22.7.2014 Salvatore Borsellino: “L’abbraccio a Ciancimino? Lo rifarei”

 

“Si lo so quell’abbraccio a Massimo Ciancimino in via D’Amelio, nel giorno delle celebrazioni per la strage, ha creato polemiche, a molti non è piaciuto qualche giornalista ci ha scritto sopra. Ma io lo rifarei. Quell’uomo è il principale testimone del processo sulla trattativa. Non sono per nulla pentito”. Lo dice Salvatore Borsellino, fratello del procuratore aggiunto di Palermo, Paolo, ucciso nella strage del 19 luglio 1992 con cinque agenti della polizia di Stato che lo scortavano.
Borsellino aggiunge: “Ho manifestato solidarietà a Ciancimino per le scelte che ha fatto, che paga e pagherà, perchè non vuole che il suo cognome pesi sul figlio così come ha pesato su di lui. Il giudizio penale lo dà la giustizia. So che è stato condannato in via definitiva per riciclaggio. Ma a un uomo che mi chiede di venire in via D’Amelio con suo figlio bambino non posso dire di no. E ho sentito di salutarlo così come ho fatto. Non sono pentito e lo rifarei anche dopo aver letto le critiche”.
“Prima della creazione del movimento delle agende rosse – prosegue – in via D’Amelio venivano anche gli ‘sciacalli’ persone che moralmente sono responsabili della morte di Paolo. Ciancimino ha permesso lo svolgimento del processo Stato-mafia. E’ uno dei principali testimoni se non il principale. Non si è tirato indietro. Questa città, la cosiddetta Palermo bene, che prima affollava le sue feste e accorreva ai suoi inviti ora lo evita e gli volta le spalle. Io no e apprezzo la sua scelta di collaborazione con la giustizia”. LA REPUBBLICA


20.7.2014 Quell’abbraccio da cancellare in via D’Amelio

La maschera di disperata rabbia che disegna il volto di Salvatore Borsellino impone il massimo rispetto per le scelte e le azioni di quest’uomo. In quel suo sguardo spaesato e deciso insieme, si legge il dolore incancellabile per la morte del fratello Paolo e per il gioco a rimpiattino sulla verità che si cela dietro la strage di via D’Amelio condotto da mafie e pezzi deviati dello Stato. Lui, oltre che un cittadino come noi ansioso di sapere finalmente chi e perché ha deciso le stragi del ’92, è anche il fratello del giudice ucciso in via D’Amelio.
Insomma, se per noi le bombe che uccisero prima Falcone e poi Borsellino, insieme alle loro scorte, sono un inquietante mistero di Stato, per lui quel pezzo di storia d’Italia è anche un dolore carnale, ineliminabile. Quell’uomo cerca la verità non solo su un servitore dello Stato ucciso, forse, con la complicità di settori dello Stato (c’è il processo Trattativa, ma non dimentichiamo il depistaggio con arresto di innocenti messo in atto da poliziotti e “avallato” da giudici all’indomani della strage), ma su suo fratello cancellato agli affetti dal tritolo in una strada di Palermo domenica 19 luglio del 1992.
Eppure, neppure quella maschera dolorosamente spaesata può giustificare l’abbraccio tra lui, Salvatore Borsellino, fratello di Paolo e leader del movimento delle Agende rosse e Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, testimone chiave del processo Trattativa (molti uomini di Stato hanno risposto alle domande dei pm solo dopo alcune sue rivelazioni), ma anche condannato per riciclaggio e, con ogni probabilità, ancora custode dei segreti sulla effettiva consistenza del patrimonio, costruito sul sangue e sulla violazione delle leggi, lasciatogli dal padre. Intanto, colpisce l’intensità di quell’abbraccio.
Nelle fotografie, si vede Salvatore Borsellino che quasi si abbandona tra le braccia del figlio di don Vito. 
A quella maschera di rabbia disperata che cerca la verità sulla morte del fratello si può perdonare tutto, ma la ragione impone di valutare gli atti e i simboli che essi disegnano. Se proprio si doveva accogliere Massimo Ciancimino nel giorno della commemorazione in via D’Amelio, poteva bastare una stretta di mano. Perché, sarà anche vero- come ricordano le Agende rosse- che il figlio di don Vito ha “donato” trecento euro per una loro campagna pubblicitaria, ma quell’uomo è pur sempre uno condannato per aver riciclato i soldi del padre, che ne conserva ancora segreti, bancari e non, che nel 2013 (era già teste nel processo Trattativa) fu intercettato al telefono con il suo commercialista, uomo tra l’altro legato alla ‘ndrangheta.
I due parlavano di affari in termini quantomeno inquietanti e Massimo Ciancimino si vantava di poter fare tutto proprio perché era diventato “un’icona dell’antimafia” e, dunque, godeva di una sorta di impunità.  Così, giusto per ricordare che qualcuno- nei giorni successivi a quel 19 luglio del 1992- scrisse sui muri di Palermo, con felice intuizione: “Meglio un giorno da Borsellino che cento da Ciancimino”. E che a Palermo, più che altrove, è sempre bene tener distinti i ruoli e le storie personali. Soprattutto quando queste non sono del tutto chiare.  LA REPUBBLICA