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28 luglio 1988 – Tratto dall’intervento del dottor FALCONE al convegno promosso da Mondo Operaio
3 ottobre 1991 – La Repubblica – Intervista di Mario Pirani al dottor Giovanni Falcone
Sono state le influenze mafiose che hanno indotto l’apparato dello Stato a ripiegare sui vecchi metodi, da sempre inefficaci? Le gelosie corporative dei magistrati? Le titubanze di una classe politica, condizionata da connivenze difficili da sciogliere? Una congiura sotterranea? “Nessun complotto, nessun complotto. La verità è più semplice, più impalpabile, più desolante. Quando nell’ 84, grazie alle rivelazioni di Buscetta, furono emessi una serie di mandati, che sfociarono poi nel maxi- processo contro numerosi imputati, e caddero dai loro piedistalli personaggi eccellenti come l’ex sindaco Ciancimino e i potenti fratelli Salvo, il Time dedicò una copertina alla Sicilia, intitolata Break-down on the mafia (Colpo vincente sulla mafia). Ci stavamo muovendo, finalmente, con metodi in qualche modo comparabili a quelli messi in atto negli Stati Uniti contro Cosa nostra. Purtroppo, per una serie di ragioni, quello che avrebbe dovuto essere il primo colpo si è limitato ad essere l’unico”.
Nessun complotto contro i pool Lei accenna ad una “serie di ragioni”, ma le lascia nel vago. Vorrebbe essere più esplicito? “Come le ho detto non si è trattato affatto di un complotto, ma, oserei dire, di una crisi di rigetto dalle molteplici origini. Non bisogna dimenticare che allora, ed anche dopo, vi era chi sosteneva la non esistenza della mafia come organizzazione complessa, coi suoi vertici, i suoi capi, i suoi gregari, un suo proprio dinamismo e strategia; e soprattutto una struttura molto forte e duratura. La visione riduttiva di una mafia essenzialmente molecolare, che proliferava grazie ad un clima diffuso ma contro cui vi era poco da fare, se non cercare, con poco successo, di perseguire di volta in volta i singoli delitti, cozzava con la filosofia del pool e dei maxi processi. Questa aveva anche fatto cadere anche tanti luoghi comuni, come l’ impossibilità di utilizzare i pentiti o di arrivare ad individuare i colpevoli nei delitti di mafia. Venne, così, alimentata la preoccupazione che, se si seguitava con la strategia dei pool, si sarebbe lasciato via libera a una furia repressiva la quale, per combattere la mafia, avrebbe anche finito per travolgere ordinamenti stabiliti e tradizionali”.
Forse avevate anche creato eccessive aspettative? “Indubbiamente. Giocò anche contro di noi il timore di alcuni settori di partito che le inchieste si prestassero a speculazioni politiche. Si scatenò, quindi, una controffensiva di proporzioni gigantesche e alcune giuste critiche furono stravolte in accuse distruttive: il pool venne definito un centro di potere, le difficoltà naturali dei maxi processi vennero enfatizzate, gli errori commessi da altri magistrati in situazioni diverse (vedi caso Tortora) vennero strumentalizzate contro di noi, attacchi feroci vennero mossi al protagonismo dei giudici e, persino, all’ uso delle scorte. Tutto questo era espressione di una reazione naturale e spontanea, senza alcun bisogno di ricorrere a dietrologie, di un sistema basato su equilibri pietrificati. La stessa polemica di Sciascia nei confronti dei professionisti dell’antimafia venne letta come un attacco al pool”.
Ma non può certo negare che oltre che con Orlando e i gesuiti, Sciascia ce l’avesse con il giudice Borsellino, che era il suo più stretto collaboratore ? “Non lo nego affatto, ma ho sempre considerato Sciascia un grande siciliano, profondamente onesto. La sua critica ai criteri di nomina di Borsellino venne da altri enfatizzata proprio per colpire una innovazione rivoluzionaria, essenziale per condurre davvero la lotta alla mafia: quella di privilegiare nelle nomine di prima linea il criterio di professionalità sulle aspettative automatiche di carriera, basate sull’ età. Ora Borsellino era stato nominato procuratore a Marsala in base al merito e non all’ età. Sciascia osservò che i vecchi criteri andavano osservati, almeno fino a quando non ne fossero sanciti dei nuovi”.
Aveva torto? “Forse non aveva colto il valore esemplare di quella nomina. Certo, è evidente che di fronte ad un meccanismo automatico, la scelta professionale comporta il rischio di raccomandazioni e d’ influenze anche politiche. Queste, peraltro, hanno altri mezzi per farsi sentire e non si possono esorcizzare i rischi facendosi scudo con l’ anzianità. Se così fosse non si capisce cosa ci stia a fare il Csm: basterebbe un impiegato addetto all’ aggiornamento del registro anagrafico dei magistrati. Comunque è un grave handicap per la giustizia che certi posti decisivi vengano assegnati come premio e non in base alle esigenze del servizio. Del resto la storia della mia esperienza siciliana parla da sola: la nomina di Meli a consigliere istruttore di Palermo nell’ ‘ 87 segnò la prima battuta d’ arresto; poi seguì nell’ ‘ 88 l’inchiesta del Csm su Borsellino e la vanificazione del pool. Quel nucleo di forze venne disperso. Subentrò la stanchezza e la delusione. Il terreno conquistato contro la mafia fu via via eroso. Frattanto, nel corso di queste laceranti vicende, i politici venivano affermando che il nuovo codice di procedura avrebbe messo a posto tutto”.
E così non è stato? “La questione centrale, che non riguarda solo la criminalità organizzata, sta nel trarre tutte le conseguenze sul piano dell’ordinamento giudiziario che il passaggio dal processo inquisitorio al processo accusatorio comporta.
Se questa riforma dell’ ordinamento non sopravviene rapidamente il nuovo processo è destinato a fallire.
Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa.
Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice.
Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti.
Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri.
Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’ Esecutivo.
È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del Pm con questioni istituzionali totalmente distinte.
Gli esiti dei processi, a cominciare da quelli di mafia, celebrati col nuovo rito, senza una riforma dell’ ordinamento, sono peraltro sotto gli occhi di tutti”.
L’investigazione deve fare un grande salto. Se non sbaglio si vuole un processo all’ americana (come si vede nei film), ma con una magistratura assolutamente all’ italiana. Nei processi di mafia il nuovo codice non ha, dunque, risolto nulla? “Si può dire che siamo in una delicatissima fase di transizione in cui si contrappongono due concezioni, quelle che già si scontrarono sui pool, tra chi sostiene che ogni magistrato può essere titolare di ogni tipo d’ indagine e chi, come il sottoscritto, reputa illusorio per questa via arrivare ad indagini con risultati processuali apprezzabili nei confronti di una criminalità organizzata che opera su scala nazionale e internazionale. Cosa facciamo? Seguitiamo a contrapporgli il procuratore di Patti o di S. Maria Capua Vetere, sol perché la polverizzazione individuale delle competenze della magistratura impedirebbe il suo condizionamento politico? E come rendere compatibile il coordinamento delle indagini tra una polizia con struttura sempre più centralizzata e una magistratura polverizzata nel territorio? Come arrivare a una strategia d’ intervento su larga scala? Un passo in avanti mi sembra la recente proposta di concentrare le inchieste sulla criminalità organizzata dalle 159 procure presso i tribunali alle 26 procure presso la Corti d’ Appello. Occorrerebbe ora orientarsi alla creazione di una struttura di procuratori esclusivamente dedicati a questo tipo d’ indagini e processi”.
Resta il fatto che i colpevoli non vengono scoperti o che i processi seguitino a concludersi con scarcerazioni e assoluzioni. Tutta colpa del nuovo codice? “È un codice di altissima civiltà giuridica, ma, per renderlo pienamente operativo, non può essere lasciato monco delle indispensabili strutture materiali e di una riforma dell’ ordinamento della magistratura, come ho cercato di spiegare. Del resto ce lo conferma proprio l’ esperienza processuale. Il vecchio codice privilegiava il reato associativo, che, d’ altra parte, era difficile da appurare quando si arrivava al dunque. Col nuovo codice bisogna provare soprattutto i delitti specifici, di cui l’ associazione mafiosa costituisce il quadro di riferimento (già col maxi-processo ci eravamo attenuti alla ricerca dei delitti specifici su cui incardinare le accuse). Ma come arrivarci senza un grande salto di qualità e di organizzazione della capacità investigativa, atta ad individuare e provare i fatti specifici (quindi micro- spie, infiltrati, agenti sotto copertura, pentiti, sofisticate indagini patrimoniali e quant’ altro)?”
L’utilizzazione dei pentiti è stata sovente disattesa dalle corti di seconda e terza istanza. Lei reputa ancora possibile la loro utilizzazione? “Su questo punto ci sono state enormi polemiche che non toccano l’essenza del pentitismo come elemento probatorio. Sbaglia chi confonde i collaboratori di giustizia, gente che ammette i propri reati e chiama la correità di altri, con i delatori o gli informatori. È , comunque, materia di grande delicatezza su cui si gioca la professionalità del magistrato che deve vagliare nel concreto l’ attendibilità delle dichiarazioni. Queste possono rivelarsi utilissime o creare problemi d’ inquinamento probatorio di dimensioni incredibili. Sta al libero convincimento del giudice accertarne la fondatezza e cercare i riscontri: ad esempio Buscetta diceva il vero quando mi dichiarò che Ciancimino era nelle mani dei corleonesi, ma per il mandato di cattura il necessario riscontro mi venne dalle indagini patrimoniali sull’ accusato. Ciò detto ho fiducia nel programma di protezione dei pentiti che sta entrando in vigore anche da noi, speriamo con risultati utili”.
È necessaria una specie di Fbi anche in Italia? “Vorrei fare una premessa di carattere più generale sul rapporto magistratura-polizia: ebbene io credo che sia profondamente sbagliata la concezione, che si evince anche dal nuovo codice, secondo cui il Pm è il capo effettivo, addirittura operativo, della polizia giudiziaria. Si è confuso l’ organo investigativo con l’ organo dell’ esercizio dell’ azione penale. Il controllo di un Pm che indica alla polizia i modelli giuridici validi e ne controlla l’ applicazione è una norma di civiltà, ma il timore che una polizia giudiziaria troppo indipendente possa ledere l’ indipendenza della magistratura si è tradotto nella pericolosa e velleitaria utopia di un Pm, magari di prima nomina, superpoliziotto per diritto. È questa una delle cause della attuale situazione catastrofica, in cui la polizia giudiziaria è indotta a deresponsabilizzarsi, attende istruzioni e si appiattisce sull’ inadeguatezza del Pm, divenuto punto di riferimento di ogni possibile errore”. Una sola agenzia addestrata e agguerrita Negli Stati Uniti una struttura a disposizione del procuratore nelle inchieste contro “Cosa nostra” è la cosiddetta “Strike force”. Il gruppo interforze di cui si parla come di una futura Fbi italiana è qualcosa di analogo? “Non direi: la forza d’ urto americana è basata su una collaborazione interdisciplinare tra uomini delle varie agenzie (Fbi, antidroga, delitti fiscali, dogane, polizia territoriale). Da noi abbiamo tre organismi – Carabinieri, Ps e GdF – con competenze promiscue e indifferenziate. Si dice che questo esalta una concorrenza positiva ma non è vero niente: non serve a nessuno che tutti e tre lavorino sulle stesse indagini e questo provoca solo duplicazioni e intralci reciproci. Occorre puntare ad una agenzia investigativa, come c’ è in tutti i paesi, un corpo bene addestrato e professionalmente agguerrito. Forse, però, sarebbe opportuno procedere per gradini intermedi, sulla base di una idea guida, iniziando con un coordinamento dei vertici e andando avanti con progressive modifiche per arrivare ad un corpo unico d’ investigatori”.
La trasmissione di Samarcanda-Costanzo ha lasciato, tra gli altri, qualche strascico polemico circa la sua posizione. Non le sembra il caso di chiarirla meglio? “Posso solo dire che nutro sempre il timore che, a volte, il parlare di mafia, confondendo cose giuste e accuse generiche, possa concludersi con una glorificazione involontaria di Cosa nostra, la quale accresce la sua influenza quando le parole non sono seguite da fatti; allo stesso tempo, però, sono convinto che una delle maggiori spinte e aiuti alla lotta alla mafia venga dalla consapevolezza del fenomeno, dal coinvolgimento della opinione pubblica, dalle denunce della stampa e della Tv. Dunque, più se ne parla e meglio è: a condizione che si abbia consapevolezza della responsabilità delle cose che si dicono“.
MARZO 1989 – La lezione inedita del dottor Giovanni Falcone sulla separazione delle carriere
1ª PARTE
2ª PARTE
Giovanni Falcone, spiegò perché giudici e procure dovevano avere carriere separate. Lo riportò “il Dubbio” del primo giugno che pubblicó un estratto dal libro ‘ La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia’ – Bur biblioteca univ. Rizzoli. Un approfondimento a firma di Giovanni Falcone qui di seguito riportato.
«Timidamente, dunque, e tra molte esitazioni e preoccupazioni, comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’ habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere.
Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura,costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti.
È unanimemente riconosciuto che i valori dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura non costituiscono un privilegio di casta, ma un necessario riconoscimento previsto al fine di garantire l’imparzialità del giudice e l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge; si tratta quindi di valori che debbono essere intesi non in senso formale, ma in funzione dei fini in vista dei quali sono stati riconosciuti.
Se così è, a me sembra che continuando a disciplinare unitariamente la carriera dei magistrati con funzioni giudicanti e quella dei magistrati requirenti, non si potranno cogliere normativamente le specificità delle funzioni requirenti e, quindi, non si potranno disciplinare adeguatamente quei passaggi centrali in cui in concreto si gioca l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero; dal momento che non si può disconoscere che un giudice penale, ormai passivo e terzo rispetto all’esercizio dell’azione penale e alla attività di acquisizione delle prove, ha esigenze di indipendenza e di autonomia, identiche nella sostanza ma ben diverse nel loro concreto atteggiarsi, rispetto a un pubblico ministero che ha la responsabilità e l’onere, non solo dell’esercizio dell’azione penale, ma anche della ricerca delle notizie di reato e degli elementi che gli consentiranno di esercitare utilmente il suo magistero. Se non si porrà mente con attenzione a questo delicato aspetto della questione, si correrà il rischio – e già si colgono alcuni segnali in questa direzione – di impantanarsi in dibattiti estenuanti e fuorvianti su problemi che, pur essendo indubbiamente importanti (come ad esempio quello sulla obbligatorietà dell’azione penale), non colgono l’essenza della questione, che è quella di dare slancio e incisività all’azione penale del pubblico ministero, garantendo, però, l’indipendenza e l’autonomia di tale organo.
I valori di autonomia e indipendenza rapportati al ruolo del pubblico ministero nell’impianto complessivo della Costituzione, non equivalgono a sostanziale irresponsabilità.
E con ciò, ovviamente, non mi riferisco soltanto alle responsabilità penale, civile e disciplinare, connesse a violazioni di doveri di condotta espressamente sanzionati. Mi riferisco, piuttosto, alla responsabilità per la funzionalità degli uffici di procura e per la politica giudiziaria complessiva, che non può essere lasciata alla mercé delle scelte, prive di adeguati controlli, dei capi degli uffici – o peggio dei singoli magistrati – senza alcuna possibilità istituzionale di intervento.
Tanto non giova alla resa del servizio- giustizia in termini di reale, coordinato e generalizzato contrasto delle manifestazioni di criminalità, e non giova nemmeno in termini di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; dato che, ad esempio, un evasore fiscale di Torino sarà perseguito, a differenza di quello di Palermo, perché il procuratore della Repubblica del luogo avrà privilegiato – nell’impossibilità di attivarsi per tutti i reati di competenza – la persecuzione di siffatte attività illecite, piuttosto che, ad esempio, della microcriminalità, senza dovere per questo rendere conto delle ragioni e dei criteri che hanno orientato la sua scelta. Ma ciò non giova neanche all’immagine della giustizia, che a fronte di interventi talora tempestivi soltanto per fatti di scarsa rilevanza sociale, e talora tardivi per episodi di elevata pericolosità, appare all’opinione pubblica come una variabile impazzita del sistema.
Mi rendo perfettamente conto che l’argomento è fra i più delicati e che merita attenta riflessione.
Mi piace in proposito ricordare, che in sede di Costituente, proprio uno dei maggiori sostenitori dell’indipendenza della magistratura, l’on. Calamandrei, sul rilievo che un sistema di assoluta separazione della magistratura dagli altri poteri dello Stato presentava inconvenienti di segno opposto, ma non meno gravi, rispetto a quelli di dipendenza dall’esecutivo, propose la istituzione di un «Procuratore Generale Commissario della Giustizia», scelto tra i procuratori generali di Corte d’appello o di cassazione, nominato dal presidente della Repubblica su designazione delle Camere, con diritto di prendere parte alle sedute del Consiglio dei ministri con voto consultivo e responsabilità di fronte al Parlamento per il buon funzionamento della giustizia».
13.9.2023 – Greco (CNF): “Separazione carriere magistrati è indispensabile” – CNF News
Audizione davanti alla commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati
«Riteniamo che sia indifferibile il momento della separazione delle carriere dei magistrati in due ordini differenti, ossia tra magistratura giudicante e inquirente. Se si vuole attuare il principio costituzionale del giusto processo separare le due funzioni è indispensabile. Perché altrimenti è come se l’arbitro di una partita di calcio appartenesse a una delle due squadre che si sfidano in campo. I timori espressi sui rischi di questa riforma sono assolutamente infondati, non esiste il pericolo di una magistratura assoggettata al potere esecutivo. Nei sistemi democratici più avanzati c’è separazione delle funzioni tra magistratura giudicante e inquirente. È nelle dittature che chi giudica e chi accusa appartengono allo stesso soggetto. Oggi, in Italia, il processo si celebra tra due colleghi e un estraneo: i due colleghi sono il giudice e il pm, l’estraneo è l’avvocato difensore». Così Francesco Greco, Presidente del Consiglio Nazionale Forense in audizione in commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati sulle proposte di legge sulla separazione delle carriere dei magistrati.
“𝗣𝗥𝗘𝗠𝗜𝗘𝗥 𝗘 𝗡𝗢𝗥𝗗𝗜𝗢 𝗡𝗢𝗡 𝗨𝗦𝗜𝗡𝗢 𝗜𝗟 𝗡𝗢𝗠𝗘 𝗗𝗜 𝗙𝗔𝗟𝗖𝗢𝗡𝗘”
Giuseppe Pipitone intervista 𝐀𝐥𝐟𝐫𝐞𝐝𝐨 𝐌𝐨𝐫𝐯𝐢𝐥𝐥𝐨 sul Fatto Quotidiano del 31/05/2024
Alfredo Morvillo è furibondo. “Carlo Nordio deve lasciar riposare in pace i morti”, ripete più volte il fratello di Francesca, la moglie di Giovanni Falcone, uccisa con lui nella strage di Capaci. Magistrato in pensione, a Morvillo non è piaciuto che il guardasigilli abbia dedicato a suo cognato la riforma sulla separazione delle carriere. “Questo è il solito giochetto: usano il nome di Falcone come prova della bontà delle loro tesi”, dice l’ex pm. “Eppure – sottolinea – quando il ministro parla di concorso esterno, di intercettazioni o di 41 bis, si guarda bene dal citare Falcone: come mai? Forse perché in realtà tra le posizioni di Nordio e quelle di Giovanni c’è un abisso”.
𝐈𝐧 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐜𝐚𝐬𝐨, 𝐩𝐞𝐫𝐨̀, 𝐢𝐥 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐞𝐠𝐧𝐨 𝐝𝐢 𝐅𝐚𝐥𝐜𝐨𝐧𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐞𝐩𝐚𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐜𝐚𝐫𝐫𝐢𝐞𝐫𝐞 𝐞̀ 𝐮𝐧 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐧𝐨𝐭𝐨: 𝐝𝐨𝐭𝐭𝐨𝐫𝐞, 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐝’𝐚𝐜𝐜𝐨𝐫𝐝𝐨? Non è affatto vero, questa è una mistificazione. Per fortuna siamo ancora in tanti che conosciamo il pensiero di Giovanni, essendo cresciuti al suo fianco.
𝐄𝐩𝐩𝐮𝐫𝐞 𝐢𝐧 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐞 𝐨𝐫𝐞 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐭𝐨𝐫𝐧𝐚𝐭𝐢 𝐚 𝐜𝐢𝐫𝐜𝐨𝐥𝐚𝐫𝐞 𝐢 𝐯𝐢𝐫𝐠𝐨𝐥𝐞𝐭𝐭𝐚𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐅𝐚𝐥𝐜𝐨𝐧𝐞 𝐬𝐮𝐥 𝐭𝐞𝐦𝐚. 𝐀𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐚 𝐩𝐫𝐞𝐦𝐢𝐞𝐫 𝐌𝐞𝐥𝐨𝐧𝐢 𝐥𝐢 𝐡𝐚 𝐩𝐨𝐬𝐭𝐚𝐭𝐢 𝐬𝐮𝐢 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥: 𝐢𝐥 𝐬𝐢𝐠𝐧𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐩𝐚𝐫𝐨𝐥𝐞 𝐞̀ 𝐜𝐡𝐢𝐚𝐫𝐨, 𝐧о? Sono frasi che fanno parte di un discorso più ampio, pronunciato da Falcone in due interventi del 1989 e 1990, come ha ricordato Gioacchino Natoli: Giovanni era contrario alla separazione delle carriere. Semmai era un sostenitore della cosiddetta separazione delle funzioni o quantomeno della necessità di una specializzazione per l’ufficio del pubblico ministero.
𝐈𝐧 𝐮𝐧’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐯𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝟏𝟗𝟗𝟏, 𝐩𝐞𝐫𝐨̀, 𝐅𝐚𝐥𝐜𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢𝐜𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚𝐯𝐚: “𝐈𝐥 𝐩𝐦 𝐧𝐨𝐧 𝐝𝐞𝐯𝐞 𝐚𝐯𝐞𝐫𝐞 𝐧𝐞𝐬𝐬𝐮𝐧 𝐭𝐢𝐩𝐨 𝐝𝐢 𝐩𝐚𝐫𝐞𝐧𝐭𝐞𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐧 𝐢𝐥 𝐠𝐢𝐮𝐝𝐢𝐜𝐞 𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐝𝐞𝐯𝐞 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞, 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐢𝐧𝐯𝐞𝐜𝐞 𝐞̀ 𝐨𝐠𝐠𝐢, 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐩𝐞𝐜𝐢𝐞 𝐝𝐢 𝐩𝐚𝐫𝐚𝐠𝐢𝐮𝐝𝐢𝐜𝐞”. Quelle risposte sono decontestualizzate. All’epoca era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale e Falcone esponeva le sue preoccupazioni sul cambiamento delle funzioni dei pm.
𝐎𝐯𝐯𝐞𝐫𝐨? Con la riforma, gli uffici della Procura sarebbero stati improvvisamente investiti dell’onere del coordinamento delle indagini, che fino a quel momento era compito dell’Ufficio Istruzione. Falcone sapeva che le Procure non avevano esperienza pregressa in materia, dunque riteneva necessaria una sorta di specializzazione.
𝐃𝐮𝐧𝐪𝐮𝐞 𝐜𝐡𝐢𝐞𝐝𝐞𝐯𝐚 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐨𝐫𝐬𝐢 𝐬𝐞𝐩𝐚𝐫𝐚𝐭𝐢 𝐭𝐫𝐚 𝐩𝐦 𝐞 𝐠𝐢𝐮𝐝𝐢𝐜𝐢? Ma questo non ha niente a che vedere con la separazione delle carriere: anche Armando Spataro ha scritto di recente che Falcone era contrario. Semmai poneva una necessità: i pm non avevano mai coordinato le indagini, dunque avrebbero dovuto avere una preparazione supplementare, al di là delle semplici materie del concorso. D’altra parte se parliamo di separazione delle carriere dovremmo anche ricordare che tipo di carriera ha fatto Giovanni.
𝐍𝐞𝐥 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐜𝐚𝐦𝐛𝐢𝐨̀ 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐯𝐨𝐥𝐭𝐞 𝐟𝐮𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞? Per quattro volte: fu pretore, giudice, pm, Procuratore aggiunto e poi magistrato fuori ruolo al ministero. Lo stesso ha fatto Paolo Borsellino.
𝐄𝐩𝐩𝐮𝐫𝐞 𝐢 𝐬𝐮𝐩𝐩𝐨𝐫𝐭𝐞𝐫 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐫𝐢𝐟𝐨𝐫𝐦𝐚 𝐬𝐢 𝐟𝐚𝐧𝐧𝐨 𝐬𝐜𝐮𝐝𝐨 𝐜𝐨𝐥 𝐧𝐨𝐦𝐞 𝐝𝐢 𝐬𝐮𝐨 𝐜𝐨𝐠𝐧𝐚𝐭𝐨. E magari in questo modo evitano di ricordare che la separazione delle carriere era contenuta nel 𝑷𝒊𝒂𝒏𝒐 𝒅𝒊 𝒓𝒊𝒏𝒂𝒔𝒄𝒊𝒕𝒂 𝒅𝒆𝒎𝒐𝒄𝒓𝒂𝒕𝒊𝒄𝒂 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝑷2 𝒅𝒊 𝑳𝒊𝒄𝒊𝒐 𝑮𝒆𝒍𝒍𝒊. Per questo dico a Nordio di lasciar riposare in pace i morti. Vada pure avanti con le sue riforme, anche più inutili di questa, ma la smetta di citare a sproposito il nome di chi non c’è più e non può replicare.
𝐌𝐢 𝐬𝐞𝐦𝐛𝐫𝐚 𝐝𝐢 𝐜𝐚𝐩𝐢𝐫𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐜𝐨𝐦𝐮𝐧𝐪𝐮𝐞 𝐥𝐚 𝐬𝐞𝐩𝐚𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐜𝐚𝐫𝐫𝐢𝐞𝐫𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐥𝐞 𝐩𝐢𝐚𝐜𝐞: 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́? Questa riforma non ha niente a che vedere coi problemi attuali del sistema giustizia, che sono ben altri. Avere un giudice che fa una carriera separata rispetto a quella del pm in che modo velocizzerà i processi? Direi nessuno. In compenso si avrà un altro effetto.
𝐐𝐮𝐚𝐥𝐞? Aver svolto entrambe le funzioni, di giudicante e di requirente, consente al magistrato di avere una cognizione completa della giurisdizione. Lo dico avendo fatto sia il pm che il giudice. La verità è che questa riforma ha un altro obiettivo.
𝐂𝐢𝐨𝐞̀? Ritengo che sia gravemente offensivo dipingere i giudici come passacarte delle Procure, influenzabili solo per aver fatto lo stesso concorso del pm. Ma risponde a un’operazione portata avanti negli ultimi anni da quasi tutte le forze politiche: si vuole diffondere sfiducia nei confronti della giustizia. Solo che quando in un Paese viene meno la fiducia nella giustizia, cominciano a essere in pericolo anche le libertà democratiche
Le vere parole di Giovanni Falcone sulla separazione delle carriere
Non è il primo, non sarà l’ultimo. Sono anni che chi sostiene la bontà della separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante ricorda che anche Giovanni Falcone si disse favorevole e sono anni che i magistrati contrari alla separazione delle carriere negano che Giovanni Falcone si fosse espresso a riguardo. I più arditi sostengono fosse, addirittura, ferocemente contrario.
Oggi, su Repubblica, è stato il turno dell’arditissimo Piero Grasso. “Falcone si sta rivoltando nella tomba”, ha detto l’ex procuratore nazionale antimafia. Il quale, dopo aver sostenuto che “lo sport più diffuso è quello di attribuire a Falcone dopo la sua morte idee che non lo avevano nemmeno sfiorato”, ha parlato esplicitamente di “fake news”.
Nella speranza, forse vana, di porre fine una volta per tutte all’annosa querelle, vale la pena pubblicare un consistente estratto dell’intervista che Giovanni Falcone rilasciò a Mario Pirani di Repubblica il 3 ottobre 1991. Si parlava della riforma Vassalli e del nuovo codice di procedura penale. Quelle che seguono sono le parole, mai smentite, di Giovanni Falcone: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice.
Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’Esecutivo”.
Le stesse, pretestuose, accuse che Giovanni Falcone lamentava di subire da certi suoi colleghi per aver sostenuto la necessità di “una differenziazione strutturale nelle competenze e nella carriera” di pm e gip vengono oggi rivolte al ministro Carlo Nordio. Formiche.net
GIUSTIZIA INSIEME
La separazione delle carriere: repetita iuvant!
di Armando Spataro 21.1.2025
Sommario: 1. L’incubo che non scompare – 2. Le balle a sostegno dell’impostura: i giudici appiattiti sulle tesi dei p.m., la “riforma-Falcone”, il giusto processo ex art.111 Cost., il sorteggio dei membri togati dei due CSM e dell’Alta Corte Disciplinare – 3. Paulo Sergio Pinto de Albuquerque, un grande giurista e la sua deludente intervista – 4. La diversità di storia e cultura giuridica dei Paesi europei; 5. Ovunque esiste la separazione delle carriere, il PM dipende dall’Esecutivo (tranne che in Portogallo) – 6. La situazione in Portogallo – 7. Le istituzioni europee guardano al sistema italiano come un modello da realizzare ovunque: le “passerelle” dalla funzione di PM quella dei giudici, e viceversa, fanno crescere le garanzie dei cittadini – 8. Il silenzio colpevole dei “separatisti” – 9. L’impegno contro questa riforma? Testimonianza di dignità e coerenza.
1. L’incubo che non scompare
Il 16 gennaio la Camera dei Deputati ha approvato in prima deliberazione il Disegno di Legge Costituzionale presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri (Meloni) e dal Ministro della Giustizia Nordio, intitolato “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”. La proposta ha per principale oggetto la separazione delle carriere dei magistrati: l’approvazione è avvenuta con 174 voti favorevoli, 92 contrari e 5 astenuti, dunque con una percentuale di adesioni che non supera i due terzi dei 400 componenti elettivi della Camera e che difficilmente potrà mutare nelle prossime altre tre letture e votazioni, anche presso il Senato, composto da 200 componenti elettivi. In sostanza, pur potendosi dare per scontata la approvazione finale della proposta di separazione delle carriere dei magistrati e delle previsioni ad essa connesse, bisognerà sin d’ora prepararsi ad un deciso impegno in sede referendaria, ai sensi dell’art. 138 Costituzione, perché questa orrida proposta finisca su un binario morto.
Dopo la ricordata prima approvazione del 16 gennaio, si sono sprecati i commenti dai toni trionfalistici di Nordio e di altri politici appartenenti alla maggioranza di governo, anche in onore e ricordo di Silvio Berlusconi! Ma chi la pensa in senso opposto non ha risparmiato i doverosi toni allarmistici.
Chi scrive, interviene da anni sul tema della separazione delle carriere per sottolinearne la sua natura di “impostura” anacronistica e irrisoria: in Treccani si spiega che con il termine impostura si intende la tecnica di “inganno e menzogna per trarne profitto”.
Vorrei provare allora ad intervenire su argomenti che i sedicenti giuristi favorevoli alla separazione delle carriere – che d’ora in avanti chiamerò “separatisti” – hanno ignorato (o “ignorano”), evitando anche di rispondere a precisi stimoli di chi la pensa diversamente da loro (gli “unionisti”).
2. Le balle a sostegno dell’impostura: i giudici appiattiti sulle tesi dei p.m., la “riforma-Falcone”, il giusto processo ex art.111 Cost., il sorteggio dei membri togati dei due CSM e dell’Alta Corte Disciplinare.
Non parliamo dunque del fatto che l’appartenenza alla stessa “famiglia” determinerebbe contiguità tra giudici e p.m., condizionando i primi e determinandone l’“appiattimento” sulle tesi dei p.m. e la predisposizione a prestare maggior attenzione alle richieste dell’accusa. Basta ricordare in proposito le parole di Francesco Saverio Borrelli [[1]], secondo cui il sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare per le tesi dell’accusatore è da respingere, in quanto fondato su “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni”.
È anche falso che la separazione delle carriere favorirebbe la maggiore efficacia dell’azione del P.M., tanto che anche Giovanni Falcone avrebbe auspicato una legge in proposito: un noto giornalista è arrivato a proporre che questa legge in fieri sia definita “Riforma Falcone” ed in molti poi, a favore della loro tesi, citano alcuni passaggi di un intervento di Falcone del 1989. Ma è una citazione fuorviante ed un’interpretazione errata di frasi estrapolate da un testo ben più ampio, la cui lettura completa dimostra che Falcone teorizzava la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della polizia giudiziaria, rispetto a quanto richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del 1988. Lo hanno confermato la scrittrice giornalista Marcelle Padovani, che con il collega scrisse un libro importante, nonché magistrati come Ayala, Grasso e Natoli che con Falcone avevano a lungo collaborato a Palermo. In ogni caso, la più sicura conferma della sua contrarietà alla separazione delle carriere la diede Falcone stesso chiedendo e ottenendo più volte di passare dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa: da giudice istruttore era anche diventato procuratore della Repubblica aggiunto, funzione che esercitava quando fu chiamato da Martelli al ministero. E analoghi mutamenti di funzione hanno chiesto e ottenuto altre vittime di mafia e terrorismo come Paolo Borsellino e Guido Galli, nonché altri magistrati cui tanto deve il nostro paese come il citato Francesco Saverio Borrelli.
Né potrebbero trarsi argomenti a sostegno della separazione dal testo dell’art. 111 Cost.
La parità delle parti, di cui parla il secondo comma, non si gioca sul piano istituzionale: l’avvocato è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o, comunque, l’esito più conveniente per il proprio assistito, che lo retribuisce per questo, ed è figura diversa dal P.M., che è un’autorità giudiziaria indipendente, non riducibile al ruolo di “avvocato della polizia” definizione tanto cara al Ministro Nordio. Non a caso il PM è obbligato a svolgere indagini anche a favore dell’imputato: egli, infatti, non agisce sempre in vista della condanna ma dell’accertamento della verità. E questo è un carattere essenziale della sua attività professionale che lo accomunerà comunque al giudice, anche nella malaugurata ipotesi di entrata in vigore della separazione: un carattere che si chiama “cultura giurisdizionale”, definizione ritenuta dai separatisti un mero slogan.
A questo punto, però, non voglio entrare in contraddizione con la dichiarata volontà di approfondire argomenti diversi da quelli quotidianamente oggetto di dispute giornalistiche e di confronti urlati nei talk show serali, come i dati numerici relativi al tramutamento di funzione i quali dimostrano che di fatto non vi è bisogno di mutamenti ulteriori della disciplina o come l’importanza di un’unica formazione dei magistrati e un unico CSM che ne regoli ed amministri le carriere.
Per non parlare della vergogna (non riesco a definirla diversamente) del sorteggio previsto per designare i membri togati dell’altra Corte Disciplinare e dei due CSM, così evitare gli effetti critici della esistenza dell’ANM e delle sue correnti : qualcuno, anzi, vorrebbe sciogliere l’una e le altre per contrastare indicibili accordi, comunque ben diversi – aggiunge chi scrive – da quelli che in questi giorni stanno caratterizzando l’individuazione di quattro giudici da eleggere quali componenti della Corte Costituzionale: ma nessuno ne parla!
3. Paulo Sergio Pinto de Albuquerque, un grande giurista e la sua deludente intervista
Parliamo allora di altro, parliamo della situazione ordinamentale degli altri Stati europei e degli Stati Uniti.
Lo spunto per tornare su questo quasi inesplorato (o mal esplorato) argomento è nato da una intervista rilasciata dal prof. Paulo S. Pinto de Albuquerque, pubblicata l’11 gennaio 2024 su “Il Riformista PQM”, di cui è direttore responsabile l’ex presidente della Unione Camere Penali, avv. Gian Domenico Caiazza, uno dei più duri “separatisti” a me noti. Paulo Sergio Pinto de Albuquerque è professore portoghese ordinario di Diritto Penale e Diritti Umani all’Università di Lisbona, con almeno 40 anni di esperienza come giudice nazionale e internazionale, avvocato e attivista per i diritti umani.
È stato esperto del Gruppo di Stati contro la Corruzione (Greco) nel biennio 2009/2010 e giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dal 2011 al 2020. Personalmente ho avuto l’onore di contribuire con un mio intervento ad un volume edito nel 2021, “I diritti Umani in una prospettiva Europea – Opinioni dissenzienti e concorrenti, 2016-2020”, di Paulo Sergio Pinto de Albuquerque, a cura di Andrea Saccucci, con prefazione di Raffaele Sabato e Gilberto Feltri.
Per tutto questo, rimasi profondamente deluso nel leggere l’intervista in cui la proposta di legge Meloni-Nordio sulla separazione delle carriere viene da lui definita “eccellente” con ulteriori e plurimi elogi: «sono un sostenitore della separazione delle carriere, perché essa contribuisce in modo significativo alla piena realizzazione del principio accusatorio, della presunzione di innocenza e del giusto processo. Inoltre, la separazione delle carriere contribuisce anche alla valorizzazione della magistratura del Pubblico Ministero. In Portogallo, prima della separazione delle carriere, la carriera del Pubblico Ministero era una carriera preparatoria per la carriera giudiziaria. Questo comportava, tra l’altro, due conseguenze molto negative. Prima di tutto, la carriera del Pubblico Ministero veniva considerata una carriera di minor valore, il che diminuiva la rilevanza istituzionale e il prestigio sociale della carriera del Pubblico Ministero. In secondo luogo, la carriera preparatoria del magistrato del Ministero Pubblico creava tra i giudici un pregiudizio endemico favorevole all’accusa, il che danneggiava gravemente il principio accusatorio, la presunzione di innocenza e il giusto processo. Queste conseguenze negative sono state definitivamente eliminate dalla separazione delle carriere.»
Alla domanda sul rischio che la riforma italiana, modificando profondamente l’attuale quadro costituzionale e l’equilibrio tra i poteri dello Stato, potrebbe finire con l’incidere sulla indipendenza al potere giudiziario, riducendo le garanzie e i diritti di libertà dei cittadini, Paulo Sergio Pinto de Albuquerque affermava di non condividere queste preoccupazioni: «La separazione delle carriere rafforza l’indipendenza del potere giudiziario e aumenta le garanzie per i cittadini, come ho già spiegato nella risposta precedente. Questa è l’esperienza vissuta quotidianamente nei tribunali portoghesi».
In Portogallo – egli precisava – la separazione delle carriere non ha contribuito a una logica securitaria del Pubblico Ministero e tanto meno al suo allontanamento dalla “cultura della giurisdizione”, perché il Pubblico Ministero, nel quadro costituzionale portoghese, è una magistratura indipendente dal governo. La competenza di rappresentanza dello Stato, in particolare nei tribunali civili e nei tribunali amministrativi e fiscali, è strettamente legata alla difesa della legalità democratica, che è anche attribuita dalla legge al Pubblico Ministero. «Perché, anche in questi casi, il Pubblico Ministero agisce in modo imparziale e indipendente, non comandato da alcun organo specifico dell’apparato statale. Secondo la Costituzione portoghese, il Pubblico Ministero gode di autonomia rispetto agli altri organi del potere centrale, regionale e locale. L’autonomia del Pubblico Ministero si caratterizza per il suo vincolo a criteri di legalità e obiettività e per la soggezione esclusiva dei magistrati del Pubblico Ministero alle direttive, ordini e istruzioni previsti nel loro statuto, nell’ambito della loro gerarchia interna. È importante sottolineare che, nel processo penale, il Pubblico Ministero deve esercitare l’azione penale orientato dal principio di legalità, indagando il caso sia a carico che a discarico».
Tutto ciò perché, a quasi 50 anni dalla riforma che ha istituito la separazione organica tra la carriera dei giudici e quella del Pubblico Ministero, «i magistrati del Pubblico Ministero in Portogallo non si sentono sottoposti al controllo del potere esecutivo, né esprimono pubblicamente alcun disagio a questo proposito. La separazione delle carriere è stata una conquista fondamentale della democrazia portoghese, che ha avuto pieno successo nella pratica. Su questo sono d’accordo i giudici, i magistrati del Pubblico Ministero, gli avvocati e, in generale, la società civile».
Quest’ultimo giudizio, come si dirà appresso, non è affatto condiviso in Portogallo e comunque confesso che quella intervista, nell’ovvio rispetto del pensiero di Paulo Sergio Pinto de Albuquerque, appena letta, mi lasciò davvero senza parole: la giornata era iniziata male, ma fortunatamente scrissi al grande giurista, esponendogli le mie perplessità e determinando il suo apprezzamento per la correttezza del mio approccio.
4. La diversità di storia e cultura giuridica dei Paesi europei
Sono molti gli argomenti di segno opposto a quelli usati da Paulo Sergio Pinto de Albuquerque che si potrebbero qui precisare (e di cui – come ho detto – da molti anni parlo e scrivo), ma francamente preferisco evitare limitandomi a precisare quanto sia errato ritenere che il funzionamento (ammesso che di questo si tratti in Portogallo) di scelte ordinamentali in un Paese ne legittimi l’adozione anche in altri Stati. Non possono trascurarsi, infatti, le diverse storie e differenze di cultura giuridica e degli ordinamenti giudiziari europei nei quali – in caso di pm separato dai giudici – esiste comunque la figura del Giudice Istruttore (titolare indipendente delle indagini), da noi cancellata da vari decenni.
È gratuito affermare, dunque, che la separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, Stati Uniti inclusi, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo e il condizionamento delle indagini ([2]).
Questa è un’affermazione gratuita che, in modo stupefacente, viene utilizzata anche da autorevoli commentatori e da giuristi favorevoli alla separazione, i quali – tuttavia – non possono non conoscerne la natura di mero slogan, né ignorare quanto essa sia priva totalmente di fondamento. Ma purtroppo, si tratta di una delle tante affermazioni sistematicamente utilizzate “contro” la magistratura che hanno determinato, grazie a martellanti campagne di opinione, convinzioni tanto radicate quanto errate.
Ed aggiungiamo che è un’affermazione anche incoerente e contraddittoria rispetto a quanto si legge nella relazione di accompagnamento al DDL costituzionale Nordio-Meloni: «Sui temi della separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, della esistenza e regolamentazione di Consigli Superiori, nonché sulla materia disciplinare, le soluzioni adottate da parte di altri Stati membri dell’Unione Europea sono variegate e non emergono linee prevalenti. Sono assai varie anche le scelte normative dei diversi Stat, risultando la materia oggetto di disciplina articolata a livello nazionale con interazione di disposizioni costituzionali, ordinamentali e di rito processuale».
È sufficiente, infatti, un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli Stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo raccontare in Italia. È chiaro, peraltro, che un confronto di questo tipo non è sempre utile se solo si considera che spesso esiste una radicale differenza tra gli ordinamenti presi in considerazione, frutto di tradizioni giuridiche ed evoluzioni storiche peculiari di ciascun paese. Basti pensare al fatto che in Gran Bretagna manca del tutto un pubblico ministero come noi lo intendiamo.
Non si comprende, dunque, come il Ministro Nordio possa avere dichiarato che «nei paesi anglosassoni le carriere sono separate e la magistratura non si sente umiliata» [[3]].
Tra l’altro, il prof. Alessandro Pizzorusso, a proposito di indipendenza del pubblico ministero, affermava l’irrilevanza del dato numerico relativo ai paesi che seguono l’una o l’altra impostazione: «se così non fosse, quando l’Inghilterra era l’unico paese in cui esisteva la democrazia parlamentare, si sarebbe potuto invocare l’argomento comparatistico per dimostrare l’opportunità di instaurare la monarchia assoluta, che era la forma allora assolutamente prevalente». Però possono egualmente trarsi, dalla comparazione ordinamentale, degli spunti generali per la questione che qui interessa, utili a verificare che, nel panorama internazionale, gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza. Inoltre – ed il dato è molto significativo ai fini che qui interessano – all’estero accade spesso che chi abbia maturato esperienze professionali di pubblico ministero acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante: dunque, quell’esperienza viene considerata molto positivamente.
5.Ovunque esiste la separazione delle carriere, il PM dipende dall’Esecutivo (tranne che in Portogallo)
Ma, soprattutto, non può non considerarsi che, ove esiste la separazione delle carriere, questa porta con sé la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, una conseguenza assolutamente preoccupante, pur se non sgradita ad alcuni accademici come il prof. G. Di Federico [[4]] e persino all’avv. Gian Domenico Caiazza, già presidente della Unione Camere Penali, che nel corso di un confronto con lo scrivente [[5]] ha manifestato la propria indifferenza a tale ipotesi.
Ecco, schematicamente, con inevitabile sommarietà, la realtà di alcuni Stati europei (all’Italia geograficamente più vicini) e degli Stati Uniti, cioè di Stati i cui livelli di democrazia, pur nella diversità ordinamentale, sono sicuramente omogenei rispetto ai nostri:
· in Austria, il PM è organizzato come autorità amministrativa, è gerarchicamente strutturato ed è nominato dal Ministro di Giustizia, da cui dipende. Esiste interscambiabilità dei ruoli;
· in Belgio, il PM è nominato dal Re ed il passaggio da una carriera all’altra può avvenire solo per decisione dell’esecutivo, da cui, comunque, riceve direttive di carattere generale; anche il passaggio da una carriera all’altro può avvenire, per i PM, soltanto per decisione dell’esecutivo;
· in Germania chi esercita la funzione requirente riveste uno status di funzionario statale dipendente, nominato dall’esecutivo ed ha garanzie diminuite rispetto ai giudici; le carriere di giudici e dei pubblici ministeri, inoltre, sono separate, ma l’interscambio è comunque possibile, pur se non è frequente e, per lo più, avviene in un’unica direzione (da PM a Giudice). Lo statuto subordinato del PM ha portato la Corte di Giustizia UE ad affermare che i PM tedeschi, in quanto non totalmente indipendenti perché soggetti al potere di istruzione del ministro, non possono essere qualificati come autorità giudiziaria ai fini della possibilità di emettere Mandati di Arresto Europei (casi riuniti C-508/18 e C-82/19 PPU). Insomma, certe scelte si pagano.
· in Francia, la carriera è unica, è possibile passare da una funzione all’altra, ma il pubblico ministero, pur inserito nell’ordinamento giudiziario, dipende dall’esecutivo, è sottoposto a forme di controllo di tipo gerarchico-burocratico da parte del Ministro della Giustizia, ha un limitato controllo della polizia giudiziaria. Peraltro, i problemi che derivano dalla collocazione del p.m. sono oggi, in quel paese, all’attenzione della pubblica opinione e si è avviata una discussione sulla riforma del P.M., anche alla luce di due durissime condanne della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Moulin c. Francia del 2010 e Vasis c. Francia del 2013). Pur tra resistenze politiche manifestatesi dopo incriminazioni “eccellenti” avvenute anche in un recente passato, si tende a conferire al P.M. maggiore autonomia dall’Esecutivo.
Nel novembre 2013, ad esempio, è stato reso noto il rapporto della Commissione Ministeriale presieduta dal Procuratore Generale Onorario presso la Corte di Cassazione, Jean-Luis Nadal e composta anche da giudici, presidenti di Corte d’Appello e di Tribunale. Orbene, il rapporto, premessa la necessità di garantire l’indipendenza del Pubblico Ministero, ha sottolineato, innanzitutto, proprio la necessaria priorità della unificazione effettiva delle carriere dei giudici e dei P.M. (“Proposta n. 1: Iscrivere nella Costituzione il principio dell’unità della magistratura”), eliminando ogni ambiguità ed affidandone la completa gestione al Consiglio Superiore della Magistratura, senza interferenze dell’esecutivo. Ciò al fine di «garantire ai cittadini una giustizia indipendente, uguale per tutti e liberata da ogni sospetto». Dal luglio 2013, comunque, a seguito di una legge voluta dal Ministro della Giustizia pro tempore Christiane Taubira (poi dimessasi perché contraria alla “costituzionalizzazione dell’emergenza” antiterroristica), è vietato al Ministro della Giustizia di indirizzare ai pubblici ministeri linee guida in relazione a specifici casi concreti (ora, può solo formulare linee generali).È stato intanto presentato un progetto di riforma che prevede di rafforzare i poteri del CSM nella nomina dei procuratori (che allo stato è totalmente nelle mani dell’esecutivo), ma esso langue nel Parlamento francese;
· in Spagna, le carriere sono costituzionalmente separate senza possibilità di interscambio. Esiste una certa dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo;
· in Inghilterra e Galles, come si è già detto, non esiste il pubblico ministero nelle forme da noi tradizionalmente conosciute, ma il Crown Prosecution Service che consiglia la Polizia la quale ha da sempre l’iniziativa penale e può nominare un avvocato da cui far rappresentare le sue ragioni. Non è dunque corretto neppure quanto affermato dall’avv. Francesco Petrelli (Il Dubbio, 30 agosto 2023), secondo cui anche in Gran Bretagna il PM sarebbe separato dal Giudice;
· in Svizzera le carriere sono separate e non vi si accede mediante concorso, ma a seguito di elezione. L’esistenza di un ordinamento federale e di diversi ordinamenti statali e, dunque, di regole molto diverse tra loro, impedisce di approfondire il discorso in questa sede. Non è prevista alcuna forma di passaggio dalla carriera requirente e quella giudicante e viceversa;
· in Olanda, previa frequentazione di corsi di aggiornamento, è possibile passare dalla magistratura giudicante all’ufficio del p.m. (e viceversa), ma il PM è sottoposto alle direttive dell’esecutivo per l’esercizio discrezionale dell’azione penale;
· in Polonia, la riforma della Prokuratura del 2016 ha interrotto e invertito un percorso che era in atto dal 2009 e mirava ad un ufficio indipendente del PM: il ruolo del Ministro della Giustizia è stato riunificato con quello del Procuratore generale, in modo da accentrare nella stessa persona maggiori poteri di indagine ed intervento diretto in casi specifici pendenti presso le giurisdizioni. Una concentrazione di potere che ha comportato l’eliminazione di qualsiasi forma di indipendenza interna per i singoli procuratori. Ne ha parlato Maria Rosaria Guglielmi, in un importante articolo [[6]] in cui sono citate le osservazioni della Commissione di Venezia, le decisioni della Corte Edu e i rapporti della Commissione Europea sulle condizioni di dipendenza dal potere politico dei pubblici ministeri anche in Bulgaria e Romania, in un contesto di enorme pressione sui giudici. In Polonia, peraltro, il 19 gennaio 2024, il governo Tusk ha presentato una proposta legislativa per separare le funzioni del Procuratore Generale da quelle del Ministro della Giustizia, che invece erano state riunite sotto il precedente governo (con effetti evidenti sull’indipendenza): ciò fa parte dello sforzo di rimettere la Polonia sui binari dello Stato di diritto;
· l’ordinamento statunitense, pur se notoriamente molto diverso dal nostro, permette comunque riflessioni interessanti sul tema in esame: si divide in un sistema di giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del Presidente degli Stati Uniti, ed un sistema di giustizia statale ove predomina il sistema elettorale. Orbene, pur in questa situazione di radicale differenza rispetto al nostro sistema, è possibile verificare la esistenza di una interscambiabilità tra i ruoli di giudici e pubblici ministeri che coinvolge anche l’avvocatura, dalla quale, come si sa, spesso provengono i pubblici ministeri e i giudici
Dunque, una riflessione può trarsi dall’analisi, pur sommaria, del panorama internazionale: ovunque la carriera del PM sia separata da quella del giudice, non solo il PM stesso dipende dall’esecutivo, ma esiste un giudice istruttore indipendente. Così è in Francia e Spagna ove il ruolo del pubblico ministero italiano è esercitato (non senza qualche occasione di polemica con i pubblici ministeri) dal giudice istruttore, figura da tempo soppressa nel nostro sistema. Evidentemente anche in quegli ordinamenti vi è necessità di un organo investigativo che sia totalmente indipendente dall’esecutivo.
6. La situazione in Portogallo
A questo punto, una situazione particolare che merita qualche precisazione è proprio quella del Portogallo (cui ha fatto riferimento nella citata intervista Paulo Sergio Pinto de Albuquerque) ove, sin dalla “Rivoluzione dei garofani” (1974), vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza sottoposizione di questi ultimi al potere esecutivo. Orbene, questo sistema ha determinato esattamente, nel corso della sua pluridecennale applicazione, quel progressivo affievolimento della cultura giurisdizionale dei p.m., che è l’oggetto delle preoccupazioni della magistratura italiana. Ne ha parlato spesso, anche in Italia, un esperto magistrato portoghese, Antonio Cluny, dirigente di Medel, il quale ha spiegato che attorno alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90, proprio quando l’ufficio del P.M. ha iniziato a sviluppare un’attività giudiziaria indipendente e capace di mettere in crisi la tradizionale impunità del potere economico e politico, si sono levate “autorevoli” voci a mettere in dubbio la legittimità democratica dell’ufficio del fiscal (il nostro P.M.), la diversa natura di quest’organo rispetto al potere giudiziario, la possibilità dei titolari di dare direttive alla polizia criminale e la stessa possibilità di iniziativa autonoma nel promovimento dell’azione penale. Il dibattito in questione – ha dichiarato il magistrato portoghese – aveva determinato il rischio di dar vita ad un modello di privatizzazione dell’indagine, del processo penale e della giustizia penale, auspicato dalla parte più conservatrice dell’opinione pubblica e da una parte dell’avvocatura. Ma la separazione delle carriere, pur in un regime di indipendenza dall’esecutivo del P.M., ha prodotto in Portogallo una divisione nella cultura professionale dei giudici e dei magistrati del fiscal. I pubblici ministeri hanno sviluppato una tendenza pratica a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia, mentre i giudici hanno sviluppato un’attitudine formalista che li conduce spesso ad assumere una posizione di semplici arbitri, anche quando i casi loro sottoposti esigerebbero un loro diretto intervento ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia. È stata vanificata, dunque, l’originaria intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie dei cittadini di fronte alla legge e si è compromessa l’efficacia del processo penale. Parallelamente, infine, si è sviluppata e si è progressivamente acuita una tendenza al pregiudizio corporativo che ha innescato pericolose tensioni tra giudici, magistrati del fiscal e avvocati.
Ecco dimostrate, dunque, la perversione della specializzazione, la frammentazione dei mestieri, la perdita della visione globale e coordinata della giurisdizione. Ma sono argomenti e sforzi di approfondimento del tutto ignorati dai separatisti che continuiamo a sollecitare.
Del resto, sarebbe sufficiente un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli Stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo descrivere in Italia.
7. Le istituzioni europee guardano al sistema italiano come un modello da realizzare ovunque: le “passerelle” dalla funzione di PM quella dei giudici, e viceversa, fanno crescere le garanzie dei cittadini
Ma il prof. Paulo Sergio Pinto del Albuquerque, e non solo lui, sembra poi trascurare altri importanti aspetti dei principi sovranazionali affermati in Europa:
· il primo è costituito dalla Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000, ove si prevede (al punto 18) che «…se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie».
Si afferma, inoltre, sempre nella Raccomandazione (parte “esposizione dei motivi”), che «La possibilità di “passerelle” tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine delle garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto. Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero».
· È importante un altro documento, cioè il nuovo parere 9 (2014) del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei destinato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero”, contenente la cosiddetta “Carta di Roma” ed una nota esplicativa dettagliata dei principi contenuti nella Carta stessa.
In questo importante documento, pur non essendo mai formalmente citate la necessità di unicità delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la possibilità del conseguente interscambio di funzioni (implicitamente auspicate), sono con forza ribaditi tutti i principi che in tal senso depongono e che vengono qui illustrati.
· Ma va anche ricordata, in ordine al tema di cui qui si discute, la creazione della Procura Europea (EPPO) che, con sede in Lussemburgo, è entrata in funzione dal 1°giugno 2021, almeno per il momento è competente esclusivamente ad indagare e perseguire gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione dinanzi alle ordinarie giurisdizioni nazionali degli Stati partecipanti e secondo le regole processuali di questi ultimi.
Si tratta di un’importante istituzione sovranazionale, utile per far meglio funzionare la collaborazione internazionale tra gli stati europei, ma anche con Eurojust ed Europol.
Orbene, è significativo che, anche per rendere omogenee le legislazioni europee in tema di giustizia, la normativa che riguarda l’EPPO impegna gli Stati Europei a bandire specifici interpelli ai rispettivi magistrati per diventarne componenti, prevedendo che questi ultimi possono esercitare – negli stati di provenienza – funzioni sia giudicanti che inquirenti: nell’ultimo interpello bandito in Italia, ad esempio., alla luce anche della normativa interna, vi sono stati vari giudici che hanno chiesto di diventare pubblici ministeri nell’EPPO.
8.Il silenzio colpevole dei “separatisti”
Rivolgendomi ora ai “separatisti”, più che a Paulo Sergio Pinto de Albuquerque, viene naturale domandare: “ma le conoscete le prospettive del Consiglio d’Europa, tra i cui scopi vi è quello di promuovere la democrazia ed i diritti umani? E lo sapete come è costituita la Procura Europea e quali sono le sue competenze e quelle di altri organismi sovranazionali?”.
E loro? Rispondono con il silenzio, incapaci di confutare o spiegare.
Ha scritto ancora Maria Rosaria Guglielmi [[7]]: «Nello spazio comune europeo, la garanzia di tutela dei diritti e dello Stato di diritto comporta una riduzione degli spazi di manovra autonomi per interventi strutturali che possano compromettere la capacità dei sistemi giudiziari nazionali di operare nella loro funzione di effettiva garanzia. La prospettiva europea è dunque la cartina di tornasole per valutare l’impatto e le ricadute di tutte le modifiche che incidono sulla qualità ed efficacia della giurisdizione. Ciò che oggi l’Europa ci chiede è valutare ogni riforma istituzionale alla luce dei principi dello Stato di diritto, come insieme dei valori non negoziabili che sono a fondamento dell’Unione: fra questi, l’indipendenza dei sistemi giudiziari e degli attori della giurisdizione, che deve garantire l’effettiva tutela dei diritti e dei singoli contro ogni arbitrio del potere».
E, al di là dell’EPPO, negli ultimi anni sono stati compiuti in Europa altri passi concreti verso la realizzazione di un’effettiva rete di cooperazione giudiziaria nel campo criminale. Sono stati infatti costituiti organismi di polizia, amministrativi e giudiziari di indubbia importanza (Europol, Rete giudiziaria europea e relativi “punti di contatto” tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione, magistrati di collegamento, Olaf nel settore antifrode, Eurojust, Corte Penale internazionale permanente) ed è noto che si discute della creazione di un vero e proprio Corpus Juris che dovrebbe dar vita ad un diritto penale sostanziale minimo, comune a tutti gli Stati membri.
In questa prospettiva, come ha ricordato Ignazio Juan Patrone, già presidente di Medel, si pone in tutta la sua evidenza, non solo per l’Italia, il problema della garanzia di indipendenza che dovrà essere riconosciuta ai magistrati che, a vario livello, esercitano ed eserciteranno la funzione di P.M. in tutti gli organismi giudiziari sovranazionali ed internazionali che sono stati rapidamente (ed un po’tumultuosamente) creati nel corso del decennio scorso o di cui – in altri casi – ancora si discute.
Orbene, valutando il “senso di marcia” della evoluzione in atto, i poteri di ingerenza nelle funzioni giudiziarie di indagine che inevitabilmente saranno attribuiti agli organismi internazionali, i loro compiti di coordinamento, di impulso ed iniziativa rispetto agli organi inquirenti nazionali ed in settori criminali di indubbio ed oggettivo rilievo, appare evidente che la preservazione del nostro attuale assetto ordinamentale potrà garantire la presenza in quegli organismi di magistrati italiani indipendenti dall’esecutivo ed animati da quella cultura giurisdizionale di cui si è fin qui più volte parlato per dimostrare che non è certo una formula vuota.
9. L’impegno contro questa riforma? Testimonianza di dignità e coerenza
Una cultura e un modello costituzionale ed ordinamentale che, invece, nel nostro Paese viene ciclicamente messo in discussione – quasi mai per buone ragioni – nonostante gli eccezionali risultati conseguiti nel contrasto di terrorismo, mafia, corruzione ed ogni alto tipo di grave reato e che l’Italia, invidiata per questo nel contesto internazionale, dovrebbe invece preoccuparsi di diffondere nel resto di Europa.
Ci sarebbe molto altro di cui parlare a proposito dei rischi derivanti dalla separazione delle carriere: ad esempio, del possibile netto vanificarsi del principio di obbligatorietà dell’azione penale da parte del PM che rischierà di trasformarsi in un organo amministrativo, della bulimia legislativa che determina una pioggia di interventi di Governo e Parlamento in cui anche gli accademici hanno difficoltà ad orientarsi, delle politiche in tema di immigrazione e sicurezza, della discussione in corso sugli “scudi” da creare con legge per le forze dell’ordine alla faccia del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, e di tanto altro ancora.
Mi fermo qui, scusandomi per la lunghezza di questo intervento: ma devo anche riprendere a studiare – con approfondimenti – i primi anni della carriera di Bob Dylan, visto che dal 23 gennaio dovremo preoccuparci di vedere nelle sale A complete unknown (parole tratte da una strofa di “Like a rolling stone”).
Martelli e la verità su Falcone: «Sì, voleva il divorzio tra giudici e pm»
In un’audizione di grande spessore, l’ex ministro ha spiegato che il magistrato ucciso a Capaci considerava la separazione logica e necessaria «Non c’è ombra di dubbio su quali fossero le convinzioni di Giovanni Falcone. Basta leggere opportunamente la raccolta dei suoi scritti che pubblicai quando diedi vita alla Fondazione Falcone: considerava la separazione delle carriere conseguenza logica del nuovo processo penale di carattere accusatorio». Così ieri l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli in audizione davanti alla commissione Affari costituzionali del Senato ha respinto la tesi delle toghe secondo cui Falcone non va assolutamente annoverato tra i fautori della riforma.
L’ex dirigente del Psi, chiamato da Fratelli d’Italia a intervenire appunto sulla modifica costituzionale dell’ordinamento giudiziario, quando era responsabile di via Arenula aveva chiamato proprio il magistrato poi ucciso a Capaci a guidare gli Affari penali del ministero: «Falcone non riteneva scandaloso collaborare con me, altrimenti non avrebbe mai accettato di cooperare con il guardasigilli. Del resto al ministero più di cento magistrati ricoprono il ruolo di dirigenti e non è questa già una forma di collaborazione tra potere giudiziario e potere esecutivo?».
Per interpretare al meglio questa ultima considerazione di Martelli bisogna ripercorrere dall’inizio il ragionamento che ha fatto ieri dinanzi ai senatori. «Mi consenta di cominciare con un aneddoto che credo istruttivo anche del mio punto di vista», ha esordito rivolgendosi al presidente della commissione e relatore del provvedimento, Alberto Balboni. «Ero ministro da un paio di settimane, quando mi toccò rispondere all’invito dell’Assemblea degli avvocati parigini per illustrare il nuovo codice di procedura penale, il codice Vassalli.
Lo illustrai, riscossi attenzione – ha raccontato Martelli – e poi prese la parola il presidente degli avvocati francesi, il quale con molta cortesia si disse ammirato di questa iniziativa coraggiosa con cui il Parlamento italiano aveva cambiato il vecchio rito inquisitorio, però obiettò: «”Le confesso che ci sono perplessità tra di noi perché fintanto che i nostri studi di avvocati non saranno in condizione di sviluppare le controindagini, e quindi essere effettivamente alla pari con l’accusa, preferiamo allora in questa fase tenerci il nostro giudice istruttore, in quanto almeno c’è qualcuno all’interno della giurisdizione in condizione di frenare l’esuberanza dei nostri pubblici ministeri”».
E qui l’ex guardasigilli ha confessato: «Per me fu una specie di rivelazione: chi aveva immaginato che la riforma Vassalli potesse superare una situazione di totale disparità tra i poteri dell’accusa e della difesa poi si trovò di fronte a un’obiezione conservatrice ma molto seria». Martelli ha appunto ricordato che «la Costituzione prevederebbe anche la possibilità di reclutare i giudici, almeno di Cassazione, al di fuori dell’ordine giudiziario. Provai a dare concretezza a questa previsione costituzionale ma le obiezioni furono infinite, come spesso accade quando si cerca di toccare il sistema della magistratura». Dunque, «condivido la riforma, ma non credo che essa servirà a garantire la responsabilità del pubblico ministero» perché esiste il rischio che «questa separazione delle carriere configuri una totale autonomia del pm», ossia un rappresentante dell’accusa estraneo al resto dell’ingranaggio democratico.
L’ex ministro, pur non ipotizzando la possibilità che la magistratura requirente finisca sotto il controllo dell’Esecutivo, ha però ammesso che questo, laddove avviene, non costituisce un modello negativo: «Non si tratta di imbrigliare il pm, di sottoporlo al controllo dell’Esecutivo, anche se questo esiste nelle Repubbliche democratiche non in modo totale assoluto come era nei regimi assolutistici; ma una parziale influenza del governo attraverso il ministro della Giustizia sull’esercizio dell’azione penale esiste in molti Paesi europei che sono certamente democratici, dotati di Costituzioni democratiche, e tutto ciò non fa scandalo».
La sua idea di fondo è che «una qualche forma di leale cooperazione tra potere esecutivo e potere giudiziario può esistere, altrimenti si va incontro a scontri ripetuti, a paralisi, a contestazioni infinite. Dunque sì alla riforma, attenzione alle conseguenze perché rimane il problema di come si muove il pm nella più totale e assoluta autonomia e indipendenza». Infatti secondo Martelli «con la riforma non si risolve il problema della responsabilità del pm, né la sua duplice natura di parte del processo e, però, guida della polizia giudiziaria, che è funzione dello Stato ed è di parte».
La leale cooperazione per Martelli «non è come un caciocavallo appeso di quelli di cui parlava Benedetto Croce, non è un’idea astratta, è sostanziale e dunque richiede una disponibilità da parte anche del pm a considerare i risvolti e le conseguenze altresì sociali della sua azione penale. Il diritto non può vivere in una specie di separazione: ricordo, ero giovane, la lunga polemica delle forze di sinistra contro i corpi separati dello Stato, e ci si riferiva a magistratura ed esercito. Attenzione a questa separatezza, perché è un po’ in conflitto con la democrazia, o può creare conflitti con un sistema democratico» Con quelle di ieri termina il ciclo di audizioni sulla separazione delle carriere: è attesa per oggi la decisione da parte dell’Ufficio di presidenza sui termini per presentare gli emendamenti.