Si riporta qui di seguito il bellissimo intervento della dottoressa LUCIA BORSELLINO, in occasione dell’omaggio a Falcone e Borsellino promosso dall’ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI all’Asinara nei giorni 4 e 5 ottobre per ricordare la loro estate dell’85 nell’isola.
5 ottobre 2025 LUCIA e MANFREDI BORSELLINO all’ASINARA
Il ricordo di LUCIA BORSELLINO riportato nel libro di Umberto Lucentini “PAOLO BORSELLINO 1992 – … La verità negata”
«È stato un periodo drammatico della mia vita, e papà ne ha sempre parlato nelle interviste o in pubblico: anche per lui è stato un trauma. Alcuni hanno insinuato che mio padre ha ingigantito tutto per impietosire chissà chi: in realtà ha raccontato solo una parte dei nostri drammi.
Certo, adesso chi mi incontra si accorge che sto bene. Ma chiunque legga un libro di medicina scopre che dall’anoressia si può guarire solo se si trova la forza per farlo e che in seguito non ci si ricade più.
Ma se questa forza non la si trova, è una malattia che può durare per anni e portarti alla morte. I veri motivi che mi hanno indotto a non mangiare più li ho scoperti solo a vent’anni, dopo averne parlato tanto con mio padre. Mi sono resa conto che per me quell’estate appena iniziata è la prima da “donna”, e che la sto sacrificando perché la vita di mio padre è in pericolo. Sono sempre stata una ragazza timida,
Certo, adesso chi mi incontra si accorge che sto bene. Ma chiunque legga un libro di medicina scopre che dall’anoressia si può guarire solo se si trova la forza per farlo e che in seguito non ci si ricade più.
Ma se questa forza non la si trova, è una malattia che può durare per anni e portarti alla morte. I veri motivi che mi hanno indotto a non mangiare più li ho scoperti solo a vent’anni, dopo averne parlato tanto con mio padre. Mi sono resa conto che per me quell’estate appena iniziata è la prima da “donna”, e che la sto sacrificando perché la vita di mio padre è in pericolo. Sono sempre stata una ragazza timida,
riservata.
Quell’anno, invece, sento che sto cambiando, sto per diventare grande. Mi sono creata un gruppo di amici nuovi, ho tanti progetti di gite al mare e di feste.
Qualche giorno dopo il delitto Cassarà, invece, mio padre mi chiama in disparte: “Lucia, prepariamo le valigie: domani dobbiamo partire”.
All’inizio la prendo come una notizia tutto sommato bella. Da mesi mio padre fa la vita da recluso in ufficio, tutta la famiglia non va in viaggio ormai da troppo tempo.
Non mi pongo, non ancora, il problema di quale sia la meta. Gli domando, per istinto: “Lo hai deciso tu? La mamma e i fratellini lo sanno?”. “No, Lucia, forse è meglio se lo dici tu”.
Solo allora, quando realizzo che nessuno sa del viaggio, capisco che è una partenza forzata. Mi ci vuole poco, d’altra parte: so della morte di Cassarà, un nome che mio padre ha pronunciato spesso a casa parlando del suo lavoro; sono tornati da poco dal Brasile, per un’indagine legata al maxiprocesso. E così collego la partenza a un serio pericolo per l’incolumità di mio padre.
Il pomeriggio, a poche ore dalla partenza, con la massima ingenuità, gli chiedo: “Posso fare almeno una spaghettata a casa per salutare i miei amici e dire loro che parto?”. Mi guarda con un’occhiataccia, sento il desiderio di sprofondare, non riesco a capire del tutto perché reagisce in quel modo. “È una risposta che ti darò fra un paio d’ore”, fa lui. Me lo spiega in seguito, perché ha preso tempo prima di darmi il permesso: deve chiedere l’autorizzazione a Roma, al ministero degli Interni, e al consigliere Caponnetto. Mentre io e lui parliamo della spaghettata, senza accorgercene, la casa di Villagrazia viene circondata da carabinieri e polizia in assetto di guerra.
Arriva anche un mezzo corazzato, sembra un carro armato. Resteranno lì anche dopo la nostra partenza. Certo, non è il giorno adatto per acconsentire a una festa, ma pur di non far pesare ancora di più i rischi del suo lavoro, mi dice di sì.
Lo slargo di fronte alla villa è zeppo di auto blindate, ogni ospite viene controllato, non è usuale per dei ragazzi che vanno a una festa. È tutto così strano anche per me: nella notte, dopo che i miei amici saranno andati a casa, partirò per una destinazione ignota, senza poter spiegare loro cosa mi sta succedendo.
Quell’anno, invece, sento che sto cambiando, sto per diventare grande. Mi sono creata un gruppo di amici nuovi, ho tanti progetti di gite al mare e di feste.
Qualche giorno dopo il delitto Cassarà, invece, mio padre mi chiama in disparte: “Lucia, prepariamo le valigie: domani dobbiamo partire”.
All’inizio la prendo come una notizia tutto sommato bella. Da mesi mio padre fa la vita da recluso in ufficio, tutta la famiglia non va in viaggio ormai da troppo tempo.
Non mi pongo, non ancora, il problema di quale sia la meta. Gli domando, per istinto: “Lo hai deciso tu? La mamma e i fratellini lo sanno?”. “No, Lucia, forse è meglio se lo dici tu”.
Solo allora, quando realizzo che nessuno sa del viaggio, capisco che è una partenza forzata. Mi ci vuole poco, d’altra parte: so della morte di Cassarà, un nome che mio padre ha pronunciato spesso a casa parlando del suo lavoro; sono tornati da poco dal Brasile, per un’indagine legata al maxiprocesso. E così collego la partenza a un serio pericolo per l’incolumità di mio padre.
Il pomeriggio, a poche ore dalla partenza, con la massima ingenuità, gli chiedo: “Posso fare almeno una spaghettata a casa per salutare i miei amici e dire loro che parto?”. Mi guarda con un’occhiataccia, sento il desiderio di sprofondare, non riesco a capire del tutto perché reagisce in quel modo. “È una risposta che ti darò fra un paio d’ore”, fa lui. Me lo spiega in seguito, perché ha preso tempo prima di darmi il permesso: deve chiedere l’autorizzazione a Roma, al ministero degli Interni, e al consigliere Caponnetto. Mentre io e lui parliamo della spaghettata, senza accorgercene, la casa di Villagrazia viene circondata da carabinieri e polizia in assetto di guerra.
Arriva anche un mezzo corazzato, sembra un carro armato. Resteranno lì anche dopo la nostra partenza. Certo, non è il giorno adatto per acconsentire a una festa, ma pur di non far pesare ancora di più i rischi del suo lavoro, mi dice di sì.
Lo slargo di fronte alla villa è zeppo di auto blindate, ogni ospite viene controllato, non è usuale per dei ragazzi che vanno a una festa. È tutto così strano anche per me: nella notte, dopo che i miei amici saranno andati a casa, partirò per una destinazione ignota, senza poter spiegare loro cosa mi sta succedendo.
Nemmeno mio padre, prima di partire, conosce la destinazione. Ho il sospetto che voglia tenermela nascosta, invece non mente: ci comunicano dove andremo solo quando siamo già in volo, partiti dall’aeroporto di Punta Raisi a bordo di un aereo dei servizi segreti verso l’Asinara.
Durante il viaggio papà spiega cos’è accaduto, rivela i timori legati all’esito dell’istruttoria del maxiprocesso, le minacce di morte contro di lui e contro noi familiari.
Su quell’aereo ci ritroviamo noi Borsellino, Giovanni Falcone con Francesca Morvillo e la madre».
Durante il viaggio papà spiega cos’è accaduto, rivela i timori legati all’esito dell’istruttoria del maxiprocesso, le minacce di morte contro di lui e contro noi familiari.
Su quell’aereo ci ritroviamo noi Borsellino, Giovanni Falcone con Francesca Morvillo e la madre».
L’isola al nord della Sardegna, un paradiso naturale, è immersa nel silenzio. La abitano le guardie carcerarie con le loro famiglie, gli impiegati dell’istituto penitenziario, i detenuti. E gli asini bianchi, una specie protetta e in via di estinzione, scorrazzano liberi. «Da Alghero raggiungiamo l’Asinara con un motoscafo della polizia penitenziaria.
La prima impressione è positiva.
Il mare, il sole, la compagnia dei miei genitori, dei loro amici. La foresteria dove alloggiamo è accogliente. Ma, dopo una settimana, sento l’inquietudine crescere.
Voglio stare sola, mi ritrovo a piangere di nascosto e in continuazione. Sono l’unica ragazza dell’isola, ho sedici anni, e nessuna amica con cui parlare.
Il disagio resta latente ancora per qualche giorno».
La prima impressione è positiva.
Il mare, il sole, la compagnia dei miei genitori, dei loro amici. La foresteria dove alloggiamo è accogliente. Ma, dopo una settimana, sento l’inquietudine crescere.
Voglio stare sola, mi ritrovo a piangere di nascosto e in continuazione. Sono l’unica ragazza dell’isola, ho sedici anni, e nessuna amica con cui parlare.
Il disagio resta latente ancora per qualche giorno».
Neanche Fiammetta ha dimenticato quel periodo di soggiorno obbligato. Ne parla così: «Le nostre giornate trascorrono facendo il bagno, prendendo il sole, mentre papà e Giovanni sono rinchiusi in uno sgabuzzino, coperti da carte, a scrivere, leggere. I momenti di relax, per loro, sono pochi anche lì.
L’unica persona che vedo veramente rilassata e divertita, come non è mai accaduto prima, è proprio Giovanni.
Quando non lavora vuole divertirsi ogni secondo, cerca di fare tutto ciò che le inchieste e la vita blindata gli impediscono.
L’unica persona che vedo veramente rilassata e divertita, come non è mai accaduto prima, è proprio Giovanni.
Quando non lavora vuole divertirsi ogni secondo, cerca di fare tutto ciò che le inchieste e la vita blindata gli impediscono.
È allegro, racconta in continuazione barzellette, pesca, scherza con tutti. Forse solo all’Asinara si è sentito finalmente libero. Per mio padre è tutto diverso.
Fosse stato solo, avrebbe potuto rilassarsi, divertirsi un po’ anche lui.
Fosse stato solo, avrebbe potuto rilassarsi, divertirsi un po’ anche lui.
Costringere altre quattro persone a fare quella vita lo opprime: si è sempre sottoposto serenamente a qualsiasi sacrificio che il lavoro gli ha imposto, ha cercato i lati positivi di ogni esperienza. Ma è consapevole che per noi non è lo stesso, lo vedo teso, nervoso, si sente in colpa».
«Sono lì da una settimana quando decido passeggiare, di esplorare un po’mquest’isola dove ci hanno spedito lontano dal pericolo di vendetta della mafia. È il momento in cui mi rendo conto che nemmeno all’Asinara possiamo stare tranquilli.
Quante volte in vita mia mi sono pentita di quella passeggiata: nell’attimo in cui metto un piede fuori del giardino che circonda la foresteria e mi incammino con mia sorella tra i campi, scorgo un corteo di persone che ci seguono, si nascondono dietro i cespugli, con i mitra spianati, cercando di non farsi vedere da noi. Mi crolla il mondo addosso, altro che rifugio sicuro.
Quante volte in vita mia mi sono pentita di quella passeggiata: nell’attimo in cui metto un piede fuori del giardino che circonda la foresteria e mi incammino con mia sorella tra i campi, scorgo un corteo di persone che ci seguono, si nascondono dietro i cespugli, con i mitra spianati, cercando di non farsi vedere da noi. Mi crolla il mondo addosso, altro che rifugio sicuro.
Da quell’attimo mi passa la voglia di passeggiare, di fare qualsiasi cosa. Mi rinchiudo in camera per cinque giorni di fila. Non ho più fame, ogni giorno che passa è sempre peggio. Mio padre capisce subito cosa sta succedendo. Io no: quando mi chiede “perché non mangi?” non so dargli risposta. Gli dico che vorrei tornare a casa.
Papà sa che il rischio è altissimo, ma non sente ragioni: prende me e Fiammetta, ci infila in gran segreto in elicottero e ci accompagna fino a Palermo. Restiamo con i nonni a Villagrazia, lui torna all’Asinara dove rimane con mamma e Manfredi fino ai primi di ottobre. Ultimata la stesura della sentenza di rinvio a giudizio del maxiprocesso, l’emergenza sembra passata».”
LUCIA, MANFREDI e FIAMMETTA BORSELLINO: “Quando fummo “deportati” all’Asinara”