’Amelio. Dopo quel tritolo, infatti, la Giustizia è morta e sepolta. Ma partiamo dalle news ed in particolare da quanto adesso sostiene (dopo anni di silenzio) un generale dei carabinieri ora in pensione e all’epoca comandante della quinta sezione del Nucleo operativo CC di Palermo.

ED ECCO A VOI LA STRADA

Si chiama Domenico Strada e pare che a marzo 2024 abbia inviato alla ‘Commissione parlamentare Antimafia’ un lungo e articolato dossier di 77 pagine (più 8 allegati) che ha come oggetto-base proprio la pista ‘Mafia-Appalti’, un settore che allora conosceva non poco per essersi a lungo occupato di infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici, da sempre nel mirino di cosche & clan. Il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, ‘la Verità’, ha fatto la sua scoperta sotto l’albero di Natale, ma l’uscita del pezzo non ha sortito alcun effetto: nessuno ne ha scritto né parlato, silenziata e subito finita sotto naftalina. Lo stesso giornale, comunque, mostra di non crederci poi tanto: visto che nemmeno sul suo sito si è potuto leggere niente, e non fa neanche capolino in rete (tranne una sola eccezione, come vedremo poi).

Veniamo alla sostanza e ricostruiamo, per sommi capi, cosa viene ‘rivelato’ nella tardivissima nota del generale (meglio ‘tardi’ che mai, comunque). Così titola ‘la Verità’: “Ecco l’indagine sugli appalti costata la vita a Borsellino e alla sua scorta.” E subito dopo, tanto per chiarire: “Un generale dei carabinieri, che ha inviato una nota all’Antimafia, ritiene che Cosa nostra abbia ammazzato il magistrato per non fargli scoprire l’impresa scelta da Totò Riina per gestire senza intermediari le commesse. Secondo Brusca, la Reale costruzioni era controllata dal capo dei capi. Il giorno prima dell’assassinio la toga ritirò un fascicolo delicato”.

Borsellino, secondo Strada, sarebbe stato molto vicino a grosse scoperte investigative. Sabato 18 luglio 1992, ossia il giorno prima della strage, prese infatti dell’archivio del Tribunale di Palermo il fascicolo sull’omicidio dell’imprenditore Luigi Ranieri, avvenuto quattro anni prima nella stessa città.

Commenta il quotidiano firmato da Belpietro. “Mafia-appalti, (il dossier) realizzato dai carabinieri del ROS e visionato anche dal magistrato eroe quando era procuratore di Marsala, un possibile movente. Un’ipotesi investigativa che molti magistrati non approfondirono, per non dire di peggio. Eppure per anni molti di loro hanno negato di aver sottovalutato quel filone e hanno sostenuto che il giudice scomparso si era occupato solo marginalmente dell’indagine. Come dire che le cosche non potevano aver deciso di uccidere per un’inchiesta di cui non era il titolare”.

E infine: “Oggi Strada è convinto che la vera causa della morte di Borsellino non sia da ricercare nel dossier Mafia-Appalti, ma in quello che ne stava derivando. E’ molto probabile che Riina abbia temuto che Borsellino, avendo manifestato interesse investigativo per gli appalti, potesse individuare la sua creatura, ovvero la Reale costruzioni”.

Per farvi meglio un’idea di tutta la story, e soprattutto della nuova ‘Strada’ verso la soluzione di uno dei più giganteschi buchi neri della povera Italia ridotta in macerie, vi indichiamo il link per leggere il pezzo messo in rete dal piccolo sito ‘Progetto San Francesco’ il 29 dicembre 2024, Ecco l’indagine sugli appalti costata la vita a Borsellino e alla sua scorta 

UNA STRADA VECCHIA DI 30 ANNI

Non poco contraddittoria la ricostruzione del generale, come sibilline, in certi passaggi, le frasi del quotidiano. Per dirne solo una: possibile mai, in soldoni, ridurre la gigantesca pista ‘Mafia-appalti’ alla sola vicenda della Reale costruzioni? Una pagliuzza rispetto alla trave.

Sorge spontanea la domanda delle cento pistole, come un tempo avrebbe chiosato il mitico Sandro Peternostro. Possibile che per trent’anni e passa quella pista sia stata regolarmente, volutamente, scientificamente ignorata, oscurata, calpestata da tutti e solo a sprazzi si sia fatta luce, spesso in modo maldestro, come succede ora con la ritrovata memoria del generale? Proprio come è successo con il giallo dell’omicidio di Aldo Moro, dove di tanto in tanto spunta un politico (l’ultimo caso, Giuliano Amato) o un generale che scopre, tardi e malissimo, l’acqua calda. Ma torniamo a bomba – è proprio il caso di dire – al tritolo di via D’Amelio.

In rapidissima carrellata ecco chi ha avuto il coraggio, in perfetta solitudine, di accendere i riflettori. Tra le rare penne, quelle di Damiano Aliprandi e diPiero Sansonetti, il primo sulle colonne de ‘Il Dubbio’, il secondo sia come direttore dello stesso Dubbio, poi al’ timone de ‘Il Riformista’ e infine de ‘l’Unita’.

Nel deserto più totale fanno capolino alcuni familiari: in prima fila le figlie Fiammetta e Lucia Borsellino, nonché l’avvocato Fabio Trizzino, che è anche marito di Lucia. Sue le invettive in Antimafia e in aula, le più recenti al tribunale di Caltanissetta, dove si celebra l’ultimo atto sul ‘Depistaggio’ di Stato.

Primo fra tutti, in ordine cronologico e, soprattutto, morale, il j’accuse di Ferdinando Imposimato. E’ successo in seno alla Commissione Antimafia(arieccoci) nel 1996, all’epoca presieduta dalla forzista Tiziana Parenti. La relazione di minoranza venne in pratica scritta e firmata da Imposimato, il quale aveva ricostruito per filo e per segno le prime maxi infiltrazioni negli appalti pubblici, documentando carte alla mano le connection tra mafie, imprese e politici di riferimento. Una bomba da novanta: che faceva tesoro dell’ultima, ‘esplosiva’ inchiesta portata avanti da Falcone e condivisa, negli ultimi mesi, con Borsellino, i quali perciò “Dovevano Morire”.

L’indagine dei due magistrati aveva preso le mosse proprio da quel maxi dossier da quasi 900 pagine elaborato dal ROSdei carabinieri di Palermo. E contemporaneamente suffragata da un’altra corposa inchiesta condotta dallo SCO della Polizia (l’omologo del Raggruppamento CC). Una montagna di carte che coinvolgevano direttamente e indirettamente un gruppo di aziende del centro-nord (in prima fila il gruppo Ferruzzi e, al Sud, l’ICLAmolto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino) in combutta con i clan (e le imprese) di Cosa nostra e, soprattutto, con i vertici della Politica.

Da far saltare in aria i Palazzi: cento volte più di ‘Mani Pulite’ che, all’opposto, si è rivelata una manovra eterodiretta dalla CIA e che ha trovato il suo terminale nel pool milanese e, soprattutto, nel suo ‘portabandiera’ Antonio Di Pietro. Il quale, prima di lasciare la toga, aveva provveduto accuratamente a disinnescare la bomba della super inchiesta TAV, ossia sull’Alta Velocità. Come vedete, il cerchio si chiude e ‘tutto si tiene’.

LA SUPER PISTA DELL’ALTA VELOCITA’

Infatti, sapete quale era il piatto forte nel dossier Rosa ‘Mafia-Appalti’? E, quindi, dell’ultima inchiesta esplosiva condotta da Falcone e Borsellino, sempre ignorata dai colleghi, dalla politica collusa e dai media cloroformizzati e asserviti?

Proprio l’Alta Velocità, il famigerato TAV (Treno ad alta velocità), partito da una modesta base da 28 mila miliardi di vecchie lire, nel giro di pochi anni lievitato a 150 mila, a fine anni ’90 capace di sfondare il tetto dei 200 mila fino a raggiungere vette incalcolabili (e il business continua ancora, alla faccia delle ferrovie secondarie ormai ridotte in polvere e delle nostre finanze al collasso: ma ci sono soldi per TAV II, il ‘Ponte sullo Stretto’, ghiottoneria per le mafie).

E sapete, ancora, come ha continuato a documentare la terrificante connection Politica-Mafia-Affari il sempre più coraggioso Imposimato, per anni colonna della ‘Voce’ con le sue indimenticabili controinchieste? Firmando il profetico “Corruzione ad Alta Velocità”, scritto nel 1999 a quattro mani con un giornalista del calibro di Sandro Provvisionato, altra firma che con decine e decine di reportage ha collaborato con la nostra testata, curando la rubrica ‘Misteri d’Italia’ (stesso nome del mitico sito da lui fondato).

Il volume non solo dettaglia cifre, date, nomi, protagonisti del business del secolo studiato ad hoc per fare in modo che vagonate da decine e decine di miliardi di lire prima e di euro poi potessero finire nelle mani di capi corrente dei partiti (DC of course in pole position), dei capibastone delle mafie e delle imprese, le ‘porta-appalti’ come le definì proprio quel Di Pietro che, conoscendo dall’interno i meccanismi della corruzione e dei riciclaggi, ha insabbiato la maxi inchiesta TAV. Ma ha descritto minuziosamente proprio il sistema di depistaggio architettato dal super pm di Mani Pulite che è riuscito, prima di lasciare la toga, in un’acrobatica impresa: ossia quella di avocare a sé il filone romano d’indagine, con la scusa che alla procura di Milano lui poteva contare su un asso nella manica. Pierfrancesco Pacini Battaglia, l’uomo a un passo da Dio’, secondo la sua definizione, il faccendiere-banchiere italo svizzero che “tutto conosceva della madre di tutte le tangenti”, ENIMONT.

E sapete chi difese Pacini Battaglia davanti al suo ‘morbido’ inquisitore don Tonino, che trasformò per l’occasione il suo pugno di ferro in un guanto di velluto? Un suo grande amico (di Tonino), l’avvocato avellinese Giuseppe Lucibello sbarcato a Milano un anno prima con una valigia di cartone e subito baciato dalla fortuna per il patrocinio del super faccendiere. Ai confini della realtà: ma ben dentro i confini – quelli della Mani Pulitemeneghina – che ha solo finto di fare la rivoluzione (sociale, economica e morale) ma in realtà ha fatto un massacro rimasto totalmente impunito: perché nessuna di quelle toghe, per i crimini & i reati commessi, è mai finita sotto processo, figurarsi in gattabuia!

IL PIU’ GROSSO DEPISTAGGIO DI STATO

Passiamo al secondo atto della tragica sceneggiata: perché recitata sulle macerie di Capaci e via D’Amelio, col sangue di Falcone e Borsellino, e alla faccia di tutti gli italiani. Con le nostre farsesche autorità che ogni anno, ritualmente, come Robot Mattarella (tale si è plasticamente dimostrato anche nel risibile discorso di fine anno, come neanche la più sgarrupata intelligenzina artificiale si sarebbe mai sognata di fare), impegnate in un vomitevole copione.

Si tratta della super inchiesta su via D’Amelio e della sfilza di processi Borsellino (fino al quater) mandati in sceneggiata, appunto.

Non ci dilunghiamo più di tanto perché ne abbiamo scritto molteplici volte, in mezzo alla più totale disinformazione, alla valanga di fake news pubblicate dai media di regime per taroccare i fatti & depistare sempre meglio.

Costruita apposta per depistare, appunto, la prima inchiesta, come hanno ormai accertato le successive indagini, dopo anni e anni. Un’inchiesta affidate nelle mani di un pm, Anna Maria Palma, cui poi si sono affiancati altri due inquirenti di ‘prestigio’, come Carmelo Petralia e, poi, il mitico Nino De Matteo. I quali non hanno subìto alcuna conseguenza né penale, né civile, né amministrativa per il loro comportamento che definire ‘indegno’ è un eufemismo.
La Voce è stata, una dozzina d’anni fa, querelata dalla Palma, rei noi di aver leso la sua maestà. Solo per aver scritto delle indagini taroccate che hanno costruito dal niente il castello inquisitorio in grado di portare in galera per anni una dozzina di persone innocenti, basandosi sulle confessioni di un pentito, Vincenzo Scarantino, costruito a tavolino. E per aver delineato il profilo del marito, Adelfio Elio Cardinale, un illustre radiologo palermitano, sottosegretario alla Salute nel governo Monti, DC doc, all’epoca numero uno del ‘CERISDI’, un misterioso centro studi (legato ai Servizi) acquartierato nel famigerato ‘Castel Utveggio’ che domina Palermo e guarda caso affaccia proprio su via D’Amelio: una pura coincidenza.

Bene, cosa pensate sia successo per la più che dirty Scarantino story? Crocefisso solo l’allora capo della Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, passato a miglior vita anni prima (quindi incapace di difendersi e soprattutto indicare i ‘mandanti’): prosciolti da ogni accusa i due magistrati cardine, Palma e Petralia. Quindi mai finiti davanti a un tribunale per rispondere di quel po’ che hanno combinato.

E tutto finito in gloria, definitivamente, a meno d’un miracolo degno del miglior San Gennaro, in quel di Caltanissetta, dove sono rimasti solo i pesci piccoli a rispondere: vale a dire i poliziotti che facevano parte del team guidato da La Barbera.

Cin cin. Giustizia è sfatta.

Ma ora è la volta delle rivelazioni del generale Strada. Subito ‘archiviate’ via media. Anche loro.

P.S. Vi ricordiamo, come al solito, che per ritrovare articoli e inchieste messi in rete in questi anni dalla Voce sul giallo e sui personaggi di cui avete appena leggo, basta andare alla casella CERCA e digitarne nomi e cognomi, ad esempio PAOLO BORSELLINO, GIOVANNI FALCONE, ANTONIO DI PIETRO, FERDINANDO IMPOSINATO, ANNA MARIA PALMA e così via per trovarne a bizzeffe.

1 Gennaio 2025 di Andrea Cinquegrani LA VOCE DELLE VOCI