
Corrado Augias, 90 anni, nella sua casa di Roma
Corrado Augias, domani su La7 torna «La Torre di Babele».
«Con una puntata dedicata a San Francesco. Indagheremo una figura sfaccettata: poco umile, ma focosa, persino teatrale».
Un po’ come il Papa che da lui ha preso il nome. Che cosa pensa di Francesco?
«Molto coraggio dentro la Chiesa, meno all’esterno, dove ha tenuto posizioni caute».
E di Leone XIV?
«Ci sono cose che non mi convincono: ha ricevuto il presidente israeliano Herzog e sappiamo pochissimo di quello che si sono detti».
Sua nonna ha avuto due dèi, quello degli ebrei e poi quello dei cattolici. Lei ha studiato dai preti, ma si dichiara ateo.
«C’è stato un periodo, da giovane, in cui ho persino vissuto in un kibbutz. Oggi concepisco la spiritualità in modo diverso. Ho rispetto per figure come Cristo e Francesco, allargo l’idea di amore verso i miei simili, rifletto sulla morte con serenità, ma non credo in un dio».
Un’idea panteistica alla Lucrezio?
«Piuttosto una spiritualità terrena alla san Francesco. Il resto, sono solo favole».
A gennaio ha compiuto 90 anni.
«Se penso alla morte? Certo, ma serve a poco: sarò dimenticato. Come è avvenuto a colleghi e amici molto più bravi di me».
Per esempio?
«Andrea Barbato. Doveva andare a fare il vice di Scalfari quando nacque Repubblica, cinquant’anni fa. Alla fine andò al Tg2».
Com’era Scalfari?
«Tra tante cose positive, un vecchio come me deve avere il coraggio di dire anche altro».
Prego.
«Io stavo a New York, prima corrispondente de l’Espresso e poi di Repubblica. Ma volevo tornare in Italia e lo dissi a Eugenio. Lui, pronto: “Ma certo, torna e siederai alla mia destra”. Così chiusi l’ufficio di New York, tornai, ma alla sua destra non mi sono mai seduto».
Ambiente difficile il nostro. Ci vorrebbe la pazienza di Francesco.
«Ma, come dimostreremo a La Torre di Babele, lui era più complesso. Tra gli ospiti ci sarà anche Aldo Cazzullo, che ha scritto un bel libro (Francesco. Il primo italiano, ndr)».
C’è mai stato un momento in cui ha pensato di lasciar perdere?
«Pensi che quando andai in America, per nave persi l’intera casa. Sì, avevamo imbarcato letteralmente tutto: mobili, arredi. Una tempesta travolse un carico di lamiere le quali ridussero le nostre tre stanze in segatura».
Stipendio iniziale?
«Ridicolo. Ma non lo facevo per quello. Ero curioso, ricordo benissimo l’impatto dei Beatles: un italiano, avvezzo alla melodia, coglieva subito l’uso rivoluzionario della musica».
La musica, il suo amore. Abbado o Muti?
«Con Abbado una volta litigai, anzi, fu lui a litigare con me. Facevo una trasmissione in Rai, I grandi direttori d’orchestra. Tutto pronto, dalla produzione al set, un albergo di Vienna. Ma lui, all’ultimo, senza spiegazioni: “L’intervista non la faccio più”. Ci riappacificammo anni dopo. Lo andai a trovare che era malato e mi confidò: “È la musica che mi tiene in vita”».
Lo scrittore più sopravvalutato?
«Alberto Moravia. Ma voglio spiegarlo».
Certo.
«Moravia ha scritto romanzi importantissimi per capire il suo tempo, penso a Gli indifferenti libro fondamentale per cogliere il male italiano vero, l’apatia. Il problema è che poi si è “messo a fare lo scrittore”, cioè aveva una routine di lavoro che è diventata reiterazione».
Lei con «Telefono Giallo» ha indagato in tv i grandi misteri italiani. Che cosa è successo a Pasolini cinquant’anni fa?
«Intanto è morto tragicamente e quello è stato il suo grande lascito, la sua potenza ancora attuale. Poi io non credo né alla versione ufficiale, cioè la vendetta di un ragazzo di vita che non voleva fare certe cose, né alla versione della trappola ordita da chissà quali poteri».
Cesare Garboli lo accostò a Caravaggio nella dismisura e nella «disperata vitalità».
«Pasolini era così. Lo vedevo, solitario, uscire dal cinema, prendersi gli sputi addosso per i suoi film, come per esempio Accattone, e poi sparire nella notte di Roma, entrare in una notte ancora più cupa e segreta. Era tormentato. Una volta, in un articolo, lo presi affettuosamente in giro per le sue performance calcistiche. Ci restò malissimo, da allora ai comizi del Partito Comunista mi salutò freddamente».
Lei è ancora comunista?
«E che cosa vuol dire, oggi?»
Per chi ha votato l’ultima volta?
«Pd. Come tutti».
Enrico Berlinguer.
«Uno che prima di tutto ha fatto politica con l’esempio personale. Correttezza, onestà, trasparenza. Nel mio piccolo, è quello che ho cercato di fare io in novant’anni di vita».
Non le chiedo del governo.
«E fa bene, però una cosa la vorrei dire: nella sinistra, oggi, ci sono figure con enormi potenzialità. Penso a Matteo Renzi: se si togliesse di dosso anche solo una parte di egolatria e quel“fare da toscanaccio”, sarebbe ancora un ottimo leader».
Giuli o Sangiuliano?
«Giuli».
Natalia Ginzburg o Anna Maria Ortese?
«Ortese, senza dubbio».
Fu grazie a «Telefono Giallo» che si riaprirono le indagini sulla strage di Ustica.
«Ricevemmo una telefonata anonima, diceva che c’erano tracce radar di un incidente aereo, subito fatte sparire. Paolo Borsellino decise di indagare. Poi mi ringraziò al telefono».
Natalia Aspesi.
«Una cara amica, come Irene Brin ha trasformato il giornalismo di costume in cosa alta».
Silvio Berlusconi.
«Era il 1994, durante una tribuna politica mi disse che io parlavo come uno del Kgb. Peccato che poi lui sia diventato amico di Putin».
Ma quella voce secondo la quale lei era una spia della ex Cecoslovacchia?
«Un equivoco. Strinsi amicizia con un mascalzone, un vero agente di Praga, che per restare a Roma disse ai suoi che aveva ingaggiato me. Peccato che io non ne sapessi nulla».
Michela Murgia.
«Quando Daria Bignardi mi richiamò in Rai, mi affidò una trasmissione, Quante storie. E inserì anche Murgia, con uno spazio dedicato ai libri. Non avevamo un buon rapporto, devo dirlo. Spesso non ero d’accordo con lei, pur riconoscendone i meriti».
Elon Musk.
«Un pazzo geniale, che, però, ha incontrato Trump. E questo mi fa molta paura».
Che cos’altro le fa paura oggi?
«Poche cose, di certo non la morte».
Una buona morte, però.
«Un grandissimo collega del quale non farò il nome era molto malato, fece venire a casa il medico e, nel più totale silenzio, si fece iniettare una doppia dose di morfina. Tutto fatto, tutto sistemato, senza clamori. Bene, io ho nome e numero di quel medico». di Roberta Scorranese CORRIERE DELLA SERA 13 settembre 2025
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