L’ostentazione della valigetta di Paolo Borsellino: intervista a Marco Bertelli

 

Il 30 giugno scorso, circa un mese fa, la valigetta personale di Paolo Borsellino – quella che fu asportata dall’auto ancora in fiamme dalle mani di un capitano dell’Arma, Giovanni Arcangioli, e il cui contenuto, in particolare l’agenda rossa del giudice, fu poi inghiottito nel buio – è stata esibita presso il Transatlantico di Montecitorio, alla Camera dei Deputati. Erano presenti le massime istituzioni, lo Stato nella sua più significativa rappresentanza, per una mostra aperta al pubblico sino al prossimo 30 ottobre.

Giudicato da una parte della stampa un evento di grande valore simbolico e storico, il ricordo del magistrato ucciso il 19 luglio 1992 ha occupato le più alte cariche, a partire dal presidente del Consiglio. Giorgia Meloni non solo ha osservato che il popolo italiano «ha il diritto di conoscere la verità» e ha ribadito come la strage di via d’Amelio abbia rappresentato la miccia che ha fatto esplodere la sua passione per la politica, ma ha anche aggiunto che da quella valigetta è «partito un movimento di popolo che […] ha detto visibilmente no alla violenza, al ricatto, all’omertà a cui la mafia avrebbe voluto condannare l’Italia». Altrettanto commosse le parole del presidente della Camera, Luciano Fontana, soprattutto riguardo l’eredità morale lasciata dal giudice palermitano e il sacrificio delle vittime delle mafie, che ha «contribuito a far maturare nel Paese un profondo sentimento di rifiuto del fenomeno mafioso». Non meno emozionato il ricordo del presidente del Senato, Ignazio La Russa, pervaso, come afferma, da un profondo senso di rabbia, ieri come oggi. Ieri, sgomento perché «non riuscivo ad accettare l’idea che, dopo Giovanni Falcone, la mafia fosse riuscita ad infliggere un altro colpo così crudele»; «trent’anni dopo, dentro di me sento ancora quella stessa rabbia», a cui si unisce, però, l’orgoglio per un simbolo come Paolo Borsellino.

E via discorrendo, senza dimenticare, quelli della premier in particolare, gli elogi alla Commissione parlamentare antimafia. Un concerto affiatato di voci contro la mafia, a quanto pare, ossia contro quel fenomeno plurisecolare ancora oggi piuttosto arzillo e operativo. Non è ben chiaro da dove il presidente Fontana tragga la percezione di un popolo italiano così profondamente pervaso da un sentimento di rifiuto delle mafie, né del tutto chiaro appare il riferimento di Giorgia Meloni all’Italia che avrebbe detto no all’omertà e alla violenza. Ma questo è quanto hanno osservato i nostri rappresentanti istituzionali e questo occorre riportare.

Tuttavia, a fronte non solo della vitalità criminale tutt’altro che scalfita delle mafie – a meno di non voler delineare una sorta di Paese come ci piacerebbe che fosse – ma anche della persistente tendenza del ceto dirigente italiano a rimuovere dal quadro stragista le cointeressenze lunghe, indissolubili, tenaci e ampiamente comprovate da mille e mille analisti del fenomeno tra mafie, eversione di destra, massoneria, servizi segreti e altri segmenti, per così dire, poco democratici della società, qualche problema l’ostentazione della borsa di Paolo Borsellino lo presenta. Intanto, perché, come si è detto all’inizio, la vicenda di Paolo Borsellino è intimamente legata a un’agenda, un’agenda rossa, che era il contenuto della valigetta mostrata nel Transatlantico, di cui non v’è più traccia. Non un’agenda a caso, come è noto a tutti, ma un diario professionale, scivolato in chissà quale cassaforte e contenente chissà quali annotazioni. Come ha scritto in maniera sintetica e pregnante Gianni Barbacetto su “Il Fatto Quotidiano”, «quella presenza dentro la teca evoca un’assenza. Il contenente richiama inesorabilmente il contenuto, scomparso, diventando una silenziosa ma eloquente requisitoria» (4 luglio 2025).

In secondo luogo, l’esibizione della borsa è un problema perché, come fa notare Davide Mattiello in un interessante articolo sullo stesso quotidiano, appare sospetta o, almeno, particolare la tempistica dell’esibizione di quella borsa. Sospetta perché a ridosso di un momento particolarmente complesso per la Commissione parlamentare antimafia, presieduta dalla chiacchierata Chiara Colosimo, per via di una puntata di “Report”, che rilevava le manovre dell’altrettanto chiacchierato generale Mario Mori su quell’organismo parlamentare al fine di muovere il suo attacco contro i magistrati di Palermo che, per anni, lo avevano indagato e processato (30 giugno 2025). In terzo luogo, l’esibizione della borsa è un problema perché fa entrare in rotta di collisione ciò che vorrebbe rappresentare – ossia l’ammirazione per l’impegno del magistrato palermitano, fonte di ispirazione per un identico impegno da parte delle istituzioni nella lotta alle mafie – e ciò che le vicende italiane legate alle stagioni più drammatiche del fenomeno mafioso attestano.

Cosa attestano? Che le stragi, gli attentati, gli omicidi eccellenti, le infinite vittime innocenti delle mafie sono rimasti largamente senza mandanti, ammesso siano sempre stati individuati gli esecutori; si pensi, in tal senso, al delitto Matterella. Attestano che depistaggi – quello relativo a via d’Amelio è tra i più clamorosi e vergognosi – e omissioni, reticenze e archiviazioni hanno percorso l’intera storia repubblicana, ben prima del 1992 e anche dopo quella data. Attestano, ancora, che via via sono scomparsi, con i loro segreti intatti, uomini dello Stato che quello Stato non hanno servito, per usare un’espressione retorica, con fedeltà: Arnaldo La Barbera e altri nomi ancora, compresi quelli di figure nebulose, a cavallo tra i tanti mondi criminali e istituzionali; uno su tutti, Giovanni Aiello, “faccia da mostro”. Senza dimenticare Bruno Contrada, destinatario di una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa emessa nel 2007, ma dichiarata, nel 2017, «ineseguibile e improduttiva di effetti penali» da parte della Corte di Cassazione. E ci si ferma qui, perché è sufficiente.

Detto ciò, davvero risulta strano se Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, a ridosso dell’ostentazione della valigia – «squallida esibizione» l’ha definita –, abbia assunto una posizione di netta condanna nei confronti dell’iniziativa? Chi scrive ha cercato di comprendere meglio la posizione del movimento creato da Salvatore Borsellino, le Agende rosse, appunto, e ha dialogato con Marco Bertelli, tra i fondatori e figura di rilievo del movimento stesso. Il testo integrale dell’intervista è allegato a questo articolo, ma, in sintesi, Bertelli ha sottolineato la sostanziale contraddittorietà tra un’iniziativa pubblica di celebrazione del magistrato morto in via d’Amelio e un’azione di governo che, di fatto, disarticola il suo operato così come quello di Falcone. Circa quest’ultimo aspetto, il mio interlocutore ha elencato, fra gli altri, la questione dei limiti di tempo alle intercettazioni, l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, la questione del decreto sicurezza, che contiene un articolo, il numero 31, in cui si autorizzano, di fatto, i servizi segreti a organizzare e a dirigere associazioni terroristiche. Peraltro, relativamente a questo articolo, Bertelli ha osservato come le richieste dei familiari di vittime delle stragi e delle mafie di interloquire a riguardo con le istituzioni non abbiano ottenuto neanche una risposta.

Nel corso della conversazione, inoltre, il membro delle Agende rosse ha detto di concordare con le osservazioni di Davide Mattiello circa la provvidenziale esibizione della valigia del magistrato per la Commissione parlamentare antimafia e per il clamore seguito alla trasmissione “Report” in cui si evidenziava il ruolo di Mario Mori e le sue manovre, non solo per suggerire consulenti della commissione stessa, ma anche per eliminare Roberto Scarpinato e Federico Cafiero De Raho. L’iniziativa di Montecitorio, in sostanza, ha rappresentato un salutare fattore di deviazione dell’interesse dell’opinione pubblica dal velenoso affaire dell’organo presieduto da Chiara Colosimo.

Quale opinione pubblica, è stata l’ultima domanda. Ossia, è così attenta, ricettiva la società civile? La risposta di Bertelli è interessante, perché, da un lato, sottolinea come, rispetto agli anni a ridosso delle stragi, la società civile si sia, per così dire, adagiata, sia meno combattiva, più sfiduciata; anche in virtù di una certa inerzia politico-istituzionale nei confronti dei misteri che ancora persistono nella nostra storia repubblicana. D’altro canto, però, il mio interlocutore ha osservato che, pur a fatica e con molta tenacia, sia ancora possibile giungere a dei risultati, come attesta la recente sentenza della Corte di Cassazione di Bologna che ha confermato la condanna all’ergastolo per l’ex Avanguardia nazionale, Paolo Bellini, in merito alla strage di Bologna del 2 agosto 1980; ossia la matrice neofascista – accanto a quella piduista – della strage.

Forse, quando anche la vicenda giudiziaria della strage di via d’Amelio avrà trovato risposte alle domande ancora aperte – oggetto di alcune osservazioni di Marco Bertelli –, Salvatore Borsellino potrà guardare alle ostentazioni delle reliquie con minore indignazione. Al momento, pare legittimato a storcere il naso dinanzi a una certa retorica del martirio che male si accorda con le stonature che, lucidamente, il mio interlocutore ha evidenziato in tutta questa vicenda.