GIUSEPPE PROVENZANO: «Il Pd non è schiacciato sulle tesi di nessuno e il mio sorriso era un sorriso amaro…»

La replica dell’onorevole dem dopo la puntata di Report dedicata al presunto tentativo di «condizionare la commissione antimafia» da parte di Mario Mori


Al Direttore (de IL DUBBIO)

non so francamente da quale fotogramma dell’intervista a Report abbia potuto desumere le mie opinioni sulla strage di via d’Amelio, o i miei intendimenti su ciò che ritengo «il più grande depistaggio della storia italiana».
La ricerca della verità che manca, al di là delle acquisizioni giudiziarie, è una responsabilità di ogni uomo delle istituzioni, che io avverto anche sul piano personale.
Sono un politico nato in Sicilia nel 1982, venuto al mondo un’altra volta sotto le bombe di mafia e che proprio in quei tragici frangenti ha maturato un sentimento di ingiustizia che muove impegno e azione politica.
Alla famiglia Borsellino mi lega un profondo rispetto e ritengo che tutta la politica abbia il dovere di accostarsi al suo dolore, come a quello di tutte le vittime, con speciale misura. Anche per queste ragioni, e per altre che proverò a spiegare, il suo articolo di ieri su Quei sorrisini sconcertanti di Provenzano sul dossier per cui morì Borsellino… ha suscitato in me profondo sconcerto.

Mi rimprovera non un’argomentazione ma un’espressione del volto: malintesa. Credo di avere il diritto, certamente sento il dovere, di riportare invece la discussione all’argomento. Solo una lettura superficiale delle questioni poste (da me e altri commissari del Pd in Antimafia) a Mori e De Donno può liquidarle come una «adesione» a tesi di altri commissari. O – per parlar chiaro – alle tesi dell’accusa del cd. “processo trattativa”, su cui peraltro ho avuto modo, in altra sede, di esprimere critiche e riserve (il direttore di un giornale che pretende di occuparsi con professionalità di questi temi avrebbe potuto informarsene e comunque può verificare).

Non spetta a me difendere la Procura di Palermo dalle accuse generalizzate rivolte da Mori. Vorrei invece provare a difendere il lavoro dell’Antimafia, anche dalla parzialità mostrata da chi ha il compito di presiederne i lavori.
Con molta franchezza, non penso che la Commissione sia la sede in cui rifare l’accusa del processo Trattativa, che ha avuto un esito molto chiaro: nemmeno per rifarne la difesa, però.
La tesi esposta, e che lei fa sua nell’articolo, è che la strage di via d’Amelio abbia come causale principale il cd. rapporto “Mafia-Appalti” dei ROS, descritto come «una tangentopoli in salsa siculo-mafiosa».
Ho avvertito la necessità di verificare la tenuta sul piano storico-politico – e persino logico – di tale tesi, nonché la legittimità di isolare la strage di via D’Amelio dalla sequenza di avvenimenti che nel 1992-93 hanno segnato la storia della democrazia italiana.
Nessuno ha negato l’importanza di quel filone di inchiesta su cui si sono impegnati Falcone, Borsellino e altri stimabili magistrati.
Nessuno ha voluto escludere che possa essere tra le concause delle stragi. La domanda, rimasta senza risposta, è quale legame rimane, per i sostenitori di quella tesi, tra Capaci, via d’Amelio e l’intera strategia terroristico-mafiosa che ha portato alle stragi di via dei Georgofili, di via Palestro e agli attentati a Roma.
Tutto solo per “una tangentopoli in salsa siciliana”? È una domanda legittima o nasconde una volontà di rimozione? È in corso su questi aspetti un’inchiesta della Procura di Caltanissetta, che certo non si potrà rimuovere e a cui sarebbe opportuno non sovrapporre il lavoro della Commissione.

L’Antimafia, impegnata pressoché esclusivamente sulla ricostruzione di questa vicenda di oltre trent’anni fa, fatica a indagare sulle mafie di oggi, sulle infiltrazioni negli appalti del PNRR o del Ponte sullo Stretto, su quanto le riforme intervenute abbiano inciso sull’efficacia dell’armamentario di contrasto, su come recuperare il gap tecnologico dello Stato nei confronti di organizzazioni criminali che abitano l’universo cibernetico e valutare se le proposte normative in discussione in Parlamento favoriscono o meno questo obiettivo credo condiviso.
Tuttavia, nell’accostarsi al passato per la sacrosanta ricerca di pezzi di verità che mancano, rimane essenziale la ricostruzione del contesto storico-politico in cui maturano le scelte (compiute o mancate) delle istituzioni nella lotta alla mafia e che possono illuminare ancora oggi la strategia di contrasto.
Nel farlo, non si possono trascurare gli elementi di continuità profondi dello specifico fenomeno mafioso: tra cui l’indefettibile connessione tra mafia e politica, che difficilmente può ridursi al tema dell’erogazione degli appalti, come mostrano esperienze e sentenze anche recenti. Proprio Paolo Borsellino diceva che «mafia e politica sono due poteri che insistono sullo stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo!. Pertanto, non era affatto provocatorio chiedere a Mori e De Donno che giudizio generale hanno maturato, dai loro diversi osservatori, sui comportamenti della mafia in una fase di profondo sconvolgimento del sistema politico. E non era affatto peregrino chiedere conto della loro amicizia e simpatia verso personaggi del calibro di Marcello dell’Utri.
I membri della Commissione si occupano di aspetti che vanno al di là della rilevanza penale, non sono magistrati e non devono sostituirsi ad essi, né tanto meno essere considerati un ultimo appello di vicende che hanno avuto o potranno avere un loro risvolto giudiziario.
Molti di noi avevano apprezzato le dichiarazioni della Presidente Colosimo alla Scuola di formazione “Piersanti Mattarella” sul terrorismo nero e il suo possibile coinvolgimento in altre stragi, ben oltre le verità giudiziarie.
Coerenza vorrebbe dunque che la Commissione Antimafia, guardando al passato, non lavorasse su una sola pista scartandone a priori altre.
Ma questo sarà tema dei prossimi mesi. A me premeva soltanto chiarire oggi quanto fuori misura, e fuori bersaglio, sia il suo articolo.
Dopo aver concluso che «probabilmente» Borsellino è morto per «Mafia-Appalti», lei si domanda retoricamente «se Provenzano ride ancora».
Devo ammettere che non sono granché abituato a ridere sul lavoro, che provo a esercitare con disciplina e onore. E se un sorriso è affiorato sul mio volto, è il sorriso amaro di chi vede strumentalizzata dalla destra una vicenda tragica con tesi precostituite e una ricerca unilaterale della verità, per il perseguimento di un disegno politico poco chiaro ma che contribuisce a far perdere credibilità, ruolo e funzione alla Commissione antimafia, istituita in questa legislatura anche con la mia firma per svolgere un compito che non sta svolgendo e di cui ci sarebbe un gran bisogno.
Quanto alla mia onorabilità, gravemente scalfita dai giudizi gratuiti espressi nel suo articolo, provo a difenderla ogni giorno con il mio lavoro. Di cui anche queste righe spero possano essere testimonianza, almeno per i suoi lettori, cittadini a cui un politico deve sempre rendere conto.

GIUSEPPE PROVENZANO
deputato

 

Quei sorrisini sconcertanti di Provenzano sul dossier per cui morì Borsellino…