di Felice Cavallaro CORRIERE DELLA SERA 7.6.2025
Una sensazione di rabbia che accomuna vari fronti interni al mondo di martiri e perseguitati da Cosa Nostra. A soffrire è pure un mafioso ufficialmente pentito come Brusca, Santino Di Matteo, il papà del piccolo Giuseppe

Il piccolo Giuseppe Di Matteo
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PALERMO – Stupisce anche tanti pezzi di antimafia militante la liberazione di Giovanni Brusca. Compresi tanti familiari di vittime innocenti, di vedove rimaste con figli orfani come Rosaria Schifani, la moglie di uno dei tre agenti di scorta caduti a Capaci con Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Una sensazione di rabbia che accomuna vari fronti interni al mondo di martiri e perseguitati da Cosa Nostra. A soffrire è pure un mafioso ufficialmente pentito come Brusca, Santino Di Matteo, il papà del piccolo Giuseppe. Il bambino rapito al maneggio, incatenato come un cane a 13 anni per 779 giorni di prigionia. Poi soppresso per ordine del defunto Salvatore Riina e di questo boss adesso in libertà, non a caso soprannominato «u verru», il maiale.
Giura di avere chiesto perdono a vittime e familiari, pronto a ricostruire una vita dopo 25 anni di carcere in parte scontati con un piede in cella e un altro in giro con gli agenti del Servizio protezione collaboratori. Ma i suoi giuramenti sono niente per quel padre che s’è visto ammazzare il figlio. Fu uno dei primi a pentirsi davvero Di Matteo indicando i covi della mafia per stanare i sequestratori di Giuseppe. Utilizzato come merce di scambio perché il padre rinnegasse le accuse. Come non ha mai fatto. Ogni volta deluso dallo Stato perché altri carcerieri del figlio sono stati rimessi in libertà in questi anni. E quando nel 2021 si è appreso che per Brusca cominciava con la semilibertà l’ultimo miglio per cancellare totalmente la pena lo stesso Di Matteo esplose: «Spero di non incontrarlo mai, sennò l’ammazzo con le mie mani».
Uno sfogo verbale che alimenta amarezza nell’ex boss che come Brusca ha usufruito pure lui della stessa legge nata da un disegno giuridico di Giovanni Falcone. Una legge che prevedeva e prevede di cancellare la pena dell’ergastolo per chi tradisce Cosa Nostra e offre pezzi di verità allo Stato. Ecco il punto. Brusca ha permesso di fare luce su alcuni di quei «pezzi» di verità, pur confusi con altre indicazioni sfociate nel nulla.
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È il caso delle accuse rivolte per esempio all’ex ministro Calogero Mannino, sotto inchiesta per 25 anni, arrestato e rinchiuso a Rebibbia nella cella di fronte a quella di «don» Vito Ciancimino, ma assolto pure in Cassazione ancor prima del flop registrato dal parallelo processo sulla trattativa Stato-mafia. Questi sono pezzi di verità mancata, come tanti altri. A cominciare dal vuoto che circonda i processi sulla strage di via D’Amelio attuata 55 giorni dopo Capaci per eliminare Paolo Borsellino. Con l’amara constatazione che la coda investigativa degli ultimi mesi finisce per contrapporre alcuni magistrati a caccia di una verità completa contro altri indagati addirittura per avere omesso o occultato prove. Partite aperte.
Altro nodo tutt’interno al pianeta antimafia, diviso ancor prima della notizia sulla eventualità di vedere circolare Brusca a Palermo o in qualsiasi altra città dove si spera non incontri mai il padre del «cagnuleddu» come chiamò il bimbo con la passione dei cavalli quando ai suoi uomini e al fratello Enzo ordinò di liberarsi del «cagnolino».