Le mafie alla conquista dei social: su TikTok la nuova seduzione criminale. Gratteri: «Servono nuove competenze»

 

È dentro questo scenario che nasce il nuovo Rapporto «Le mafie nell’era digitale. Focus TikTok» promosso dalla Fondazione Magna Grecia e curato da Marcello Ravveduto, professore di Digital Public History all’Università di Salerno, presentato al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, alla presenza del procuratore di Napoli Nicola Gratteri, del criminologo Antonio Nicaso e della presidente della Commissione parlamentare antimafia Chiara Colosimo, il Rapporto analizza oltre 6.300 contenuti digitali tra video, emoji, canzoni, brand e hashtag. Un viaggio dentro il cuore dell’immaginario criminale di nuova generazione, dove la mafia si è fatta brand e il brand si è fatto potere. Il lavoro introduce un concetto chiave: la mafiosfera. È un sottoambiente dell’infosfera — la sfera dell’informazione online — che ne copia la struttura per sovvertirne i valori. Là dove la rete dovrebbe garantire trasparenza e partecipazione, la mafiosfera costruisce opacità e manipolazione. Il Rapporto distingue tre livelli: uno endogeno, interno, dove circolano i rituali e i codici di affiliazione; uno esogeno, proiettato verso l’esterno per costruire reputazione; e uno interstiziale, il più insidioso, dove la mentalità mafiosa si fonde con la cultura popolare, normalizzandosi. Ma dietro la superficie glamour resta l’ombra. La ricerca descrive il dark web come il lato invisibile del sistema: lì si muovono traffici, contatti, criptovalute. TikTok – secondo gli estensori del Rapporto – viene utilizzato per costruire consenso; la rete sommersa conserva il comando. È la nuova doppia vita della mafia: in superficie spettacolo, in profondità controllo. Il Rapporto amplia la prospettiva fino al Messico, dove i cartelli del narcotraffico sono stati pionieri della comunicazione criminale: prima su YouTube, poi su TikTok, hanno trasformato boss e sicari in icone virali. Le analogie con i clan italiani sono impressionanti: stessa estetica, stesso linguaggio, stessa economia del consenso. A sintetizzare la metamorfosi è Antonio Nicaso, autore della prefazione: «Oggi le mafie sono sempre più algoritmiche, avendo compreso l’importanza delle nuove tecnologie in un mondo sempre più interconnesso che richiede nuovi saperi e nuovi protocolli d’indagine», afferma. Poi rilancia la lezione di Falcone, aggiornata all’era digitale: «Lui suggeriva di seguire il denaro per comprendere, intercettare e contrastare le mafie. Questo Rapporto ci fa capire che non è più così. Le mafie non sono più soltanto denaro, trame e violenza, sebbene strategica: oggi si muovono tra server, blockchain, social media e flussi digitali. E chi vuole combatterle deve diventare cacciatore di flussi, lettore di sequenze nascoste, interprete dei mondi digitali visibili e invisibili. “Follow the Flow” potrebbe essere la nuova strategia nel contrasto alle mafie che sono sempre più ibride e algoritmiche». Un concetto che Nicola Gratteri traduce in azione: «Il crimine organizzato si evolve. Chi vuole combatterlo deve fare altrettanto, imparando a leggere i flussi, interpretare le sequenze, trasformare dati in strategie di contrasto. Bisogna contrastare le mafie nel dominio digitale: è fondamentale quindi svecchiare i protocolli d’indagine, aggiornandoli alle nuove sfide tecnologiche e criminali, e dotarsi di personale altamente qualificato dal punto di vista informativo. Solo attraverso un approccio professionale e competente è possibile raccogliere, analizzare e utilizzare i dati in maniera efficace. Parallelamente, è necessario omologare la strategia normativa, garantendo coerenza e continuità nell’azione di contrasto, evitando discontinuità che possano indebolire la capacità dello Stato di fronteggiare questo tipo di minacce».

A popolare questo spazio ibrido è il «mafiofilo», l’utente che interpreta la cultura criminale come identità da indossare. Non è affiliato, ma un prosumer — produttore e consumatore insieme — che trasforma il potere mafioso in fiction virale. La paura diventa merchandising. Ravveduto lo spiega così: «Oggi la mafia usa il linguaggio di un brand e, al pari di un brand, si fa pubblicità e si vende. Evoca il potere non tanto con la violenza, quanto secondo le logiche del mercato». Lo studio introduce due pratiche simboliche: mobstering e mobinfluencing. Il mobstering è l’esibizione: selfie con pose intimidatorie, video di sostegno ai detenuti («La galera è il riposo del leone»), canzoni neomelodiche come colonna sonora del rispetto. Il mobinfluencing è la fase successiva: mafiosi o simpatizzanti che diventano influencer, ostentano lusso, beneficenza, spirito di quartiere. Il potere si fa reputazione, la reputazione mercato.