L’ex procuratore in Antimafia dimentica che nel 1995 fu proprio lui a difendere l’operato di La Barbera, sostenendo che le ritrattazioni del pentito fossero frutto di pressioni mafiose
Martedì scorso, in commissione Antimafia, è proseguita l’audizione dell’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli nell’ambito delle indagini sulla strage di Via D’Amelio.
La sua è stata una legittima ricostruzione che, però, presenta diversi errori dovuti – come lui stesso ha ammesso rispondendo a una domanda della presidente Chiara Colosimo – al fatto di non aver mai letto le motivazioni delle sentenze sulla strage di Via D’Amelio, se non in sintesi. Ecco perché ha sostanzialmente liquidato come “del tutto inconsistente” la pista mafia-appalti, concausa dell’accelerazione della strage. Come abbiamo scritto più volte su queste pagine, sentire magistrati a distanza di 34 anni dai fatti non ha più senso: la memoria è inevitabilmente labile. Contano di più i documenti, i quali raccontano storie diverse.
La sua è stata una legittima ricostruzione che, però, presenta diversi errori dovuti – come lui stesso ha ammesso rispondendo a una domanda della presidente Chiara Colosimo – al fatto di non aver mai letto le motivazioni delle sentenze sulla strage di Via D’Amelio, se non in sintesi. Ecco perché ha sostanzialmente liquidato come “del tutto inconsistente” la pista mafia-appalti, concausa dell’accelerazione della strage. Come abbiamo scritto più volte su queste pagine, sentire magistrati a distanza di 34 anni dai fatti non ha più senso: la memoria è inevitabilmente labile. Contano di più i documenti, i quali raccontano storie diverse.
IL CASO SCARANTINO
Così accade che, anche alla domanda sul falso pentito Vincenzo Scarantino, Caselli risponda che lui, da procuratore della Procura di Palermo, non ne sapeva niente. Anzi, afferma: «Quando i colleghi di Palermo lo ascoltarono, in particolare il collega Sabella, capirono subito che era un bluff. Quello che riguarda Scarantino riguarda la Procura di Caltanissetta, non Palermo.
So che fu accusato di calunnia e che fu ascoltato da Sabella, che lo ritenne totalmente inaffidabile». Il problema è che Caselli ha dimenticato un pezzo importante della storia. Siamo nel 1995 quando Scarantino ritrattò le sue false accuse, arrivando a confessare le sue calunnie a Studio Aperto.
So che fu accusato di calunnia e che fu ascoltato da Sabella, che lo ritenne totalmente inaffidabile». Il problema è che Caselli ha dimenticato un pezzo importante della storia. Siamo nel 1995 quando Scarantino ritrattò le sue false accuse, arrivando a confessare le sue calunnie a Studio Aperto.
È storia nota che l’allora Procura di Caltanissetta, subito dopo la messa in onda dell’intervista, ne impose la distruzione dagli archivi e perfino dai server.
Ma ormai aveva fatto scalpore. Non solo. Sempre nel ‘95 fu resa pubblica una lettera inviata un anno prima dalla moglie dello pseudo- pentito Vincenzo Scarantino, contenente accuse nei confronti dell’allora questore di Palermo Arnaldo La Barbera.
Ma ormai aveva fatto scalpore. Non solo. Sempre nel ‘95 fu resa pubblica una lettera inviata un anno prima dalla moglie dello pseudo- pentito Vincenzo Scarantino, contenente accuse nei confronti dell’allora questore di Palermo Arnaldo La Barbera.
Ed ecco che proprio Caselli, in una conferenza stampa del 28 luglio 1995, ribadendo la solidarietà a La Barbera, lanciò l’allarme per la divulgazione di notizie “inquinate e inquinanti”.
L’allora procuratore sottolineò che le indiscrezioni pubblicate in quei giorni su Scarantino «provengono da un ambiente familiare “pressato” da Cosa Nostra e che a sua volta intende ’ pressare’ chi si è dissociato per farlo ritrattare».
Secondo Caselli, quelle iniziative avrebbero avuto un duplice obiettivo: «Il primo, specifico, è quello di turbare la ricostruzione di fatti di reato; l’altro, più in generale, è quello di contribuire a una campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia».
L’allora procuratore sottolineò che le indiscrezioni pubblicate in quei giorni su Scarantino «provengono da un ambiente familiare “pressato” da Cosa Nostra e che a sua volta intende ’ pressare’ chi si è dissociato per farlo ritrattare».
Secondo Caselli, quelle iniziative avrebbero avuto un duplice obiettivo: «Il primo, specifico, è quello di turbare la ricostruzione di fatti di reato; l’altro, più in generale, è quello di contribuire a una campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia».
Quindi, di fatto, all’epoca Caselli difese l’operato dei suoi colleghi nisseni. Disse che Scarantino avrebbe ritrattato le accuse per pressione della mafia. Va dato atto che non fu l’unico. Così come non è vero che i procuratori di Palermo dettero un contributo importante per sconfessare lo pseudo pentito.
Per loro stessa ammissione, pur sapendo che Scarantino non era affidabile (all’epoca si autoaccusò di vari omicidi e i procuratori palermitani non gli credettero), non intervennero presso la Procura di Caltanissetta per avvertirla. Ciò è verificabile anche al processo “Bo ed altri” del 13 dicembre 2019: grazie alle domande poste dal pubblico ministero Gabriele Paci all’allora magistrata nissena Annamaria Palma, emerge che a Caltanissetta non era arrivato nulla sugli accertamenti fatti su Scarantino dalla Procura di Palermo.
Quindi poco conta averlo detto dopo, quando, di fatto, i processi si erano già “scarantinizzati”. Non solo. È storia nota che le primissime collaborazioni di Scarantino avvenivano in maniera congiunta tra i magistrati nisseni e quelli palermitani, nello specifico Gioacchino Natoli.
IL “NIDO DI VIPERE”: NON SOLO GIAMMANCO
Sull’espressione di Paolo Borsellino nei confronti della Procura di Palermo di allora, Caselli la riduce esclusivamente a problemi con il capo procuratore Pietro Giammanco.
Ma tutto ciò non rende giustizia ai fatti e si rischia di ridurre il tutto a un problema di incomprensioni con il proprio capo. Borsellino parla di “nido di vipere”, al plurale, e non è un caso.
Ma tutto ciò non rende giustizia ai fatti e si rischia di ridurre il tutto a un problema di incomprensioni con il proprio capo. Borsellino parla di “nido di vipere”, al plurale, e non è un caso.
Per comprendere la portata del problema, è interessante riprendere ciò che il saggista Vincenzo Ceruso riportò in uno dei suoi ultimi libri, in particolare “L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Interessante perché, durante l’audizione, lo stesso Caselli ha tirato una stoccata a Ceruso, insinuando che abbia accusato gratuitamente gli allora colleghi di Borsellino.
Ma sono i documenti e le testimonianze a parlare. Ne riportiamo solo alcuni. Antonino Caponnetto, settembre ’ 92, riferendosi a Borsellino: “Esprimeva valutazioni analoghe a quelle di Falcone sullo staff dirigenziale della Procura”. Rita Bartoli Costa, deputata comunista e moglie del procuratore Gaetano Costa, viene citata ancora da Caponnetto subito dopo l’estate del ’ 92: “Ha parlato spesso di tre grandi aree: i magistrati che si dedicano con passione alle grandi inchieste antimafia; quelli che non emergeranno mai dal limbo dell’inefficienza, che hanno sempre una ragione in più per rinunciare a indagare, una grande e influente zona grigia; e infine quelli che stanno dall’altra parte”. Agnese Borsellino, al primo processo sulla strage di via D’Amelio: “Mio marito era delegittimato”. Chiaramente non dalla politica, visto che aveva sostegno dal ministero della Giustizia, ma dalla Procura. Borsellino stesso, il 6 luglio ’ 92, intervistato da Luca Rossi a proposito dell’ipotesi di trasferirsi nella capitale per dirigere la nuova Superprocura, rispose: “Che cosa posso coordinare da Roma se nessuno fa più indagini in Sicilia?”. Ridurre il problema solo a Giammanco non rende giustizia.
I MAGISTRATI INFEDELI
E a proposito di magistrati infedeli, Caselli stesso ha ammesso di non aver letto approfonditamente le sentenze.
Per questo, non conoscendo gli atti, rifiuta l’idea che ci potessero essere stati magistrati legati ad altri ambienti opachi. Eppure, se le risultanze processuali hanno ancora un senso, in diverse sentenze sulle stragi rimangono cristallizzati alcuni fatti. Ad esempio, rimarranno scolpiti questi passaggi della sentenza d’appello del 2000 sulla strage di Capaci, che poi saranno ripresi anche nel Capaci bis del 2017 e, in parte, anche dalle sentenze sulla strage di Via D’Amelio.
Per questo, non conoscendo gli atti, rifiuta l’idea che ci potessero essere stati magistrati legati ad altri ambienti opachi. Eppure, se le risultanze processuali hanno ancora un senso, in diverse sentenze sulle stragi rimangono cristallizzati alcuni fatti. Ad esempio, rimarranno scolpiti questi passaggi della sentenza d’appello del 2000 sulla strage di Capaci, che poi saranno ripresi anche nel Capaci bis del 2017 e, in parte, anche dalle sentenze sulla strage di Via D’Amelio.
In questo passaggio delle motivazioni c’è la versione di Angelo Siino, il quale, pur non rivestendo il ruolo di uomo d’onore, ha impostato la propria esistenza criminale all’interno dell’ambiente imprenditoriale-politico- mafioso: «Ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’on. Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto cosiddetto “mafia-appalti” ed in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze”.
Qui c’è la versione di Brusca, riportata dai giudici, quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi- Gardini e l’ingegnere Bini: «Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese (la cava Bigliemi e una società Calcestruzzi) al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che l’ing. Bini rappresentava il gruppo in Sicilia e la Calcestruzzi S. p. A.; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome; che Salvatore Riina, in epoca precedente all’interesse per l’impresa Reale, si era lamentato del fatto che i Buscemi non mettevano a disposizione dell’intera organizzazione i loro referenti”.
Ad oggi non sono stati individuati i magistrati infedeli. Ma Caselli non c’entra nulla, visto che da decenni è un continuo imperversare di piste devianti.
CASELLI in COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA

